Dopo il servizio militare svolto tra l’Arsenale di La Spezia e la scuole C.E.E.M. di San Vito di Taranto, con elevata sproporzione a favore delle scuole pugliesi della Marina, mi venne proposto di far parte dell’equipaggio della Saipa Terza, barca per la pesca atlantica d’altura con previsioni di trasporto finale in Italia di trecento tonnellate di pesce congelato.
Avevo appena conosciuto colei che sarebbe diventata, dopo molti anni, mia moglie e mi convinse ad accettare l’imbarco la necessità di mettere da parte qualche soldo, per avviarmi in breve a formare la mia propria famiglia, benché la predestinata non avrebbe voluto legarsi con un marittimo destinato a restare fuori di casa la maggior parte dell’anno.
Anche se non ero certo dedito a fare calcoli all’età di 23 anni, compresi che l’impegno a mare costituiva la migliore scorciatoia per mettere in ghiaccio una discreta somma di denaro. Poiché, al di là di un mensile più congruo di quello corrisposto per un lavoro similare in terra, vigeva il vantaggio di non dover spendere nulla per mesi e mesi di navigazione, salvo per qualche bevanda extra, acquistabile tramite il cuoco di bordo con trattenuta finale sulla busta paga.
Una verità che trovava la sua massima ragione soprattutto sulla Saipa Terza, ove toccavi terra in occasione dello scalo di Las Palmas – quello di avvio della compagnia di pesca sui banchi disseminati presso i tratti di mare delle coste nord e sudafricane – e quello successivo, nello stesso porto isolano, atto al ritorno su Viareggio, con la stiva piena di pesce lavorato e congelato.
La Saipa Terza non superava le mille tonnellate di stazza e in pieno armamento vantava un equipaggio di 28 marittimi, distribuiti nelle varie mansioni. Il corpo ufficiali era formato dal comandante, dal direttore di macchina, dal primo ufficiale di coperta e da quello di pari grado addetto alle macchine di bordo; dai due secondi ufficiali nelle diverse funzioni e dal macchinista, al quale era affidata la comunicazione radio con le Autorità di terra preposte a monitorare la sicurezza della nave.
I sottufficiali erano presenti nelle vesti di nostromo; di caporale di macchina; di frigorista, responsabile del buon andamento del sistema di refrigerazione del pescato; di elettricista; di cuoco, che svolgeva anche la funzione di cambusiere responsabile dell’alimentazione dell’equipaggio; e di retiere, impegno basilare per la conservazione e le riparazioni delle reti da pesca, spesso soggette a rotture e strappi per via dello strascico continuo in fondali sconosciuti e capaci di sorprendere in negativo.
La bassa forza sulla Saipa Terza era formata da otto marinai pescatori, da tre ingrassatori e da un giovanotto di macchina. Da un garzone di cucina, dal cameriere agli ufficiali e dal mozzo. Ci avvalevamo, inoltre, di quattro giovani pescatori ingaggiati nell’isola di Las Palmas, per vegliare sul verricello che bloccava i cavi d’acciaio, guida del sistema pescante durante le continue cale, e per porgere con le picche grandi pesci con la coda sui ceppi, dove specifici addetti recidevano con le mannaie, con taglio diagonale detto del Bargellini, le teste e le interiora degli stessi. Personale qualificato locale, al quale veniva corrisposto una paga giornaliera considerata irrisoria dagli italiani, ma che per loro valeva di più di quanto avrebbero ottenuto su barche spagnole o a terra, sull’isola. Così come era permesso loro di avvalersi di ogni pesce atto alla formazione del baccalà, pescato che la nostra Compagnia riteneva non commerciabile e quindi soggetto a essere ributtato in mare. Simile privilegio era concesso ai quattro isolani per quanto concerneva i polpi in eccedenza, salati e stesi a essiccare a riva sotto il potente sole di quelle zone prossime all’Equatore.
Non ero certo alla mia prima navigazione, avendo sin da ragazzino avuto le mie esperienze a bordo di motovelieri mercantili, però la diversa avventura sulla Saipa Terza la consideravo tutta un’altra cosa. Da quando rimasi meravigliato e stupito dal mio primo passaggio dello Stretto di Gibilterra, che m’era parso come un parco giochi per delfini e per cetacei di grosse dimensioni. il tutto completato dalle numerose varietà di gabbiani e di rondini di mare che formavano un carosello continuo tra cielo e mare.
E poi l’insieme delle correnti marine che si concentravano nell’impatto tra il mar Mediterraneo e l’Atlantico; il plancton e le grandi motte di pesce azzurro che formavano gonfi palloni semigalleggianti di migliaia di unità ciascuno, allestendo una sconfinata catena alimentare per grandi e piccoli predatori. Uno spettacolo visibile a occhio nudo, così come si potevano distinguere facilmente le dimensioni dei capodogli, dei differenti delfini e dei tonni, memorizzando una scena non facilmente riscontrabile altrove.
