FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 9
gennaio/marzo 2008

Luoghi narrati

LA CASA DI ANGELA
Un racconto marsicano

di Elvio Cipollone



L'asino ci guardò incuriosito, con la sua aria lenta e pensierosa. Si domandava cosa diavolo volessimo fare, perché armeggiassimo con i finimenti, cosa stavamo facendo nella sua stalla in quel giorno particolare dell'anno.

Mentre lo portavo fuori e lo legavo al carretto non la smetteva di interrogarmi con i suoi occhi tristi, e anche dopo che era stato legato e pregato di incamminarsi non riusciva a capacitarsene. Rivolgeva la testa all'indietro per farmi un'ultima domanda, per assicurarsi di aver capito bene, di dover proprio andare. Non immaginava dove fossimo diretti, né perché gli chiedevamo quel servizio; sapeva solo, questo sì, che con la neve sui campi e quel bianco che accecava la vista non era mai uscito e si muoveva con circospezione, refrattario, faticando ad accettare l'idea di dover lasciare il caldo della stalla.

Il freddo non lo spaventava, c'era abituato; capitava di dover lavorare la terra con il gelo che attanaglia le membra e rende faticosi i movimenti. Già in ottobre, quando si raccolgono le barbabietole, o in novembre, quando si ripassano i campi per l'ultima volta prima della semina del grano, ci sono giornate di tramontana o col vento del nord che spazza via le ultime foglie e ti fa vibrare come un giunco di fosso. Ma adesso era diverso. Non avevamo caricato niente sul carretto che potesse far pensare a qualche lavoro nei campi e poi c'era la presenza d'una sconosciuta, d'una persona mai vista. Doveva pure esserci un motivo speciale se gli chiedevo una passeggiata in simili condizioni!

Anche il carretto cigolava rumorosamente, dopo un mese di riposo non si sentiva per niente in forma e le ruote, non più lubrificate a dovere dal grasso rappreso dal gelo, sfregavano sull'asse di ferro.

Il più difficile era uscire dal paese; dopo l'asino si sarebbe rassegnato, non avrebbe più fatto domande e avrebbe risposto con maggiore convinzione alle mie richieste. E pure il carretto, sgranchite le ossa dopo il lungo riposo, avrebbe smesso di lamentarsi senza più opporre quella passiva resistenza, quella inerzia dell'inizio che rallenta la corsa.

Per qualche centinaia di metri viaggiammo lentamente, sotto lo sguardo attonito dei paesani, poi finalmente uscimmo.

Percorso appena mezzo chilometro, lasciammo la strada asfaltata e ci inoltrammo per le vie di campagna. Qualche macchia di neve resisteva lungo le rotaie scavate sulla terra indurita da mille passaggi. I rami degli alberi ai due lati del tragitto, spogli e appesantiti, si toccavano quasi gli uni con gli altri e si aveva l'impressione di viaggiare in una galleria dalla copertura irregolare. Spesse siepi di rovi, di prugne selvatiche, di biancospini rinsecchiti, anch'essi in attesa di tornare a fiorire con lo splendore di cui sono capaci, proteggevano i tronchi degli alberi più alti e sembravano regalarci un po' di tepore.

La strada era vergine. Nessun segno di tracce recenti, né umane né animali. Il leggero strato di melma sotto il manto di neve era indurito dal gelo. Gli zoccoli dell'asino battevano su un suolo duro e sentivamo ogni sobbalzo, ogni scossone che le ruote ricevevano per un sasso sporgente o una buca più profonda.

Angela, non abituata, percepiva più di me ogni tremore che ci trasmetteva il carretto e si stringeva al mio braccio. Aveva paura di cadere dalla tavola poggiata di traverso che fungeva da sedile. Per fortuna l'asino procedeva con andamento regolare, senza aggiungere di suo scatti o strappi come avrebbe fatto un cavallo.

