Se volete capire che razza di scrittore è Fabrizio Venerandi collegatevi a internet. Già, perché più che per le sue pubblicazioni cartacee – che pure non mancano – questo autore genovese, nato nel 1970, è noto soprattutto per le sue “presenze” in rete. Potremmo cominciare dalla voce enciclopedica a lui dedicata su Wikipedia, dove si dichiara che l’opera più rappresentativa della sua poetica è Persone unite contro Goldrake, di fatto un eterogeneo elenco di nomi che attinge alla storia antica come al più trito immaginario anni Ottanta.
Ma sbaglierebbe chi liquidasse questo scrittore come un autore di divertissement postmoderni. Il sostrato di Venerandi è fatto di una sensibilità umanissima, tragica, che il lettore attento non può non scorgere se appena appena gratta la crosta scherzosa delle sue parole. Chi scrive queste righe fu folgorato sulla via di Genova diversi anni fa leggendo un breve racconto intitolato, se non ricordo male, Io, Cecilia e l’amore infinito, uno degli episodi dell’opera più celebre di Fabrizio Venerandi (Io e Cecilia, appunto, una serie di scenette di vita familiare scritte in stato di grazia dove, in un narrare che ricorda Jerome K. Jerome e Carletto Manzoni, affiorano inaspettate verità esistenziali). Quel racconto lo lessi in rete chissà dove e con un certo disappunto non lo ritrovai nell’antologia L’amore è un cavolfiore (Coniglio Editore, 2006) che riprendeva alcuni episodi già apparsi sulla rivista MacWorld negli anni precedenti.
Dalla carta alla rete e di nuovo alla carta. Blog, antologie, editoria indipendente. Dal suo esordio (Il trionfo dell’impiegato, un poemetto uscito per i tipi dell’Editrice Zona nel 1999) a oggi, Fabrizio Venerandi non è stato certo fermo. Ha animato per anni il blog letterario Lame Rotanti (prima chiuso e poi risorto per l’ennesima volta dalle sue ceneri), si è esibito in performance polivocali con il collettivo poetico Bib(h)icante, ha curato alcune produzioni video, realizzato un videogioco fantasy (ora giocabile on line: www.neonecronomicon.it). E ha scritto, tanto, pubblicando le sue opere sia su internet che in volume. L’ultima sua fatica, ancora inedita, è una silloge di poesie d’amore dedicate a sua moglie e intitolata La rosa, la cosa, di cui offriamo qui una breve selezione. L’ultimo libro edito è di quest’anno e si intitola Altea e loscimmiotto (uscito per la collana Samizdat della Biblioteca Clandestina Errabonda), un surreale romanzo sentimentale che ha per protagonisti una donna mutante e un quadrumane depresso.
Fabrizio, tu sei un autore da sempre interessato alle possibilità offerte dalla tecnologia, da internet e più in generale dalla dimensione digitale delle forme di espressione. Eppure recentemente hai affermato: «Quando posso stare in analogico sono come uno che si siede e si riposa. Tenere in mano un libro, la sua carta, l’impaginazione, i caratteri. Sentire i Carmina e vedere questa folla di persone che suonano e cantano a pochi metri da me. iTunes è annientato dal vero». Mi sembra che questa tua insofferenza verso il digitale stia diventando sempre più insistente. Una specie di crisi artistico-esistenziale che non solo tu, ma tutte le nuove generazioni di autori dovranno affrontare. In sintesi: inchiostro o internet? Dobbiamo scegliere? Possiamo scegliere?
La scrittura è una cosa, pastosa, grossa, che occupa spazi e territori, prende tempo, mercato, idee. Chi ha a che fare con la scrittura sta con i suoi strumenti, le sue persone. l'inchiostro elettronico è una cosa tanto semplice quanto radicale. uno schermo che dà la stessa piacevolezza del leggere della carta, che non manda luce, ma usa la luce d'ambiente. Il pericolo è quello di sentirsi wired, di vedere il progresso come un bene assoluto, se il nuovo è il meglio, allora il vecchio è il peggio. Nella scrittura quasi mai è così. Penso che prima o poi le nuove tecnologie ci permetteranno di amare meglio quelle vecchie e ci faranno trovare un incontro che oggi mi pare che sia molto marginale. Una delle cose che ho fatto dopo otto mesi di convivenza con un iLiad (un dispositivo per la lettura di libri in formato elettronico, n.d.r.), è stato scoprire quanto è bella la carta per certe cose, e di contro come è bello iLiad per altre. Così leggo "La Stampa" e traduco Sallustio con iLiad, e poi mi siedo e faccio calligrafia con un pennino a punta mozza e una boccetta di inchiostro. Ultimamente sto cercando di imparare un font, Foundational. Il fatto di imparare un font invece che installarlo mi fa pensare a quante cose siano nascoste dentro alla scrittura. Sì, io penso che le nuove tecnologie saranno davvero complete quando si integreranno e ci faranno capire il valore di quelle che le hanno precedute. Il mercato di solito la pensa diversamente.
