FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 5
gennaio/marzo 2007

Alterazioni climatiche

TEVERE IN FIAMME
(20 asterischi per Eugenio Montejo)

di Alessio Brandolini


La poesía cruza la tierra sola,
apoya su voz en el dolor del mundo

Eugenio Montejo

      *
Di notte la vita ha frammenti di bellezza
nascosti nelle voci suadenti delle foglie
quando si staccano dai rami e lente
planano sull'asfalto, sui sacchi d'immondizia.

Da qui vedo il paese, in alto sulla destra
lo stesso che ha scolpito questo cuore
fitto d'oscure macchie e pietra grezza
che cede alla polvere i petali della sua pigrizia.

Il fischio vibrante delle canne è spronato
dal vento che trascina con sé le tracce
di fiumi asciutti, o in fiamme,
di territori assetati e sconvolti in questi giorni.

Ora mi lascio sfoltire dall'erba
con gli occhi chiusi poto i ciliegi
ma l'esodo dalle ferite è il frutto che ci afferra
e alimenta la voglia di ripartire dall'inizio
perché la bocca ha le sue aguzze spine
a sigillare i ricordi, i fiori carnosi della savana.


      *
Farsi male andando contro, a muso duro, alla fame d'amore
allo spiazzamento della tua lingua priva di salvia e di saliva.
Mormorio di voci dalle statue: l'impatto e, subito dopo,
lo schianto. L'odore del rosmarino appiccicato addosso
dopo aver faticato sulla terra (ancora nostra, lo confermo)
il braccio che trema e brucia all'altezza del gomito
la gamba destra indolenzita per via del peso.
Che ricordo avrò di te e di noi
fra qualche estate o un solo lungo autunno?
che ne sarà del ghiaccio in fiamme del tuo sguardo?
    La seta della parte interna delle gambe
    la paura del fischio d'arrivo, la tarantola
    del desiderio che morde la carne
    asciuga la gola, percuote il sesso
    le tempie. Allora si scende di corsa
    per passare in mezzo al vortice delle canne.
Annaffio gli ulivi piantati da mio padre e non lascio che l'edera
avvolga il recinto: ogni tanto qui s'introduce qualcuno
dal tenero piede e semina un odore straniero, di cinghiale ferito.
Tocca ogni cosa ma nulla sottrae, né sposta o distrugge
gli arnesi da lavoro: decespugliatore vanga falce zappa rastrello.
    In un punto nascosto taglia un po' di maglie
    alla rete di recinzione, entra e apre
    il malconcio armadio in ferro.
    Tira fuori le cose, le osserva e respira il silenzio.


      *
Voglia di non lasciarsi
marcire dal rimorso
né di temere la bocca cucita
che sgretola il buio delle parole
gli incendi disseminati nell'acqua.

Non avere paura della ragnatela del cielo che sostiene
le zolle con le rose gialle e i rami spezzati dal freddo,
delle stelle distanti anni luce che per la vita sulla terra
crepano d'invidia. Né dell'angelo di bronzo del paese
in piedi sulla fontana con la dinamite stretta nel pugno.

Farsi audaci e camminare a naso, in punta di piedi
sulla lava che ribolle sotto il fiume e quella indurita
dai millenni che ha dato il profilo ai Castelli romani
ai colli ricoperti di boschi e vigneti
all'azzurro incavato dei laghi d'Albano e di Nemi.


      *
Di più non posso
sottrarmi alle tenebre, all'abisso
nel mare chiuso in uno specchio
e scalzo andare incontro al figlio
con le mani assicurate a un fosso.

Se potessi parlarti un giorno
ti racconterei dei bisbigli
d'ali del pappagallo chiuso
in una gabbia messa in mostra
in un salotto ingombro di sbadigli,
delle doglie dopo il parto respinto
dei toni aspri che scacciano la luce.

