FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 5 gennaio/marzo 2007 Alterazioni climatiche |
LA POESIA DI MARIO RIVERO a cura di Martha Canfield |
Il movimento "nadaísta" - derivato dalla parola nada (dal lat. [res] nata), che significa "nulla", il non essere o l'assenza assoluta di essere -, propone in Colombia, con notevole ritardo rispetto ad altre nazioni latinoamericane, una formula originale di rivolta avanguardistica. Forse dovremmo dire meglio neo-avanguardistica, visto che siamo già negli anni '50 del Novecento e visto che una voce surrealista almeno era sorta, quella di Luis Vidales (1900-1990), con il suo Suenan timbres (1926), la cui eredità in parte fu raccolta da León de Greiff (1895-1976) e da Álvaro Mutis (1923). Il fondatore del Nadaísmo, Gonzalo Arango (1931-1976), lo definiva così nel suo primo Manifesto, pubblicato a Medellín nel 1958:
Il linguaggio di Gonzalo Arango era chiaramente provocatorio e la sua volontà di rottura e di abolizione di ogni compromesso fu definitiva. Al di là dei risultati, qualche volta discutibili in alcuni dei suoi seguaci, il movimento nel suo insieme riuscì a scuotere il panorama della cultura ufficiale e della retorica modernista e postmodernista, sopravvissuta in Colombia forse troppo a lungo. Il Nadaismo formulava nel 1958 idee che erano state al centro delle polemiche avanguardistiche in altri paesi ispanoamericani, in particolare in Argentina con l'ultraismo, in Cile con il creazionismo e in Messico con l'estridentismo. E in buona misura tendeva a una sorta di umanismo sartriano, tale come veniva formulato in particolare in una delle opere di Jean Paul Sartre, L'esistenzialismo è un umanismo, del 1946. Movimento di stirpe urbana, il Nadaismo si diffuse, a partire da Medellín, in altre città colombiane, come Cali, Barranquilla, Manizales, Pereira, per arrivare infine nella capitale Bogotà. Lì la provocazione, ormai riconosciuta come il metodo preferito da Arango e i suoi compagni, si rivolse in maniera particolare contro il clero, l'organo più sensibile dell'apparato istituzionale. "Non siamo cattolici", scriveva Arango nel 1959, come sintetica risposta ai partecipanti al Congresso Nazionale di Scrittori Cattolici, compiendo così una spericolata sfida alla Chiesa, dietro la quale c'era uno stato repressivo che poteva interpretarla come sfida all'"ordine pubblico".
Tra la generazione dei nadaisti e quella successiva, si colloca la figura di Mario Rivero (1935), considerato dai critici talvolta membro della prima, talvolta della seconda.
Forse per quella compulsione a catalogare inseparabile dal mestiere didattico e critico, Mario Rivero è stato associato appunto al Nadaismo, anche se molto presto dichiarò la sua estraneità al movimento; mentre Giovanni Quessep è stato associato alla "Generación sin Nombre", o "Generación Golpe de Dados", pur premettendo che lui è più anziano e che il suo inserimento nel gruppo sarebbe stato "tardivo". In realtà sono forzature. Entrambi rappresentano due tendenze poetiche che potremmo considerare opposte e che scandiscono la storia della letteratura colombiana. E ognuno nella sua ha raggiunto una densità creativa incomparabile: Rivero nella poesia che si nutre del vissuto e che sfrutta tutte le sfumature espressive della lingua parlata, della canzone popolare, dei mass media; Quessep nella poesia che si nutre del sogno e della lingua scritta raffinata e passata attraverso il filtro delle più antiche tradizioni poetiche. Sia l'uno che l'altro hanno generato molti epigoni, soprattutto dalla metà degli anni ottanta a oggi, e molti fra i più giovani li considerano Maestri e punti di riferimento fondamentali.
La vita e la personalità di Mario Rivero si confondono con la leggenda, e anche se si dice - e lui conferma - che sia nato nella città di Envigado, nella provincia colombiana di Antioquia, nel 1935, molti hanno messo in dubbio questi dati, senza però proporre "verità" alternative. È sicuro che è nato nel seno di una famiglia povera per cui ha dovuto lavorare fin da piccolo, che ha studiato da solo, con passione e disordinatamente, al punto di autodefinirsi "autodidatta". Si dice che ha partecipato alla Guerra di Corea, che per un po' ha campato del contrabbando di frigoriferi, che ha partecipato nel commercio degli smeraldi. Il suo amico Gonzalo Arango, famoso anche lui per varcare costantemente la soglia tra l'invenzione poetica e la testimonianza storica, disse in una celebre narrazione-biografia:
Non sapremo mai quanto c'era di Rivero e quanto di Arango in questo ritratto. Ma sicuramente uno dei mestieri citati è vero, e Rivero continua tuttora a renderne testimonianza: quello di cantante di tango. Chi l'ha sentito - e certo lui non si fa pregare - non può dimenticare la sua voce profonda, virile e carezzevole.