Parliamo di poesia. Come vedi l’attuale scena italiana? Cosa ti piace di meno? Cosa di più? E quali prospettive ci sono per chi oggi si cimenta con questa arte?
La scena italiana mi pare molto ricca, diversificata, e frammentaria. Ci sono realtà locali, accademiche, borderline che spesso si ignorano o effettivamente hanno poco a che fare le une con le altre. È una poesia poco letta e poco venduta, destinata quasi sempre agli addetti ai lavori, o ad altri scrittori e poeti.
Come lettore non mi piace la poesia lirica, alta, preferisco chi la gestisce in questo tempo e con questi materiali, o chi la scompone giocando con i suoi stessi componenti. Non è un giudizio di merito, ma di gusto.
Le prospettive di chi scrive poesia non sono molto esaltanti, secondo me. Però lo strumento è affascinante, è molto sintetico e può emergere o andare in profondità. La cosa migliore è usarlo, prendere la poesia che si sente in giro, andarla a cercare e portare le cose che si fanno. Mi piace la gente curiosa che sa gestire quello che fa, che riesce a percepire il percorso che fanno gli altri e sa seguire il proprio.
Nel 1999 tu hai fondato, insieme ad altri poeti italiani, il Collettivo Bib(h)icante. Raccontaci di questa esperienza e di come si è evoluta nel tempo.
Quando una decina di anni fa io e altri tre poeti genovesi ci siamo trovati a voler condividere un cammino comune di scrittura e di performance, ci è sembrato naturale trovare una "applicazione" della poesia, per farne un materiale che potesse essere utilizzato al di fuori del giro degli addetti ai lavori. Il nostro punto di riferimento era quello dei poeti degli Altri Luoghi, che consideravamo un po' dei fratelli maggiori e che da tempo facevano letture a più voci con testi spesso "teatrali" e scenografici.
Abbiamo quindi iniziato a lavorare scrivendo i versi, riscrivendo quelli degli altri, pensando i nostri lavori per la lettura pubblica. Per qualche anno abbiamo fatto dei veri e propri tour andando a leggere in locali, feste, per strada, portando avanti l'idea di una poesia d'azione. Il Bib(h)icante è stato il nostro modo di fare poesia, ogni lavoro che facevamo era finalizzato al lavoro di gruppo e quindi anche alla perdita della propria autorialità, per acquisirne una collettiva. Quando scrivevo i miei versi non avevo il tempo di affezionarmi alle cose che avevo scritto, perché finivano in mano di qualche altro poeta che cambiava il mio lavoro e lo dava in pasto a qualcun altro. Era un vero lavoro di gruppo, e in alcuni casi, i più fortunati, l'amalgama del gruppo ha funzionato molto bene.
Dopo qualche anno le esigenze dei singoli sono cambiate e il lavoro si è trasformato in un lavoro di coppia, in cui io e Donald Datti abbiamo imbastito un ampio progetto di scrittura a due sul tema del corpo: il corpo come crollo, come malattia, come passione, come bestialità, come prodotto. Abbiamo seguito questa linea e la stiamo seguendo ancora oggi, anche se abbiamo deciso di fare un passo indietro e di lavorare anche su testi più personali che poi affianchiamo senza che sia necessaria una riscrittura completa. se ad esempio le parti del prodotto e del crollo sono state scritte a quattro mani ed eseguite come collettivo, a Reggio Emilia abbiamo performato le Riflessioni attorno al mio cadavere, che è una mia parte del La rosa, la cosa, assieme al progetto Corpo come malattia, che è stato scritto solo da Datti.
