In cornice mettiamo l’arte, sia idealmente, perché rimane una delle massime espressioni del genio umano, sia materialmente. Sono protetti e valorizzati da una cornice gli antichi, preziosi quadri di Masaccio come le moderne opere di Andy Warhol.
D’altronde, l’arte è un fenomeno universale ed eterno; non è un’affermazione indiscutibile?
Non esattamente.
Cercherò di orientare i nostri lettori verso una semplice discussione critica sulla modalità dell’agire umano che abbiamo chiamato “arte”, con particolare riferimento al fenomeno estetico come viene oggi percepito e valutato.
Innanzitutto, è vero che l’arte è universale?
Certo, ma solo nel senso che è antica quanto l’uomo e non legata ad alcun ambiente o Paese in particolare. Sono esistiti (ed esistono ancora in alcune remote zone del globo!) gruppi umani che ignorano l’abbigliamento e persino la costruzione di un’abitazione, ma che, nondimeno, hanno sviluppato delle forme d’arte, sia pure rudimentali.
Detto questo, non dobbiamo cadere nell’equivoco di considerare l’arte (nelle sue varie espressioni: pittura, musica, danza ecc.) come una lingua a tutti intellegibile. In questo senso, l’arte non è “universale”. Un quadro di Van Gogh o di Goya, che la critica occidentale celebra come assoluti capolavori, possono apparire come degli sgorbi a membri di altre culture. E la musica di Ludwig Van Beethoven potrebbe risultare una sgradevole accozzaglia di suoni per chi è abituato alle melodiose armonie orientali.
È eterna, l’arte?
Istintivamente siamo portati a rispondere in modo affermativo. Se l’arte è il sistema che riflette l’esperienza estetica della realtà, come può avere una fine? È stata concepita come esaltazione del sentimento della vita (Nietzsche), coscienza intuitiva (Croce), liberazione dal bisogno e dal dolore (Schopenhauer): come potremo mai separarcene?
Ma l’arte non è un’entità metafisica, è una modalità dell’agire umano; dunque, è plausibile pensare che possa avere una fine storica, alla pari di altri fenomeni creati dal genio dell’uomo. Quante volte abbiamo sentito parlare e dibattere sul tema della “morte dell’arte”?
Fu Hegel a introdurre, esattamente duecento anni fa, questa delicata questione. In realtà, il filosofo tedesco non sostiene affatto la “morte” dell’arte. Hegel è convinto che l’arte, pur essendo ancora rispettata e degna di ammirazione, sia inadeguata ad esprimere la complessa spiritualità moderna. Solo l’arte classica ha realizzato una perfetta fusione tra forma sensibile e contenuto spirituale; l’arte moderna, invece, ha bisogno del medium della riflessione perché si possa riconoscerne il senso e la funzione. Dunque, essa non è più in grado di incarnare l’interiorità spirituale; questo compito, nel mondo moderno, è svolto più adeguatamente dalla filosofia, che rappresenta il superamento dell’arte.
Gli annunci della “morte dell’arte” sono riecheggiati altre volte, dal tempo di Hegel. Nella seconda metà del Novecento, una posizione molto forte, in tal senso, fu assunta da Giulio Carlo Argan. Il grande storico dell’arte attribuiva la morte dell’arte, che considerava imminente, a una rivolta morale. In primis, affermava, in una società capace di concepire i campi di sterminio, il genocidio, la bomba atomica, non possono simultaneamente prodursi atti creativi. Inoltre, la nostra è una società di consumi, e perciò incompatibile con l’esperienza estetica: in tutto il corso della sua storia, l’arte ha rappresentato un valore di cui si fruisce, ma che non viene consumato.
A distanza di due secoli dal pensiero di Hegel, e di decenni da quello di Argan, non registriamo nessuna “morte” dell’arte. Forse lo stesso Argan ebbe modo di percepire l’azzardo della sua tesi: quasi contemporaneamente ai suoi annunci funebri, nascevano movimenti e tendenze artistiche in dichiarata opposizione al consumismo e alla mercificazione dell’arte.
Certo, anche il cittadino comune è in grado di avvertire la crisi della concezione classica di arte, e l’assenza di personalità capaci di iniziare una scuola, di dettare dei canoni, di creare capolavori universalmente riconosciuti come tali. Ma a fronte di accelerazioni troppo brusche, e di momenti di difficoltà e disorientamento, l’arte ha sempre saputo recuperare le forme espressive della tradizione, fondendole con le nuove istanze.