1In quegli anni, e prima del mio trasferimento definitivo in Italia, io stessa ebbi modo di partecipare attivamente alle manifestazioni del gruppo, ancora "senza nome", e pubblicai il mio primo libro di poesie in quel preciso contesto (Anunciaciones, Bogotá, 1976). Poco prima Cobo Borda - un po' la voce storica della generazione - mi aveva considerata "ufficialmente" parte integrante del gruppo come "transterrada", un modo meno drammatico di dire espatriata (Juan Gustavo Cobo Borda, Obra en marcha. La nueva literatura colombiana, tomo II, Instituto Colombiano de Cultura, Bogotá, 1976, pp. 89-100).
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BREVE ANTOLOGIA POETICA DI MARIO RIVERO
Sábado
Sábado en la alcoba y en las vitrinas La noche muestra media cara...
Sabato in camera da letto e nelle vetrine La notte si affaccia solo a metà...
A las seis de la tarde Una vez tuvo quince años. Ahora son las seis de la tarde. Qué haces mecanógrafa No esperes más.
Alle sei di sera Una volta aveva 15 anni. Ora sono le sei di sera. Che fai dattilografa Non aspettare altro.
Un día miramos Entramos al cine Se encienden las primeras luces El gamín irrumpe de pronto El tren avanza fatigado No me digan que vivir está mal
Un giorno si guarda Si entra al cinema Si accendono le prime luci Lo scugnizzo irrompe a un tratto Il treno avanza con fatica Non mi vengano a dire che vivere è brutto
Balada de la colina ocupada
1089, 1124, 1383 son las colinas de los Vietnamitas Recibió la orden de ocupar la cumbre a toda costa Porque en este pequeño país siempre hubo alguien más fuerte Aún es hermosa la línea de la montaña Capitán Sher por qué os quedáis en tierra extranjera? Se llora y los sollozos llegan a las cumbres Capitán Sher por qué os quedáis en tierra extranjera?
1089, 1124, 1383 sono le colline dei Vietnamiti Ricevette l'ordine di occupare la cima a ogni costo Ché in questo piccolo paese c'è sempre stato qualcuno più forte C'è ancora bellezza nella sagoma della montagna Capitano Sher perché volete rimanere in terra straniera? Si piange e i singhiozzi arrivano in cima alle montagne Capitano Sher perché volete rimanere in terra straniera?
Aquí estuvo que sube por sus piernas e impone a su cuerpo
È stata qui che sale lungo le sue gambe e impone al suo corpo
Las hojas doradas del otoño
Las hojas doradas del otoño caen, Las escucho callando, cerrado, Me recojo en silencio para oír la agonía, Cuando girando en círculos, de tedio y de vida,
Le foglie dorate dell'autunno cadono, Io ascolto e taccio, nel rifiuto Mi raccolgo in silenzio per sentire l'agonia, Mentre girano in cerchi di noia e di vita,
La he edificado en un lugar muy cálido, En el centro una plaza que reserva a unos pocos, Es mi ciudad secreta, dorada, prohibida. ¡Mi altiva y encumbrada ciudad!
L'ho costruita in un posto molto caldo, In centro una piazza riservata a pochi eletti, È la mia città segreta, dorata, proibita. La mia elevata e superba città!
Abril ha llegado. Y cómo no decir que es cruel? Incendia el rojo de los geranios contra la pared,
Aprile è arrivato. E come dire che non è crudele? Brucia il rosso dei gerani contro il muro,
Los caminos de año traen los vientos de agosto. Más absorto y más solo yo te despido.
I cammini dell'anno portano i venti di agosto. Più assorto e più solo mi congedo da te.