Quello non era un sogno
ma realtà spalmata nello sguardo
con la camicia sudata e le scarpe
sprofondate nel fango, i tacchi
sbattuti sulle pietre consumate
dal cammino e del suo esatto contrario.
La nuvola che sorvola i giorni lesta arpiona i sogni
con dolcezza porta via la pelle e i grani del rosario.

    Dà fuoco alla città e al bosco. Guarda:
    adesso persino il Tevere è in fiamme!


      *
Mi rivolgo al caldo tropicale per il piacere che ho della luce
con il tiepido sussurro emanato dal sordo che ascolta il sole
la devozione del sarto che a occhi chiusi si cuce le labbra
lo scuotimento dell'animale dalle zampe annodate.
Sulle spalle le spine delle rose, le schegge degli alberi
le pietre ancora calde di case e palazzi divorati dalle bombe.

Uccelli della notte mettono il becco nella luna dei nostri occhi
lasciano un segno d'ali leggere, di rientri in punta di piedi.
Di ricordi vaporizzati dal sale
di uomini dallo sguardo onesto
del regolare fluire delle stagioni
di nidi di grano e spighe di frutti
di fiori di fumo che salgono dalla legna che arde
del piacere del corpo rivestito con borchie di rame.

Mi ritrovo uno scalpitio di puledri nel petto
un passaggio di piume, una fuga di iene assassine.


      *
Di notte fodero il buio con spessi strati di neve
e immobile ascolto le cicale che da sempre
ci respirano accanto o si nascondono nelle nostre vene.

Così resisto ai colpi del tempo, addolorato ma non sconfitto
mi fascio la fronte di spine, metto nei denti il veleno giusto.
Nel flusso sciolto dal sogno c'è sangue dappertutto
di madri e padri che in guerra hanno perso il figlio.
Al rallentatore rivivo il viaggio dell'indeciso
del pazzo ubriaco e trafitto da foglie di banano, platano o fico.

A volte osservo ad occhi chiusi come avrei
voluto che fosse il mondo
e ascolto il triste scoppiettio del forno
annuso e sfioro con le dita il pane
bianco a lievitazione naturale
i decenni spesi (e ormai persi) a farsi del male
a scagliare parole di sconforto sulle navi d'Ulisse.


      *
Certo ci vorrebbe il coraggio della rana
per prendere di petto il buio che s'attorciglia
alle gambe e alle braccia
ci trasforma in statue di carta e non retrocede
neanche all'alba sotto i colpi del canto del gallo.

Verranno altri custodi a chiudere le porte
della mente e del giardino
a chiederti la pelle
degli alberi e dei buoi, il passaggio nel bosco.

Da decenni percuoto la tua groppa
scortecciata dai rami del silenzio
bramato con l'orgoglio e la durezza
del contadino in cerca d'un raccolto.

Il giallo snervato della neve regala il sospetto
che il ritorno sarà un buio ancora più pesto
         un andare verso il contrario
una cancello di sicurezza rimosso dal peccato.

Quanti di questi giorni dovrò sopportare
e quelli acerbi in fretta mettere a marcire.
Quasi uno scontro allo scadere della sera
con le labbra asciutte, la lingua immersa
nel lento respiro di questo dolce imbrunire.


      *
Dialogo tutto il giorno coi pesci tropicali dagli elettrici colori
stando in ascolto delle stelle da rosicchiare in silenzio
delle cicale rinchiuse in bolle d'aria che fanno tanta tenerezza.

Le branchie slargate
dal prossimo tuo
odiato come te stessa.
Risalgo in verticale
afferro la superficie
esplodo in cerca
di un soffio, con te
chiusa tra vetro e mare
la faccia dilatata
di osservatrice inquieta.

Divido con gli squali di passaggio
la tenera mollica, la crosta dorata
l'uva matura di mio padre
ma solo a te
ho aperto un varco tra le canne
in quel sogno di baci profondi
poi fatto a pezzi dal grido del corvo.

Ora se parlo qualcuno mi ascolta.