"Non abbiamo la comodità della tua macchina, ma almeno siamo sicuri; fra un'ora al massimo saremo sul posto", provai a rompere il silenzio.

Da quando eravamo partiti non avevamo pronunciato una sola parola. Angela si sentiva presa dall'appuntamento fatale, era come sospesa in un vuoto di emozioni in attesa di rimettere piede nei luoghi dell'infanzia. Non rispose neanche. Intenta a preservare le energie per difendersi dal freddo, alzò semplicemente lo sguardo, mi diede un bacio sulla guancia e si strinse ancora di più.

Eravamo coperti con abiti pesanti; io indossavo anche un vecchio copricapo di lana che mi riparava le orecchie e la nuca e lei una mantellina lavorata a mano che le aveva dato mia madre. Per giunta, un'ampia coperta ci avvolgeva entrambi, coprendoci gambe e piedi; solo i visi restavano esposti.

Lei guardava tutto senza parlare, imprimeva ogni cosa nella memoria senza volerlo. Percepiva adesso l'esatta dimensione del salto nel tempo che stava compiendo, come bruciasse vent'anni di storia. Vent'anni fuggivano via, scappavano chissà dove, si nascondevano per consentirle di recuperare la bambina di cinque anni che aveva lasciata lì un giorno, che non l'aveva voluta seguire nella grande città del bum devastatore. Letterata cittadina moderna, professoressa in un liceo romano, sentiva che non avrebbe più potuto vivere lontano dalla bambina selvaggia e libera che era stata. La sua vita rischiava di rompersi se non avesse avuto il coraggio e la capacità di recuperarne la parte rimasta in quei luoghi e ricollocarla dentro di sé. Obbediva fatalmente a quella voce intima, imperiosa, apparentemente sepolta e dimenticata sotto il peso degli anni ma evidentemente viva fino al punto da bruciarle.

Attraversato il fiume Rafia a metà percorso, la strada s'arrampicava per un leggero pendio alla sommità del quale la vista s'allargava. Gli alberi e le fratte non costeggiavano più il tracciato della mulattiera ed un freddo sole ci colpiva di traverso.

I terreni a riposo si rincorrevano l'un l'altro, bianchi e spettrali al punto da far chiedere, ad un osservatore non avvezzo a quei luoghi, se la primavera vi fosse mai venuta a stemperare il rigore, a ridare il colore, a far fiorire la vita. Le cime alte dei monti incorniciavano i Piani Palentini come giganti incombenti; il loro stagliarsi nel cielo pulito, la loro sfida agli spazi infiniti, la loro protervia nel porre confini, proteggeva ed impauriva gli altopiani innevati. Nessuno osava sfidarne la calma sovrumana; quei monti stavano a guardia della nostra sicurezza e ci imponevano di non sfidarli a nostra volta, ci volevano fedeli sudditi dediti alla cura del loro giardino. Incutevano timore come dei capricciosi, vendicativi, e punivano chi abbandonava la valle.

Eravamo soli. Non c'era anima viva a calpestare il gelo.

Gli uomini confinati nei loro quartieri, gli animali rinchiusi nelle loro tane e gli uccelli appollaiati sopra i mucchi di letame ai margini degli appezzamenti, unico luogo dove potevano trovare tepore, un seme non digerito, un verme per continuare a vivere.

Il rumore del carro riverberava leggero e procurava una sensazione di maggiore solitudine vagando indisturbato, riempiendo gli anfratti, riecheggiato, ora presto ora tardi, da ogni piega dei monti vicini o lontani.

A un certo punto una timida brezza mi richiamò dallo stato di contemplazione compiaciuta da cui mi ero lasciato prendere.

Eravamo vicini alla meta.

Il paese di Angela era ormai a portata di mano anche se non si lasciava vedere ancora, nascosto com'era tra due speroni.