La luna
Es la luna... Pelean los borrachos, Hay el deseo de estar entre gentes íntimas, Se enderezan con aire consternado La luna, esa luz muerta que roza las cosas, En noches como éstas,
È la luna... Gli ubriachi litigano, C'è il desiderio di stare fra intimi, Si ergono con aria costernata La luna, quella luce morta che sfiora le cose, In notti come queste,
Poco fue lo que pude entender de la vida de mi padre Su nombre y apellido no importan Pero fue un buen maestro me enseñó la dureza Musculoso y peludo Viví diez años con la imagen de aquellas ropas
Non è stato molto quello che ho potuto capire della vita di mio padre Il suo nome e il suo cognome non importano Ma è stato un buon maestro, m'insegnò la durezza Nel 1922 contrasse la gonorrea Nerboruto e peloso Ho vissuto dieci anni con l'immagine di quei vestiti
VI
Ven pues invierno, No entra nadie que se esfuerce por ello. Hace frío en el cuarto. Respiro tedio,
Vieni dunque inverno, Non arriva nessuna che si adoperi per quello. Fa freddo nella stanza. Respiro la noia,
Me tiendo para escuchar el sonido de las aguas, Entre el oleaje y el sueño, Blancos paisajes de invierno. Duras planicies
Mi sdraio per ascoltare il suono delle acque, Fra il mareggio e il sogno, Bianchi paesaggi invernali. Dure pianure
Salmo V
Hijo del Hombre, Cristo, Cristo, derriba la mesa de los mercaderes. Señor Santo, receptáculo de claridades, En el nombre de todos los huérfanos, Padre de la Belleza y de la gran Poesía: Oh, por nosotros, que no podemos sino cantar, Y como si los elementos todos del desplome, Amén y Así sea.
Figlio dell'Uomo, Cristo, Cristo, abbatti il tavolo dei mercanti. Signore Santo, ricettacolo di chiarori, Nel nome di tutti gli orfani Padre della Bellezza e della grande Poesia. Ah, per noi, che non possiamo fare altro che cantare, Infine, come se tutti gli elementi del collasso Amen e Così Sia. |
1Abbiamo scelto di tradurre i nomi perché in questo caso non alludono a qualcuno in particolare, ma vogliono indicare persone anonime, designate da nomi comuni e correnti.
Traduzione di Martha Canfield |
INTERVISTA A MARIO RIVERO Alcuni critici ti hanno messo in relazione con il movimento nadaista, ma tu te ne sei molto presto dichiarato estraneo. Sei ancora della stessa opinione? Credi che la poesia nadaista sia ancora attuale? E quale sceglieresti come tuo poeta nadaista preferito?
Si potrebbe dire che il movimento nadaista fu la reazione giovanile e un po' catastrofista di una generazione in lotta contro il nostro canone culturale, con il suo ormai sorpassato sistema di valori e assiomi, i suoi modi retorici, la sua inerzia spirituale, insomma, le nostre carenze e i nostri eccessi, in un momento in cui la Colombia viveva in un ritardo tremendo rispetto al corso centrale della storia e delle lettere. Un movimento degli anni Sessanta che, ti ripeto, fu prima di tutto letterario, ma anche molto ludico e catastrofista insieme, e di cui io ho seguito in qualche modo il cammino, anche se per vie traverse, senza una piena affiliazione, dato che i miei interessi riguardo gli usi e i modi del linguaggio poetico erano diversi. Per questo non ho aderito più di tanto al Movimento, che costituiva senza dubbio un fatto importante in quanto a propositi, ricerche e contestazioni, per un'opposizione naturale del mio temperamento a quell'aspetto ludico, che fonda gran parte della poetica del Nadaismo (come base d'identità collettiva), in una mentalità o in uno spirito da Club o da parrocchia, che arriva a confondere l'atto di umorismo o semplice ingegno con l'atto puramente poetico. Certo questo tipo di poesia è tuttora ammirata da un certo pubblico, che però mi sembra abbia più che altro un ruolo di "claque" permanente. Non credo possa essere amato da chi cerca il piacere e il sapore della vera poesia. Questo peraltro non diminuisce l'ammirazione che provo per alcuni notevoli poeti di questo gruppo, tra cui Jaime Jaramillo Escobar e Jota Mario Arbeláez.
Anni fa (più precisamente, una ventina), studiando la poesia colombiana, mi era sembrato che si potessero stabilire due correnti contrapposte, ugualmente intense e ugualmente rappresentative di due diversi modi di sentire. Per me i due poeti che meglio incarnavano queste due correnti erano Giovanni Quessep per la corrente simbolista, post-piedracielista; e tu per la corrente della poesia post-avanguardista, colloquiale e engagée. Che ne pensi oggi di quella mia teoria degli anni '80?