Las Palmas e l’interno dell’isola che, con la Gran Canaria, Tenerife, Lanzarote, Fuerteventura, Hierro e Gomera, formavano l’arcipelago delle Isole Canarie, mi apparvero come scorci del Paradiso terrestre. Anche se Las Palmas sembrava essere stata edificata con confusione di stili architettonici: dal Coloniale al Gotico, dal Moderno al Liberty. Ma per il sottoscritto valeva soprattutto il clima stabile, mai piovoso, tanto che era inesistente la vendita di ombrelli. Così come non disprezzabili, tra le bellezze locali, quelle femminili, che mostravano il vezzo di chiamare Mario gli italiani in cui s’imbattevano. Tutti conosciuti con quell’unico nome di battesimo, perché forse quello era stato il nome del primo italiano sbarcato su quell’isola spagnola.
Il mio sembrava proprio essere un viaggio all’insegna della scoperta di nuovi mondi, non disgiunti da questi le bordate giornaliere della pesca e il gioco perenne della Brisa, vento che normalmente, senza particolari burrasche, si comportava sempre alla stessa maniera. Giorno dopo giorno, salvo impennarsi di brutto nelle giornate di vero maltempo. Giacché la Brisa soffiava al mattino a carattere di brezza e con il passare delle ore aumentava d’intensità, sino a gonfiare a dismisura le onde dell’agitato mare sul fare della mezzanotte. Per poi iniziare a scemare e a esaurirsi nel corso della nottata, come se ci fosse stato qualcuno a regolamentare il vento a orari prestabiliti. E per noi che dovevamo restare a mollo per circa tre mesi, senza mai toccare terra, la Brisa ci infastidiva quotidianamente in modo incontrastato.
Situazioni che inducevano ogni volta il cuoco della Saipa Terza a fissare bene le pentole in cui cucinava per noi dell’equipaggio, perché ogni sbadataggine veniva subito punita con il rovescio delle stesse pentole. Fatti non infrequenti con il cuoco che spesso e volentieri alzava il gomito, scolando campari soda e Fundador senza troppa parsimonia.
Ma, salvo qualche inconveniente, per me non era stato difficile adattarmi ai rollii e ai beccheggi della nave, avendo ben altro da fare che pensare agli schiaffi d’onda sulle murate della Saipa Terza. Poiché il mio lavoro di marinaio pescatore non mi lasciava respiro, disciplinato com’era in cale di tre ore ciascuna, tirando le reti a strascico per un’ora e mezza in una direzione e per l’altra ora e mezza in quella inversa.
Tre ore per tre ore giorno e notte. Con l’incombenza generale di salpare la rete, di svuotare il sacco, magari a più riprese per l’impossibilità di farlo in una sola volta. Di ricalare la rete; di scegliere i pesci consentiti dalla Compagnia; di lavorare e di sistemare il pescato conservabile nelle apposite cassette, per poi avviarle ai due congelatori rapidi in dotazione della nave. Questo dopo aver svuotato gli stessi congelatori delle cassette riposte nella bordata precedente, per stivarle definitivamente alla temperatura costante di meno venti gradi.
E, infine, lavare bene la parte di coperta interessata alle operazioni descritte e vedere quanto poco tempo mancava alla fine della cala in corso, talvolta era solo quello per fumarsi una sigaretta.
Tuttavia ci si fa presto il callo e, anche se sei spesso costretto a cercare di dormire un po’ tra una cala e l’altra, senza neppure riuscire a toglierti gli stivaloni di gomma, con i mesi tutto questo appariva normale e non avvertivi più la stanchezza. Anche se avremmo potuto sembrare, a occhi esterni, degli zombi che si muovevano come automi e senza voglia di parlare.
Poi c’erano le montagne di pesci di mille specie di meravigliosi colori, a rincuorare qualche animo nobile tra i membri dell’equipaggio. Pesci che in minima parte finivano nella nostra stiva, perché la Compagnia ordinava di prendere soltanto quelli che avevano buon mercato sulla piazza: dentici, ombrine, pagelli e pescecani, come i mastodontici gronchi delle fiumare di Freetown, spaccati a terra come vitelli di mare.
In questi indaffarati giorni la vita di Gagarin, nostra ufficiale mascotte a quattro zampe, si snodava partecipando attivamente alle fasi della pesca giornaliera. Anche se il cane si limitava a prelevare un pesce dal mucchione appena issato in coperta e facendo in modo che qualcuno d noi glielo tirasse lontano, simulando che fosse un bastoncino di riporto. Salvaguardando così il suo bisogno di muoversi e di non restare accucciato in saletta ai piedi del nostromo Iselle, al quale Gagarin era devotissimo, perché era stato lui a prelevarlo anni prima dalla angusta gabbia di un canile.
