Isole, isole sulla corrente indefinibile dell’anima, isole mai raggiunte e che talvolta recano inquietanti montagne al loro centro, o che sono in realtà isole-montagne, perché terre di nessuno, al di fuori di ogni coordinata geografica euclidea, come nel caso delMonte analogo di Daumal, verrebbe da dire isole prima di Heisenberg, perché dal suo Principio potrebbe nascere una nuova mappatura del cosmo, anzi, il dubbio che tutte le carte siano valide, il che alla fine comporta che nessuna è in grado di indicarci la strada.
Una strada ci viene indicata invece in questi giorni attraverso una particolare isola spirituale ed ascetica, che è come si diceva un’isola-monte, nel senso che essa nasce come luogo isolato dal mondo e dalle coordinate antropologiche del progresso e della gestione dei rapporti umani, stavolta non solo in occidente.
La strada è quella ri-tracciata da Armando Santarelli, scrittore ormai noto a “Fili d’aquilone” e al particolare pubblico del racconto breve, laico indagatore dei fatti dello spirito, cristiano teso al riconoscimento del valore in sé, in un momento in cui i laici tendono all’opposto a rimarcarne l’impossibilità. Tolstoj sarebbe stato contento di lui, per dirne una, senza però che il lettore pensi al delitto di lesa maestà, ci mancherebbe.
La strada che l’autore ci ripropone con La montagna di Dio è quella dell’Athos. Un altro libro sull’Agion Oros, quindi. Il lettore potrebbe giustamente risentirsi e chiederci se non sia stucchevole ritornare su un argomento che ha inflazionato riviste, editori, convegni. È vero, ma qui siamo di fronte ad un diario particolare, di uno scrittore che non espone la turgidità del suo io ipertrofico a dominare lo scenario, né a mostrare miracolose conversioni dell’anima, se mai impegnato in una narrazione incredibilmente piana e referenziale che reca dall’interno la sua verità, e cioè lo scontro-incontro graduale tra una visione del mondo (e quanto ci sarebbe da ridire su questo termine, che ingannevolmente allude ad un monolitismo psichico che in realtà non esiste) legata soprattutto ad un Cristo maestro di uomini per gli uomini e una nuova sconcertante realtà che con forza bussa alle porte della trascendenza.
Santarelli è sì l’ennesimo profeta dell’Athos, però è un tipo di profeta visto poco ultimamente, uno che si rimette in questione lentamente, senza improvvisi raggi di sole ed estasi barocche.
La sua è una testimonianza che parla alla realtà della realtà e fa capire come basti poco per aggiungere o togliere pesanti massi che impedivano alla nostra energia psichica di assecondare il proprio corso, che non è quello delle rigidità ideologiche, e di quelle teologiche. Partiamo da queste ultime.
L’isola per eccellenza del già isola di per sé Athos, è Esphigmenou, la patria di tutte le ortodossie, la madre delle porte sbattute in faccia non solo ai cattolici ma agli stessi altri ortodossi, colpevoli di cedimento alle eresie – secondo loro – del cattolicesimo. Qui Santarelli non si trasforma – per fortuna – in eroe che combatte contro i cattivi monaci che ce l’hanno con il mondo intero, che non solo non fanno entrare le femmine (vale a dire qualsiasi essere di sesso femminile) nel loro monastero, ma non ti fanno mangiare insieme a loro, ti fanno aspettare, ti guardano con sospetto-disprezzo, e in genere evitano di parlarti.
Il narratore subisce, cerca il contatto, si rattrista quando glielo negano, non strepita per ritagliarsi un posto da eroe nella sua stessa narrazione, apprezza quando qualcuno abbozza una comunicazione. È insomma quella che si dice una scrittura responsabile, che non crea miti, perché qui, di miti ce n’è già abbastanza.
Racconti di monaci che si levitano nell’aria, volti talmente sereni che illuminano la notte, corpi che anche dopo la morte rimangono intatti. Miti, per noi laici d’occidente, da quando Kerényi ha sistemato le cose – secondo alcuni – con la teoria del mito dell’uomo per l’uomo, che però durano oggi, nella vita di tutti i giorni. Perché poi il narratore in altri monasteri, un po’ più accoglienti, si rende conto che in effetti qualche differenza con le facce che si incontrano per strada a Roma o a San Francisco c’è. I volti. Fatta la tara alla vulgata del monaco lontano dal mondo e per questo sereno, qui c’è la sensazione che il passaggio ci sia, che quello che cerchiamo nelle palestre con il Qi Gong o lo Yoga o la meditazione di origine zen e comunque orientale sia anche qui, nell’esausto occidente. La preghiera esicastica, il “Gesù Cristo Figlio di Dio abbi pietà di me peccatore” diviene respirazione, controllo del corpo, ascolto delle profondità archetipe in cui soma e psiche sono ancora insieme.
Dietro le solide mura dei monasteri athoniti, ancora una volta isole nell’isola madre, si nascondono verità scomode, perché lì alloggiano in essenziali cellette, mangiando essenziali bocconi e immergendosi nella ricerca della divinità attraverso la preghiera, non solo persone dalla vocazione congenita, nativa, predestinata, e genetica.
Il libro di Santarelli ci costringe a ridiscutere queste coordinate “euclidee” e a vedere bene, inforcando gli occhiali del realismo, non della mistica.
E allora si vedono monaci con vocazioni tardive, ingegneri, medici, contadini, insegnanti, operai, insomma noi, e questo ci fa passare il metafisico brivido per la schiena. L’isola non è quella di Peter Pan. È stata trovata. E poi l’isola non è neanche l’Athos, perché quello che racconta Santarelli può valere dovunque il cenobistismo sia rimasto ricerca abissale del Segno.
I monaci di Santarelli sono persone che hanno abbandonato il continente-occidente, le sue feste, le sue illusioni, le felicità che durano lo spazio di un secondo, il senso di sazietà anche dopo le diete per dimagrire. Hanno ad un certo punto staccato la spina, e detto addio ai luoghi del piacere ma anche della pena senza nome, ed hanno fatto metaforica vela per l’isola che li proteggerà dal non-senso. Il sospetto che quella pena abbia un nome che in occidente sembra divenuto non gradito, perché estraneo alla razionalizzazione, diverrà ancora più forte dopo la lettura di questo libro.
Armando Santarelli, La montagna di Dio, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2009, pagg.146, euro 14,00
ARMANDO SANTARELLI è nato a Cerreto Laziale nel 1956 e vive a Gerano (Roma).
Ha pubblicato Le cipolle e altri racconti (Sovera, 1998), Avifauna dei Monti Ruffi (Quaderni dell’Ambiente, Provincia di Roma, 1998), Fisionomia dell'irriverenza (La Voce del Tempo, 2001), Periferia della specie (Robin Edizioni, 2006), La Montagna di Dio (Rubbettino, 2009).
Oltre che per “Fili d'aquilone”, scrive per le riviste cattoliche “Tendopoli” e “Incontro per una Chiesa viva”.
testi.marco@alice.it
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