Mi sembra sempre valida, Martha. Validissimo il tuo giudizio e la tua visione ordinatrice, capace di identificare con pertinenza queste due correnti della nostra poesia. Due linguaggi diversi, ciascuno con una propria direzione: Quessep, una specie di giullare dal lirismo puro, istallato nel suo territorio di "fiaba", che seduce l'orecchio cantando di una realtà virtuale, sognata amorosamente, e io all'altra estremità del registro, sulla mia isola urbana, nella giungla di cemento, nell'altra realtà e con un lirismo diverso, che parte da un altro sentimento, roco, generato o evinto da una visione del mondo diversa.
Negli anni '60 ti sei fatto conoscere con Poemas urbanos e Vuelvo a las calles. Lì la voce del poeta si confondeva (o voleva confondersi) con quella dell'uomo della strada, e il paesaggio che lo circondava era il paesaggio difficile della città, le antenne della televisione, la solitudine in mezzo alla moltitudine, la nostalgia per l'amico o l'amata, l'assenza di Dio. Non importava che quella città fosse Bogotà o New York. Le coordinate erano più o meno le stesse. Vorrei sapere diverse cose riguardo a questo:
Quelle poesie mie cominciarono a vedere la luce pubblica attraverso le pagine letterarie del quotidiano "El Tiempo", in un momento in cui la mia attività di fattore fortuito cominciava a collegarsi, ogni tanto, con la poesia; io ho dovuto essere autodidatta, ed è stata proprio questa vita di strada e di contingenze a farmi fare queste "scoperte", se si possono chiamare così - su cui già avevo un po' lavorato soggettivamente - e che da allora cominciai a riversare in poesia.
b. Dagli anni 70 (che io sappia) tu conoscevi Aurelio Arturo e con lui e altri poeti avevamo l'abitudine di riunirci nelle tertulias1 prima de La Castellana, poi in altri caffè del quartiere del Lago di Bogotà. La poesia di Arturo, che tutti ammiravamo, era forse, quanto a paesaggio letterario, esattamente l'opposto della tua. Come ti sentivi rispetto a lui e alla sua opera poetica?
Sì, quel modo di far poesia di Aurelio, così tonificante e "balsamico", così carico di stupore, già allora oltrepassava nobilmente, e di molto, il nostro ammuffito apparato retorico. Io, anche se appena arrivato in quel piccolo Parnaso, non mi sentivo antagonista di questa sua "mitica" emozione per il paesaggio natale. Poesia che può essere letta come una parabola del peso di ciò che ci circonda, del peso del paesaggio stesso, assunto dal poeta come una morale. Una volta inteso questo significato, associato a un'infanzia che per lui fu un'esperienza bella, spiegai a me stesso, come un imperativo, il mio paesaggio di cemento, di antenne TV, di interrogativi, di solitudine tra Dio e gli uomini. Per questo, quel suo dire ciò che è giusto, con i silenzi e le pause dovute, è la "magia" di Arturo, combinata con la musicalità della forma.
c. Dagli ultimi decenni del XX secolo al XXI secolo, tutto è cambiato vertiginosamente. Credi che le città di oggi, la Bogotà di oggi, la New York di oggi, mantengano quegli aspetti che delineavi nei tuoi poemi urbani?
Ah, sì, certo, Bogotà è cambiata e molto. E questo cambio è inevitabile. Chi potrà resistere alla "Bestia" finanziaria, in questa visione integrativa che oggi investe il mondo? La Globalizzazione e la commercializzazione vanno di pari passo, e prefigurano un mondo materialista e pragmatico, carente di spiritualità e di vere essenze umane, e, come tale, avversario della nostra povera poesia, che non "rende". Tutto questo comporta un'atmosfera di abbattimento, disgusto e scetticismo, almeno nel mio caso, un clima di tenebre e addirittura di barbarie se lo confrontiamo con quelle tertulias a cui partecipavi negli anni '70, perché il riunirsi per una conversazione letteraria oggi non esiste più, sono spariti i compagni di tertulia e i luoghi in cui ritrovarsi. E la poesia, per la cultura ufficiale, devota dello Sport, il Turismo e i fenomeni da baraccone è diventata un'attività quasi clandestina, mendicante, obsoleta...
Se è vero che le tue Baladas del 1973 si presentano, come diceva Cobo Borda, come "un libro fervorosamente focalizzato sui volti più visibili dell'attualità di allora", e Bonnie e Clyde, Ho-Chi-Minh, Cortázar e Bob Dylan, fra gli altri, assumono una dimensione epica, è vero anche che la tua prospettiva urbana non è cambiata. È sempre proiettata nella Storia, e coniuga esperienza individuale ed esperienza collettiva. E questo si percepisce anche in Mis asuntos (1986) e in Vuelvo a las calles (1989). Sei d'accordo?