      *
L'acqua dipinta ha il suo fascino yankee a stelle e strisce
fluisce in modo perfetto, hollywoodiano e blatera
dentro gli occhi della tivù e addolcisce le scene di violenza
con il se stesso peggiore che altrimenti sfonderebbe il tetto
della casa reso più forte dal vortice dei colori. Sulla zattera
le fiamme del Tevere cavano allo sguardo i ruderi del foro
le sudice glorie della storia, il marmo candido della fontana.
    La tregua delle pietre
    nei viottoli di fango.
    Il volo degli uccelli
    nell'occhio della tana.


      *
Questo stormire d'acqua non è un suono
atavico come tu dici, ma la fontana
di Trevi e sulle foglie dei platani
disposti a croce non sta scritta la vita.
Da lì non scendono gemme dorate
ma punte di lance che si conficcano
nella carne marcia dei pesci d'acqua dolce
e nelle teste dei passanti: li puoi vedere a lungo
in ginocchio a raccogliere frammenti, ricomporre
con scrupolo il puzzle della memoria, delle emozioni.

Infatti lungo il Tevere oggi le auto in coda ardono l'aria
le pallide cortecce dei platani, il volto ustionato e stanco
delle città-mondo che alla svelta s'espandono senza freni.

Questo stormire d'acqua è il pianto che piove dentro.
Al padre vorrei dire ciò che sento
portargli in dono non la rabbia per la terra maltrattata
ma l'inutile scheletro per seppellirlo con questi versi
in un'urna romana sotto il paese medievale
dove sono cresciuto all'ombra della torre campanaria.
Alla madre una semplice e docile preghiera
di pietre taglienti che il tempo ha trasformato in pane.

Essere costretti alla forca
a mostrare il danno irreparabile.
Così il sarto che a se stesso cuce gli occhi
e più tardi, con destrezza, anche la bocca.


      *
Non a caso gli uomini conservano delle donne
il colore dello sguardo, non il calore materno.
Non voglio seppellirmi in fretta
anche lo stomaco richiede la sua parte
di stelle e animali che gracchiano nel cervello.
E' la solita storia, dirai, farsi a pezzi con un'accetta
per poi rinascere noce possente nel bianco della neve.

Stare qui, immobili davanti al fiume
rapiti dai bagliori delle fiamme
dalle ombre proiettate dalle nuvole di passaggio
chiedersi perché si è stanchi e privi di quel bene
dove nuotare controcorrente e avvolgersi di luce.

Nutrirsi d'aghi di pino e scaglie di sale che salvano le mappe
colombiane. Entrare adagio ma forte e a lungo nel tuo corpo.
Pensaci bene: non startene chiuso altri tre decenni nel ghetto
medievale del paese. In fondo sei un figlio/un padre dignitoso.

Alle volte da bambino, dopo il lavoro, giocavi persino a carte.


      *
... bisogna sbiancare i muri, gli oceani e le facce tristi dei malati
strappare la coda alle scimmie ammaestrate che danno ordini...

Rapito davanti al duomo d'Orvieto per via dei colori, dell'oro.
Appeso alle guglie il respiro etrusco risaliva lungo i pozzi
provava a farsi leggero. Imitare gli uccelli, i cordoli della luce.

Nervi d'acciaio sfondati dal trapano dei rumori
pressati dai giganteschi cartelli pubblicitari
dai flaccidi faccioni di bimbi e cosce/seni/culi di donne rifatte.
Impossibile porsi da un'altra parte e sorvolare con lo sguardo
far finta di ritrovarsi a Caracas, sulle Ande o nella savana
o nel parco sotto casa, nell'orbita vuota della finestra
tonda, nelle colonne, nelle schegge di marmo di Tor Sapienza.

Inoltrarsi con coraggio nella tua morbida carne ed è bello vederti godere
ti fai come nuova e penso che intorno a noi dovrebbe esserci solo questo.
Ecco perché gli uomini non vogliono seppellirsi in fretta ma farsi assoluti
e come il Tevere fluire nella luce disseminata dalle mani, bianche di neve.