Le due catene di monti che limitavano la valle dalla parte opposta a monte Velino morivano lì: una più dolcemente e l'altra bruscamente come fosse stata tagliata di netto senza troppi riguardi. La prima, proveniente dal Parco Nazionale d'Abruzzo, finiva confondendosi con gli ultimi campi; l'altra, dai Monti Simbruini, si interrompeva dietro a quella calandosi a precipizio in uno stretto e angusto canalone che degradava, poi, fino alla Ciociaria e, più in là, fino al lontano mare Tirreno. Tra quelle due interruzioni di monti si trova Capistrello, il paese dove eravamo diretti, in una piccola e stretta gola al confine tra un'ampia vallata di montagna ed il precipizio che conduce a più miti regioni: un varco dal quale spira una brezza ascendente, ora leggera ora brusca, mai assente.

"Senti questo venticello lunare che non riesce a smuovere i rami secchi degli alberi? che a malapena fa sentire il suo sussurro?"

Angela si ridestò dal torpore in cui era calata, sollevò la testa dalla mia spalla, mi guardò negli occhi con sguardo perso e stralunato e disse: "Cosa hai detto? Stavo soprappensiero, non ti ho sentito!"

"Ho detto che siamo quasi arrivati".

A queste parole si ridestò completamente, riacquistò le facoltà mentali, sedette diligentemente composta sulla tavola e ispezionò lo scenario che ci si parava davanti. I suoi occhi sfidarono nudi il bianco accecante da cui eravamo circondati, indagarono le variazioni di tono, misero a fuoco ogni macchia scura che incontravano, frugarono le ombre ma non furono in grado di darle la risposta cercata.

"Non vedo un bel niente, mio caro. Dove diavolo ci troviamo?"

"Non si vede ma c'è. Nascosto dietro questa spalla di monte che abbiamo davanti. Appena aggirato l'ostacolo lo scorgerai sulla destra, addossato alle pendici. È rivolto a mezzogiorno per non sprecare i raggi del sole".

Agitata, visibilmente eccitata, Angela si mise in allerta. Con i muscoli del corpo irrigiditi, puntava lo sguardo nel punto preciso che le avevo indicato, come fanno i cani da caccia quando sentono la presenza della preda tanto a lungo cercata. Rimase pietrificata per i dieci minuti necessari a raggiungere la svolta oltre la quale scoprimmo, in rapida successione, le prime case, l'intero paese e un paesaggio del tutto nuovo.

Le case sembravano costruite le une sopra le altre, tanto era scosceso il terreno su cui sorgevano. Era un paese ancora più povero del mio se possibile, vi si viveva poco di agricoltura e molto di montagna. Gli abitanti vendevano legna, raccoglievano castagne in autunno, pascolavano pecore e muli nei sassosi pascoli che la montagna offriva.

I rari agricoltori ricavavano granturco e sparute patate dai campi ingenerosi al di qua del monte. Perciò molti uomini, dopo la guerra, allorché sembrò inaccettabile la miseria e abbandonare le terre non fu più un tabù, partirono. Ma la maggior parte non fece come il padre di Angela, non portò con sé la famiglia; lasciarono in paese mogli e figli e si mossero da soli per il mondo, a popolare i luoghi più infernali per riceverne in cambio la sospirata agiatezza. Andarono nelle gallerie, vissero nei cantieri più impervi, scavarono in numerose cave, mentre le mogli vivevano senza mariti e i figli crescevano senza padri.

La strada, l'unica, attraversava il paese a metà altezza tagliandolo in due. Da essa ci si poteva inoltrare in mezzo alle case, in giù o in su, per ripide scalinate o angusti e tortuosi vicoletti. L'unica piazzola, più che altro uno slargo della strada principale, era al centro del paese, dove sorgeva la chiesa. Con il nostro carretto saremmo potuti arrivare fin lì, non oltre, poi avremmo proseguito a piedi verso la casa di Angela.

 

elcip@libero.it