FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 6 aprile/giugno 2007 Scorie & Rifiuti |
SCORIE DEL PENSIERO di Armando Santarelli |
"Nel rapporto dell'uomo con gli animali, i fiori, gli oggetti della creazione c'è una grande etica, per ora appena percepibile, che dovrà in futuro venire imperiosamente alla luce e che sarà compimento e corollario dell'etica umana".
Sappiamo tutti che l'Uomo, a causa della sua incompiutezza istintuale, è costretto biologicamente a intervenire sulla natura. Ma perché per millenni lo abbiamo fatto in modo tanto distruttivo? Perché abbiamo agito senza alcuna considerazione per la vita di creature che fanno parte integrante della comunità biologica alla quale noi stessi apparteniamo?
Non sto qui a ripercorrere le tappe del lungo cammino che ha condotto l'Uomo occidentale, per la prima volta nella sua storia, a concepire un atteggiamento disinteressato nei confronti della natura: non più un ambiente da tutelare perché importa all'uomo, ma perché riconosciamo, sul piano morale, che in natura esistono vite, valori, interessi non riconducibili a noi.
La posizione di chi, pur impegnandosi per la salvaguardia dell'ambiente, si dichiara contrario all'attribuzione di diritti alla natura, è stata espressa qualche anno fa, in modo chiaro ed efficace, dal professor Giorgio Ruffolo. In Etica e Ambiente, egli scrive: "Non vedo che uomini dietro i diritti; non vedo che coscienza umanistica... In questo senso la natura non può essere depositaria di diritti. La natura in sé è contraddittoria, distruttiva, anzi è eminentemente distruttiva. Conservare e riconoscere i diritti a un tale processo non ha alcun senso; lo ha invece riconoscere i diritti della nostra necessità di tutelare l'equilibrio naturale individuandone anche i criteri. Un fiume è una ricchezza per il territorio circostante; è una condizione di fruibilità per tutti coloro che vivono sulle sue rive. Pone, certo, anche un problema di difesa della purezza e della potabilità delle sue acque. Allora l'azione sul fiume deve essere definita sulla base di tutti questi valori, che sono nostri, non certo del fiume che non ne sa nulla". Dunque, per Ruffolo, non possiamo riconoscere diritti agli animali e alla natura in genere perché queste entità "non ne sanno nulla", cioè non possono avanzare pretese, non hanno coscienza di queste posizioni morali. Ma è chiaro che non hanno coscienza dei loro diritti e non possono avanzare pretese anche coloro che chiamiamo pazienti morali (i feti, i bambini cerebrolesi, i malati mentali, eccetera), sicché anche di questi dovremmo dire che non hanno diritti. Avere una pretesa valida non è lo stesso che avanzare una pretesa. I neonati e gli adulti con problemi mentali non hanno la capacità di pretendere il rispetto dei loro diritti, ma la legge prevede che altri (per esempio i loro tutori) possano rivendicarli a loro favore.
Oggi, a differenza di qualche decennio fa, noi ci preoccupiamo per la purezza delle acque di un fiume, come pure per il disboscamento di una piccola area, per la minaccia alla barriera corallina di una remota isola oceanica. Sono situazioni in cui la perdita del bene naturale non è correlata ad alcun vero interesse umano, ad alcuna seria deprivazione per noi; eppure, sentiamo di dover rispettare l'integrità di queste entità.
Se siamo arrivati a questa presa di coscienza, vuol dire che ci siamo assunti, verso la Natura, il ruolo di tutori di un interesse che pensiamo di dover considerare di per sé, come facciamo con i soggetti umani. Come Hugo aveva preconizzato, non è più concettualmente impossibile riconoscere che certe entità naturali, pur non essendo né agenti né pazienti morali, possano avere un valore inerente, cioè un tipo di valore irriducibile alla loro utilità, a quello che vogliamo farne per il nostro piacere o i nostri interessi. In fondo, inserendo il valore intrinseco di questi beni nell'etica pubblica, non abbiamo fatto altro che universalizzare il rispetto della nostra naturalità, del nostro essere parte integrante della comunità naturale.
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