      *
Grandinata di parole sparate dal silenzio
strapazzato dai tubi di scarico delle auto
dei bus lunghi una quaresima voluti dal sindaco ecologista.
Da un pensiero antico nascosto tra foro d'Augusto e le torri
le dighe di calcestruzzo di Tor Bella Monaca, del Prenestino.

Buccia d'arancia la basilica di San Pietro
con il papa tedesco a Istambul sceso nel fiume
nella visione d'amore che abbraccia il nemico.

    Così capovolta è una barca
    la cupola va in fuga e lesta
    arriva all'altra sponda latina
    dove la chiesa cattolica
    ha indorato regimi di tortura.

    Colpito proprio in mezzo
    all'osso che ci sostiene
    assieme a ogni tipo
    di sospetto, coi lacci
    delle stelle attorcigliati al collo.

    E non dimentico nulla del giorno
    nemmeno al buio, o sotto tortura.


      *
La terra ha uno spasmo violento e lascia illividiti
meglio un calcio al basso ventre
uno schiaffo esteso a tutto il corpo.
Con gli occhi di bue ho imparato la necessità
del silenzio parlando ogni giorno a vuoto.
Per questo a te, chiusa nel gorgo del lavoro, domando:
avremo un residuo di vita (e d'amore) dopo la morte?

I disastri sono stelle ignote che svestite
diluviano dal cielo. Inserisci un tappo
l'indice nel foro ma la voragine s'allarga
velocemente si estende, accartoccia il mondo
il fiume, le sue barche: la materia circostante.

    Non mi lamento, in fondo
    questa follia che mi affibbi
    mi piace perché ha in sé
    un robusto senso del sano
    non è infetta, falsa o inquinata.


      *
Un paio di labbra screpolate dal freddo
fissano a lungo Roma murata dalle auto
poi si stringono a sottile, oscena fessura
cerniera di rame e d'acciaio, antiscasso
punto esclamativo scoppiato in silenzio
in combutta con l'odio che ancora perdura.

La notte è un foglio bianco ricoperto di solchi profondi
di terra grassa macinata lentamente da silenzi oceanici
dove gli alberi del lungotevere organizzano una danza
con i fili spinati che giungono dalla Palestina
le tremule luci di Castel Sant'Angelo riflesse nell'acqua.

Cola a sorpresa il sogno (dopo anni avviliti dall'oblio)
          di scucire le labbra
                    e lanciare un grido
affondare i denti avvelenati al collo gelido del tuo dio.


      *
Agli occhi appenderò il sorriso e la rabbia
non mi chiederò se dormo o son desto
e la notte è solo un residuo di luce gialla
o se questa gioia è il nostro umile concerto.
Coi baci volevo spogliarti dal dolore e dall'esilio
le mie dita legate al tuo corpo erano una grancassa
la lingua lo svelto violino che scioglieva ogni dubbio.

Senza gloria mi piego per raccogliere
i granelli di polvere che ci conoscono.
Verranno lune più dolci? altre pietre?
ci sorrideranno fiumi più limpidi?
terre da arare e difendere a denti stretti?

Indosso le tue parole che un giorno
mi avvolsero di nebbia luminosa.
Ora che non ci sei ti mostrerò altre storie
farò i conti con gli osti, i vivi e i morti
con il vento divino che strapazza le foglie
incunea tra sole e luna lo sposo e la sposa.


      *
    Svelta cala la notte: scimitarra
    quasi senza forza eppure sferza
    l'attesa, evidenzia gli acciacchi
    del mondo. Poi chiude il cancello
    con colpi d'ascia precisi e di buio
    abbatte gli ulivi e il folto castagno.
Sono stufo d'aspettare il giardino
tanto non sboccia e l'erba indugia nel nero seppia che squarta la luce
i tronchi degli alberi sanguinano così scorticati, pieni di nodi e ferite.
Per questo poi le rose hanno la bocca ammalata e i denti schiacciano
pietre, chiodi, palme, i gradini delle antiche fortezze precolombiane
e incollano al ferro delle caviglie il fischio del treno. Alla tempia
allora premo la canna dei pensieri: lo sparo si dilata sopra il bianco
e sfronda il cielo di Roma. Scava strade segrete dove nascondere
la linfa del ricordo, i sussurri dei genitori e dei nonni Tilla e Antonio
giunti dalla luce lenta del tropico, su leggere barche di canne e foglie.