Abbiamo deciso di riprenderci un po' del nostro essere autori e proprio per questo abbiamo finito di imbastire Lavori di bocca, un libro per Samiszdat che raccoglie dieci anni di testi e che fotografa il lavoro che zitti zitti abbiamo fatto dal novantanove ad oggi. È anche la fine del Bib(h)icante come nome: a quarant'anni non crediamo di aver più bisogno di fare la boy band.
Circola una leggenda su di te. E cioè che hai affrontato Tiziano Scarpa (recente vincitore del Premio Strega 2009) in una sfida a colpi di poesie. Come sono andate davvero le cose?
Una cosa molto normale, ovvero uno slam poetry a Vercelli organizzato da Francesca Tini Brunozzi. Effettivamente il pubblico rimase divertito dalla mia performance e da quella di Scarpa, tanto che il punteggio finale ci vide vincitori a pari merito. «Dividiamo?», chiese Scarpa. «Mai», dissi io guardando il premio finale, ovvero un cestone di riso e di altre succulente leccornie vercellesi. Lo spareggio finale mi vide soccombere sotto il bestiario di Scarpa.
Da diversi anni leggo quello che scrivi e mi sembra che una caratteristica della tua poetica sia quella di arrivare al cuore delle cose partendo da cliché letterari di scarso valore, presi in prestito dai grandi generi della fantascienza, della pornografia e del fantasy. Mi capita spessissimo di iniziare a leggere le tue cose con un sorrisetto ironico e di finire con uno sguardo misericordioso sulla creazione. Ora però ho l’occasione di chiederlo direttamente all’autore: qual è, se c’è, il comune denominatore di tutto quello che hai prodotto artisticamente fino a oggi?
Credo che sia la memoria. scrivere per me è un esercizio della memoria, anche quando racconto di posti e personaggi improbabili. Vivere significa stare in posti, pensare cose, creare e ricreare elementi che poi vanno persi, si dimenticano e si confondono. Ogni tanto non ricordo se sogno posti in cui sono stato o se luoghi in cui sono stato in realtà erano dei sogni. Mi succede veramente. Scrivere significa fare un'opera di salvataggio. Ogni tanto rileggo le cose che ho scritto per tornare in posti in cui ero stato, o in cui mi ero immaginato di andare, non fa una grossa differenza. Ad esempio un libro che amo molto, Altea e loscimmiotto, descrive nella prima parte una serie di luoghi in cui sono stato in sogno, tipo una villa che per anni e anni è tornata nei miei sogni e in cui ho vissuto una vita parallela a questa. Invece nella seconda parte del libro parlo di un monolocale in cui ho abitato veramente per qualche anno e nel quale non tornerò mai più. A volte la realtà di questo monolocale è talmente debole che mi pare che abbia la stessa consistenza della villa che mi appariva in sogno.
Scrivendo posso far coesistere tutte queste cose; la mia quotidianità e l'amore. È bello anche vedere la freschezza che aveva l'amore di un racconto di qualche anno fa, quando oggi si è trasformato.
L’ultima domanda si ricollega a quella di apertura. Tu adesso stai traducendo Sallustio, per il piacere di farlo. E lo fai utilizzando un modernissimo lettore di e-book. Se fossi costretto, chi butteresti dalla torre? Lo scrittore morto da duemila anni o la scrittura elettronica del 2000?
Se dovessi proprio buttare qualcosa, mi butterei io. Scripta manent. E poi sono sempre stato curioso di sapere cosa c'era sotto alla torre, magari c'è un lago.