Beh, a me più che i volti più in vista dell'epoca, mi hanno commosso poeticamente i volti di quelli che si giocano tutto e che incarnano romanticamente l'Avventura contro l'Ordine. Sacrificandosi, come il Ché, ovviamente il personaggio più bello e ricco di pathos del suo tempo. A quell'esercizio di libertà e ribellione che lui incarnò storicamente, ho dedicato il mio Poema con Cámara. Quanto alla mia prospettiva urbana intesa come quell'ambito o contesto che già fa parte della mia poesia, per quanto mi riguarda continua ad essere valida. Mi reputo incapace di sovrappormi del tutto a questo incendio e a questo abbagliamento delle strade, quel paesaggio caleidoscopico in cui trovo uno strano potere di umanizzazione e una grande forza espressiva.
Un cambiamento di tono evidente nella tua poesia si manifesta negli anni '90. Del amor y su huella (1992), ma soprattutto Los poemas del invierno (1996), propongono un linguaggio fortemente lirico, in cui il dramma intimo e personale - dell'amore, del tempo che fugge, della morte - trova la sua ragion d'essere nella nobiltà della parola e nella delicatezza del sentimento che trasmettono. Diresti oggi che l'impronta dell'amore rimane sempre indelebile? E diresti che l'inverno, malgré tout, annuncia comunque una primavera, al di là dell'età che abbiamo? Penso al valore polisemico, pluridirezionale di alcuni tuoi versi, come questo: "Profumo di notte muta!".
L'amore, il tempo, la morte sono in primis gli elementi del poeta. Temi che invariabilmente invitano a filosofare, a far poesia, temi pieni di suggestioni e di mistero. Quanto ai Poemas del invierno, in realtà sono stati un cambiamento significativo. Presero forma in momenti in cui la vita già si lasciava dietro tracce infinite di stagioni estinte, ormai condannate a soccombere, e io, andando avanti, com'è naturale, mi spostavo verso altre variabili comunicazionali. Gli anni e la stagione non più della paura e della voce roca e veemente, bensì della serenità. Sono poesie che mi piacerebbe fossero interpretate come un segno tranquillo di maturità poetica. Tracce di un percorso che ha attraversato momenti diversi insieme a quei vissuti dell'anima da essi suscitati: il fatto poetico e la testimonianza serena.
Quello stesso processo che ti porta a una poesia prima intima e poi di riflessione filosofica ed esistenziale, ti porta poco dopo a una poesia profondamente religiosa, che contesta l'ottuso materialismo miscredente del nostro tempo: i V Salmi penitenziali (1999). Il linguaggio della fede si associa a un fervente affidarsi alle mani di Dio: "Buon Pastore, scendi dal Cielo a pascolare il tuo gregge [...] / Ti accoglieremo stendendo foglie di palme". Questo linguaggio religioso, tuttavia, non è astratto: è impregnato della storia e della drammaticità delle vicissitudini umane. A differenza di Ernesto Cardenal, tu non fai una parafrasi dei Salmi biblici: ti rivolgi a Dio con parole meno rituali e più personali. Che pensi della poesia di Padre Cardenal? La consideri affine alla tua?
Salmos penitenciales, con la sua colorazione così metafisica, non obbedisce a nessuna costrizione religiosa. Si centra soprattutto in una responsabilità spirituale che mi strappa da me stesso, dal mio solipsismo, e mi inserisce in una trama di relazioni umane, senza però dipendere da nessuna religione, da nessuna confessione o alibi. Denotano un profondo straniamento di quella razionalità a oltranza che ci condanna a essere una collettività di disperati o squilibrati, straniamento che invece ci aiuta a comprendere che il nostro sapere è sempre limitato, e che la nostra scienza ci rinchiude in un sapere ottuso, che non sa guardare in alto, verso il mistero, verso quella realtà sconosciuta di cui facciamo parte. Quanto alla mia affinità con Cardenal, può essere possibile solo in una piccola percentuale. Con il tempo la sua poesia ha cominciato a sembrarmi un "discorso", e il fattore discorsivo nella poesia non mi ha mai attirato. Quella di Cardenal è una "predica", completamente strumentalizzata, "compromessa" in ogni senso. Comunque mi piacciono sempre due dei suoi libri: Epigrammi, e ancora di più il Cardenal che ci si rivela in Ghetsemani, Ky.