      *
Disteso bocconi il vecchio gallo non narra la sua storia
né sulla foglia canta la cicala che non ha più voce
e poi nel sonno ha smarrito un'ala, forse persino gli occhi.

Restano le formiche che all'acqua infetta regalano la resa.
Sfilano tutte uguali, con lo stesso sguardo, precise e svelte
sugli alti tacchi, ognuna con la propria bandierina bianca
e scoppi a ridere nel vederle con quel passo che assembla
funeste dittature ed eleganti, leggeri passi di danza. Le formiche
non arretrano dinanzi al fumo, alla cronaca, al Tevere in fiamme.


      *
Non so quanti giorni ma il resto
è perso nell'oblio.
Sai che l'oro dell'anima sprofonda nel creato
e il corpo se ne va dove il freddo sotterra
il tepore del forno
spento del padre, dell'uva e dell'olio d'oliva
cosparso sulla pelle, gli occhi, le fette di pane.

Oggi il Tevere è un candido lenzuolo di neve
ci scivola sopra la luna e un gufo sfotte il giardino
e gli astri sono cervelli astratti che danno i numeri
e gli angeli: luci intermittenti che disfano i bagagli.

Terre sotto le torri medievali incuneate nel palmo della mano.
Oggi ho fatto gli auguri di compleanno a un fratello (Alberto)
e a una nipote (Sara) che aspetta il primo figlio.
Prendere posto ma sentirsi anche in altre storie
attraversare a piedi la savana, i deserti cittadini,
gli altopiani battuti dal sole. Intanto, accarezzare le pietre
e per arrivare prima squarciarsi la bocca e togliersi di mezzo.
Ripercorrere lento il dolore del mondo: starci dentro, sepolto.

    Spremo gli acini per un anno intero
    sorseggio il mosto con le mani a coppa.


      *
La città eterna ci rovina addosso, non bastano le palafitte
né il verde profumo della savana. Ai tropici fa freddo
e a volte cade persino la neve.
Sono stato sotto i ponti e ho visto le tenebre
le croci, il fiume tagliato in due dall'oceano dei liquami
il tatuaggio di nuvole sulla pelle strappata alle lucertole.

Crolla addosso la pioggia di settembre
i conflitti sul lavoro con le scimmie ammaestrate
i pugni allo stomaco dati e ricevuti
la manciata di chiodi che segnano il percorso
gli alberi strappati alla terra, le menti telecomandate.

    La ripresa del sogno
    perso al volo, in salita
    bagna il becco nel nero delle strade
    nella calma dei buoi che trascinano
    le foglie dei platani, degli ulivi
    persino dei banani dove sta scritta la vita.
I lampi sinistri del Tevere illuminano gli sfregi sul volto della Terra.
Nel paesaggio saldo e assoluto delle rovine che ci rotolano addosso
oggi trovo un canto e ti vengo incontro (se posso, se me lo permetti)
negli occhi la luce sfibrata ma tenera di Roma
sulle spalle le pietre del fiume. E questa voce che alla tua s'affianca.



Le pietre del Tevere, di Ambra Laurenzi


"Tevere in fiamme" andrà a far parte della raccolta inedita Il fiume nel mare.

Un grazie
ad Ambra Laurenzi per la foto,
a Stefano Cardinali e Fiamma Giuliani per la scrupolosa lettura,
a Eugenio Montejo per la sua poesia (v. Eugenio Montejo, La lenta luce del tropico, Le Lettere, 2006).


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