Dalla silloge LA ROSA, LA COSA di Fabrizio Venerandi (inedito, 2009)
i
per segni ho imparato il tuo codice fiscale per tentativi d'amore t'ho svocalizzata postdatata incasellata fiscalmente cor teggiata con pezzi improvvisi di bravura t'ho sbucciato le ginocchia con le mani ti ho messo per versi per versa e strasantificata in fichettata t'ho prosata perifrasata t'ho chiamato amo re t'ho chiamata patata eri e sei la cosa senza la quale ogni mio miracolo diventa normale amministrazione
xii
sarò il tuo videogioco per l'estate il tuo sudoku matrilineare la formula attiva lo shampoo verde blu il tuo rosso collutorio la compilation festivalbar zerosei zerosette la manina fredda che tieni fra le tette la pastiglia col delfino il tuo non definitivo amore il tuo consiglio sulla mestruazione interstellare sarò il tuo passato prossimo i tuoi anni '90 sarò il cuoricino ritagliato tra aorta e aorta la tua corona ria che ti pompa alla bocca quella saliva dolcificante che spermaglia chiami ma è il mio latte allucinante
xvi
se dopo tredici anni ti canto ancora cose d'amore non vuole mica dire ke tvtb) ma che mi sono incantato incanta trice cobrata che con la tua saliva mi hai dentato il collo, avvelenata -trice) di ogni mio respiro mangiato dalla tua bocca strapiena di anima li saporosi di carne tua -linguacciuta istrice spinosa) di baci sanguinosi, di questa cosa, di questo nostro maiuscolo muscolo rosa
xxii
questo nostro giglio, questo figlio, è uscito una cosa morbida e veloce , un ranocchio di cose melodiose ama i mostri marini e i maschi gormiti ha una faccia nostra amabile e patata, ha una fretta di mettere su denti e voci nuove, ci abbraccia già adesso per fare le prove di quando ci stringerà come spugnette dei piatti, oggi, amore, mi ha detto che passa le notti sotto le coperte a leggere libri e fare parole riflesse nella stella ikea di plastica blu, amore, e sa quello che voglio io quello che vuoi tu e ce lo fa, perché è un essere carnivoro e geloso, ma è generoso
xxv
se per amare ho bisogno di una cosa, un odo re secco da saporare, vedo, amore, cosa siamo oggi e cosa non saremo domani, cara, una gazzella e una morte nel cuore, una ferita che lacrima semi e spore, muccilacinosi sensi e parole che -ieri- mi hai detto che non vogliono dire niente: hai paura di ogni anno che passa e vorresti essere muta eppure; ogni tuo sorriso è un trionfo di bacco e arianna in genova centro e alucce di esserini potenti e misericordiosi; quando ti dico che ti amo con la bocca terrorizzata, lo dico senza voce, guardo satelliti nel cielo e tutto questo peso del mondo, della volta stellare, del mare notturno non valgono niente di fronte al tuo mistero di oggi, di quella cosa che non sai dire di quella parola che è rimasta morta dentro al cannocchiale rovesciato da cui -vedi- guardi un futuro microscopico e vuoto come un frigo rifero abbandonato nel letto, su cui scrollano i tuoi temporali di bottiglie sbucciandomi piedi e lingue poliforcute con cui in distanza riprovo questo canto stronzo, questa tenera danza.
* * *
se credi che io non penso davvero all'amo- alla morte, vedi amore ci penso, seduto in uff icio sono una forma, una cosa qualunque e potrei alzarmi e fare due passi fino alla fine stra e buttare la testa dall'altra parte e vedere di fronte un palazzo con le malate menta li che muovono la testa, la grattano e non mi vedono che mi guardo di sotto e mi faccio caro gna, sfondando la fiat panda dell'istituto con il peso di questa mia cosa qualunque questa pietra amorosa che mi tengo dentro e che mi somiglia informe sostanza a forma di cosa, di rosa, e che chiamo fabrizio e che amo e che odio e che spinge in basso ogni rovina [favolosa
* * *
mi chiedo se quando non ci sarò più non ci sarò nemmeno stato come prendere la punta di una lingua e tirare la lingua e vedere il nastro che si trascina dietro il suo essere stata tra dente e dente e vedere la lingua venire via come una stella filante di cose dette o corpi abbandonati su una sedia per ore a muovere le dita o gli occhi e poi pensare a cosa a cose, tutto su quel nastro che adesso -amore- tieni in mano come una stella -dicevo- un fila mento che tiri e strappi senza rumore verso di te fino a sentire che niente fa frizione, una cosa bianca che rimane per un attimo per aria e poi abbassi gli occhi e c'è il mio cadavere che ti guarda -cara- e tu dentata lo sgusci: e non mi riconosci
Bibliografia di Fabrizio Venerandi
OPERE IN VERSI
- Il trionfo dell'impiegato (Zona, 1999)
- Il Doctoribus cadde (Ifiglibelli, 2002)
- Monitor (Ifiglibelli, 2005)
OPERE IN PROSA
- Pantagrognomicon (romanzo, Di Salvo, 2001)
- L'amore è un cavolfiore (antologia di racconti, Coniglio Editore, 2006)
- Giovani surrealisti canadesi (raccolta di racconti, Ifiglibelli, 2007)
- Altea e loscimmiotto (romanzo, Biblioteca Clandestina Errabonda, 2009)
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