Ero alla mia seconda campagna di pesca sulla Saipa Terza, dopo la prima durata esattamente settantacinque giorni. Avevamo già in stiva più della metà del carico sequenziale e si prevedeva di completare le bordate su quel banco di pesca alla fine di quel mese di maggio: era in corso la stagione dei dentici e ne pescavamo in media sei sette tonnellate al giorno. Dentici di buona taglia che si muovevano in massa per deporre e per inseminare la uova in prossimità delle coste del Senegal.
Gagarin si stava comportando in maniera particolarmente affettuosa con me, perché nel frattempo avevo cambiato mansione a bordo, riuscendo a ricoprire il ruolo di cameriere addetto agli ufficiali di bordo. Posizione che mi permetteva di poter servire alla nostra pelosa mascotte bocconi gustosi a base di carne. Impiego che avevo potuto occupare per meriti parentali, poiché il comandante era il suocero di mia sorella Anna e a bordo c’era, come elettricista, mio cognato Mario: quando si dice la fortuna!
Un cambiamento di mansione che mi stava rimettendo al mondo e dal quale mi ero subito adoperato per migliorare le condizioni di vita dei miei ex colleghi di coperta. Preparando intere bottiglie di caffè alla macchina tipo bar, ben zingato con l’ottimo brandy spagnolo e che passavo, attraverso l’oblò della saletta ufficiali, al primo marinaio che si approssimava dalle mie parti per salpare la rete.
Una mattina, al risveglio, tutto era fermo a bordo. Il comandante Funel in saletta ufficiali decideva il da farsi con gli ufficiali di bordo e con gli esperti sottufficiali. Gli era capitato uno stranissimo incidente e bisognava correre ai ripari: il grosso divergente di dritta, nel calarlo a mare assieme alla rete e ai cavi d’acciaio del sistema pescante, aveva sbattuto sulla nostra elica spezzando una delle tre pale. Avaria che non permetteva di continuare la pesca e che metteva in pericolo la stabilità dell’asse dell’elica e lo stesso motore principale.
La Compagnia, avvertita via radio dell’accaduto, determinò che si facesse scalo a Villa Cisneros, lembo di terra stretto tra la Mauritania e Capo Verde. Porto in cui i nostri responsabili da terra fecero accorrere un’altra barca da pesca della nostra Compagnia, in modo che potesse ricevere il carico con adeguata refrigerazione.
Località raggiunta a fatica e a basso regime del motore, così come allo stesso modo si raggiunse il cantiere navale convenzionato con noi di Las Palmas, al termine delle lunghe operazioni di trasbordo di Villa Cisneros.
L’ingegnere navale tedesco del cantiere, che vantava un seno pronunciato come quello di una donna un po’ piatta, volle tentare un complicato sistema di fusione, con la ricostruzione della pala dell’elica spezzata. Lavoro che, per le oggettive difficoltà di messa in opera, ci impegnò a terra due settimane e che non dava poi tante garanzie di tenuta, essendo l’elica uno strumento vitale e particolareggiato per ogni nave, dipendendo da essa la velocità e l’equilibrio strutturale del motore.
Tuttavia, scarichi, senza nemmeno un pesce nella stiva, se non quello sottoforma di baccalà in pectore degli spagnoli a bordo, ci si mosse per il varo dallo scalo del cantiere navale, così da riprendere una nuova campagna di pesca. Ma ora sulla nave mancava un membro importante dell’equipaggio: Gagarin. Non c’era verso di rintracciarlo nel cantiere e nemmeno nell’intero porto di Las Palmas.
Nessuno di noi voleva partire senza la nostra cara mascotte e neppure il nostro comandante, il quale ordinò a tutti quanti di formare squadre di tre uomini ciascuna, in modo da setacciare a fondo la città di Las Palmas.
Tutto fu vano e alla fine, dopo che avevamo perduto un intero giorno di luce in ricerche infruttuose, ci rassegnammo a prendere il largo senza il nostro amico Gagarin.
Tempo dopo qualcuno disse di avere visto Gagarin andare dietro a una graziosa cagnetta con piccoli fiocchi colorati sulla testa; ad altri era parso di averlo visto a bordo di una grossa nave mercantile in partenza. Ma forse erano solo momenti di speranza, spesi per rincuorare tutti quanti, visto che molti a bordo avevano pensato al peggio, anche se mai nessuno aveva pronunciato appieno la parola morte.
Per quanto mi riguarda, non avendo mai più visto Gagarin dal giorno dell’ingresso all’interno del cantiere navale di Las Palmas, mi piace ancora oggi pensare che il cane sia evaso in quel momento, unicamente per amore.
ottobre 2009
Il racconto, inedito, è stato scritto per questo numero di Fili d’aquilone.
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