Assumono sempre più potere di suggestione e di comunicazione i linguaggi audiovisivi, e la poesia visiva sta conoscendo una nuova primavera. Un tuo libro di quarant'anni fa, Poema con cámara (1967), si esprimeva attraverso parole associate a foto, per meglio comunicare il dolore e lo sconcerto per la morte del Che Guevara. Da allora a oggi abbiamo attraversato molti e diversi stati d'animo vincolati alla storia e alla politica: momenti di entusiasmo e momenti di delusione e disperazione, e poi un ritorno alla fede e alla speranza. Molti miti si sono eclissati, ma la figura del Che ancora oggi sembra più viva che mai. E il destino dell'America Latina sembra finalmente trovare una via più giusta e promettente. Lo stesso paese dove il Che fallì oggi ha un presidente indigeno che sembra voler compiere, per la via democratica e pacifica, quello che in un'altra epoca sembrava impossibile se non attraverso la cosiddetta "violenza rivoluzionaria". Cosa pensi di tutto questo? E che ne pensi oggi della "poesia impegnata"? O, detto altrimenti: può la poesia creare coscienza? E se può, deve farlo? Deve essere una sua priorità?
In Poema con cámara, un poemetto in forma di micro-racconto sui fatti di Camiri nel 1967, credo di aver risposto alla chiamata a quell'impegno che tacitamente viene fatta a noi scrittori dalla società, dal fatto di essere storicamente e politicamente "collocati"; ma anche se sprofondato fino al midollo nella disperazione, volli evitare l'"arringa" e addirittura cercai di stringere l'otturatore, come un fotografo. Allora poi non ci fu nessun intellettuale che rimanesse indifferente a quell'avventura utopica del Che e alle sue gesta americaniste. Adesso, venendo più precisamente alle tue domande, non credo né mi aspetto che la poesia possa creare una coscienza associata ad alcuna teoria politica o sociale, né che questa debba essere una sua priorità. Non mi interessa l'arte strumentalizzata. Credo che l'atto poetico, quando avviene, debba consolare il cuore dell'uomo che interroga la realtà in cerca di appigli o quanto meno di un qualche senso che non ritrova a portata di mano.
La tua rivista "Golpe de dados" è ormai un fatto storico della poesia colombiana e ispanoamericana. Come definiresti la tua esperienza esistenziale e letteraria legata a quella rivista?
La rivista ha da poco compiuto 35 di onesta e ininterrotta vita editoriale. Il titolo, che fu suggerito dal poeta Cobo Borda, ha dato poeticamente e storicamente vita alla "Generazione Golpe de Dados". Tuttavia, non potendo dipendere solamente dai lettori per sopravvivere, e non ricevendo il minimo aiuto ufficiale, è ogni giorno più difficile mantenerla in vita. Del resto, in questo schematismo del mondo globalizzato, sotto lo sguardo del "Grande Fratello", come già avevano previsto Mc Luhan e Orwell, in uno staterello in piena violenza che cerca di dare il vertiginoso balzo dalla precarietà alla postmodernità, quale posto può avere questa strana creatura che è il poeta? A mala pena è un paria tollerato, e la sua poesia è quasi un anacronismo: con libri che non si vendono, e in un luogo poi, questa "Atene Sudamericana",2 in cui il numero dei poeti continua a superare quello dei lettori di poesia.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
La salute non mi permette di fare grandi progetti. Ma la scrittura poetica non mi abbandona mai e per la rivista ricevo grande aiuto da molti buoni amici. Da un po' di tempo si presenta in forma di numeri monografici, dedicati a un solo poeta ogni volta. E uno dei prossimi numeri porterà le tue belle poesie.
Sì, poesie che fanno parte del mio prossimo libro in spagnolo intitolato Corazón-abismo. Grazie, Mario. Discorrere con te è sempre un grande piacere. Ti faccio tanti auguri per la salute, per "Golpe de Dados" e per tutte le belle cose che ci regali da più di quarant'anni.
1Con il termine spagnolo tertulia si indica la riunione di persone che si danno appuntamento periodicamente in un determinato posto, per lo più in un caffè, per conversare e discorrere di argomenti di interesse comune. La parola è di origine incerta. Veniva usata anche dai contertulios che si riunivano attorno a Luzi, Bigongiari, Oreste Macrí ed altri illustri scrittori e studiosi, a Firenze negli anni '80 e '90, prima alle Giubbe Rosse, poi da Doney, infine nel Caffè San Marco.
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