È un fatto che mai, come nell’epoca della sua “morte”, l’arte si è trovata immersa nel mondo della vita. Nuove fenomenologie estetiche sono entrate nel quotidiano: il mondo delle immagini, il design tecnico, le elaborazioni digitali, le creazioni della moda. Il mondo è divenuto un’esposizione permanente di forme di ogni genere e tipologia. Ma è proprio una tale proliferazione a indurre una domanda fondamentale: costituiscono ancora arte, queste forme?
Nessuno può negare che l’enorme lavoro di elaborazione del mondo dell’immagine abbia significato l’avvento di scenari e strutture nate al limite (o addirittura al di fuori) del controllo dell’arte. La produzione di immagini non è più un risultato esclusivo dell’atto creativo umano, perché le tecniche digitali sono giunte a un tale livello di elaborazione da poter realizzare immagini del tutto analoghe a quelle prodotte dell’uomo. Inoltre, spesso l’autore dà forma alle cose senza che alla base ci sia un’effettiva progettualità artistica, senza alcuna dichiarazione di volontà di aderire (o disobbedire) a valori e canoni estetici. La conseguenza è che diventa sempre più difficile separare l’arte da ciò che arte non è.
È in questo contesto che si gioca l’odierno ruolo del fenomeno artistico. Ma non ci sarà alcuna morte dell’arte, per il semplice motivo che l’arte, come la filosofia e la letteratura, non è un’attività che possa avere una fine. Forse non avremo più artisti che operano per l’eternità, ma artisti che, nella loro epoca, sanno comunicare emozioni; e tanto basta.
I veri rischi, semmai, sono altrove.
Innanzitutto, le nuove forme estetiche sono spesso dettate dall’establishment; in questo modo, è inevitabile che l’arte perda la capacità di denuncia critica dell’ordine stabilito, diventando strumento dei nuovi poteri. L’arte, per essere tale, non potrà mai rinunciare ad andare oltre l’abbellimento, a farsi veicolo - come pensava Foucault - di cinismo, di irruzione dello scomodo, di ciò che sta in basso. È l’elemento che ha permesso all’arte moderna, a partire dal XIX secolo, di rifiutare le forme acquisite, di opporsi al conformismo della cultura creando nuova cultura.
L’altro pericolo è l’attuale modus vivendi, la modernità liquida di cui parla Zygmunt Bauman.
Il nostro è un mondo che tende all’omologazione, alla perfezione, al controllo spietato di ciò che siamo e di ciò che facciamo. Ma già nel secolo scorso, il grande Robert Musil avvertiva: “Non sai dunque che ogni forma di vita perfetta sarebbe la fine dell’arte?”.
Ecco dunque il vero nemico: la mera estetizzazione di ogni cosa, con la conseguente eliminazione dell’elementare, del difforme, dell’alterità.
Ascoltiamo sempre Musil: “…e solo nel mare dell’amore il concetto della perfezione, non più suscettibile di gradazione, e quello della bellezza, fondato sulla gradazione, diventano una cosa sola”.
Analisi che riecheggia quella di Thomas Mann nelle Considerazioni di un impolitico: “Quel che invita ad amare, ad esercitare l’arte, è proprio questa splendida contraddizione per cui l’arte è al tempo stesso conforto e giudice inesorabile, lode e celebrazione della vita – in quanto la ricrea amorosissimamente – e distruzione totale della vita stessa con le armi della critica e della morale”.
Arte come amore per la vita e per la bellezza del Creato. Il mondo salvato dalla bellezza, come scrisse Dostoevskij.
Alla fine, torniamo al principio: non c’è nulla senza amore, perché l’amore è il principio dell’universo. Dinanzi a certe creazioni umane, di ieri come di oggi, sentiamo la vibrazione dell’Assoluto, sentiamo che è impossibile separarle da un atto d’Amore.
È questa la cosa che continueremo a mettere in cornice: ciò che nasce per amore. E lo facciamo, in verità, tutti i giorni, nelle scelte più delicate come nelle piccole incombenze quotidiane.
Infatti… anche negli ambienti negletti e degradati, anche nelle case dove non esiste un solo libro, dove sulle pareti non compare neppure un acquerello, neppure uno sgorbio di quadro, c’è qualcosa che occupa, sul mobile più importante, il posto centrale: è una cornice o piè cornici, con dentro le immagini dei nostri genitori, figli, mogli o mariti. Insomma, gli amori di una vita.
armando.santarelli@inwind.it
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