FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 3
luglio/settembre 2006

Signore Bestie

LA POESIA DI GIOVANNI QUESSEP

di Martha Canfield


L'esordio poetico di Giovanni Quessep (1939) avviene con la raccolta giovanile, Después del paraíso (1961), costituita da una serie di sonetti di cui l'autore si sarebbe pentito poco dopo facendo scomparire completamente l'edizione. Dato che questo libro è ormai irreperibile e ne è rimasto soltanto il titolo, citato qua e là dagli storici della letteratura colombiana, dobbiamo considerare come il suo primo libro quello che in realtà fu il secondo, cioè El ser no es una fábula, del 1968. Questo si presenta come un libro maturo, con un ritmo musicale austero, che preferisce l'endecasillabo anche se non disdegna il settenario né il più popolare ottonario, rimanendo sempre in un campo lessematico aulico, con tono riflessivo e sentenzioso, nella sicura composizione di una rete simbolica serrata come un codice:

Un giorno non è stato forse nostro
il mare, il suo ciclo di labbra e di uccelli,
il suo complesso amore, il ritmo eterno
della sua discordia?
1

Il mare è in questa raccolta simbolo di solitudine e di silenzio; ma esso si pone anche come il vestigio di una ricchezza passata e perduta. E la certezza di questa perdita, e quindi di una precedente felicità, è la causa della nostalgia, altro sentimento predominante. Alla nostalgia si associa la certezza dell'aridità e dell'inutilità del presente, cioè dell'esistenza. Ma la stessa nostalgia spinge all'insensata speranza. Per Quessep, erede della grande poesia concettista spagnola e di Quevedo, vivere è una forma di morire sperando, e sperare è una forma di morire. La speranza ci uccide tanto quanto il fallimento dei sogni, perché i sogni portano dentro una sostanza suicida, la consapevolezza della propria irrealtà:

Ogni speranza ha la sua memoria,
un sole di ferro, un pianto d'esilio.

In questo agonico vivere si offrono all'uomo due forme di riscatto: l'amore e la poesia. Buona parte di questa raccolta, con un gusto tipicamente novecentesco, è dedicata a parlare della poesia stessa, dell'avventura della scrittura. Attraverso la scrittura l'individuo supera i propri confini: si brucia e si perde - si dimentica - come individuo, ma si guadagna come poeta. E la voce poetica - per Quessep come per Borges - non è dell'individuo, bensì della tradizione:

Siamo. Apparteniamo all'oblio.

L'essere, l'entità sostanziale, è al di là dell'io e delle favole. Il noi, prolungamento generico dell'io, l'entità contingente, appartiene all'oblio. Da questo doppio movimento nasce la voce poetica. L'amore invece appartiene all'io, ed è forse la sua più bella favola, quella che dà materia al sogno più alto, all'illusione di sconfiggere l'irrimediabile "caduta":

Tutto di te è duro cielo. M'abbracci
nella caduta quasi, quando nubi
e strade precipitano in uno stesso
declivio. Contro il filo d'una musica
tanto tempo cercata e ritrovata
nella morte, con desiderio, soffi
nella radice oscura, allora sorgi
in trasparenza. L'acqua è meno fiume.

Il primo libro di Quessep, sottilmente legato all'ermetismo italiano e a Montale, è tuttavia una fase che l'autore si lascia velocemente indietro. La raccolta successiva, Duración y leyenda (1972), preferisce il canto alla sentenza e il racconto alla meditazione. In questa cifra machadiana - come a lui stesso preme di dichiarare - produrrà i suoi più bei componimenti: le storie rivisitate di Alice, della Bella Addormentata, del "Cavaliere del Secolo XX", una "Parabola del Secolo VIII" che rimanda al poeta cinese Li Po, e la magnifica Parabola, per antonomasia, che ripropone la leggenda dei mangiatori di loto.
I libri successivi di Quessep approfondiranno questa stessa linea; così nasceranno il Canto del extranjero (1976), e le altre raccolte fino alla Muerte de Merlín (1985), dove con la morte del mago Merlino, metafora del poeta e alter ego dell'autore, si chiude anche questa fase di affascinante invenzione, questo palazzo di sogni dove la voce poetica ha trovato il suo spazio di sicurezza e la sua spinta motrice.

La raccolta successiva, Un jardín y un desierto (1993), contrappone il sogno alla riflessione e sembra - come l'amore "invernale" di Mario Rivero - voler afferrarsi in un ultimo slancio alle vaghe sagome dell'illusione, miraggi caritatevoli per chi sa di avviarsi verso la cupa frontiera dell'indistinto. La tematica del disincanto o della mutisiana desesperanza, strettamente legata alla forza della memoria, agente di redenzione o di conforto, costituisce il nucleo della sua ultima produzione, a partire da Carta imaginaria (1998). Nell'ultima raccolta, Brasa lunar (2004), emerge tuttavia, con vigile e dolente consapevolezza, la certezza della morte che attende, dell'ultimo porto, del silenzio che verrà a confermare il nulla che è l'essenza e l'assoluto: "No hables, estás solo / con tu nada indecible, siempre lejos / del azul más profundo" (Non parlare, sei solo / con il tuo indicibile niente, sempre lontano / dall'azzurro più profondo, "Cántico de las dos rosas"). Eppure intatta rimane la fede nel canto:

Non tacere, che dopo sarà il vuoto,
il suo niente, canta ora
che gli dei ti hanno dato quell'estate
che qualcuno nel dolore richiedeva, e aspetta.
2

Magica e purissima, la poesia di Giovanni Quessep insegna a sognare e a riflettere e poiché consapevole della fragilità dei sogni, avverte e ammonisce - è il lato quevediano dell'autore - ; ma soprattutto conforta, stimola, dona ricchezza fantastica e bellezza, ci fa migliori, non attraverso lo studio ma attraverso l'immaginazione e la speranza. È il suo lato più epicureo ed orientale, che gli viene forse dal patrimonio culturale dei suoi avi.




     1 Da Materia sin sonido de amor, in El ser no es una fábula, Tercer Mundo, Bogotà, 1969, p.13.
     2 Da Brasa lunar, Universidad de Antioquia, Medellín, 2004, p. 15.




Breve antologia poetica di Giovanni Quessep


AUTODEFENSA DE UN CABALLERO DEL SIGLO XX

Señores del jurado
Soy un gentleman
(Léase en español caballero inocente)
Confieso
Que aún entre las manos
Llevo la lanza púrpura
Y en escudo y espada
La sangre destellando
Pero ha sido en defensa de mi dama
Tuve que hacerlo
Matar ogros enanos al viejo Arcalaús
Para desencantarla
No comprendo
Por qué queréis mi muerte

(da Duración y leyenda, 1972)


AUTODIFESA DI UN CAVALIERE DEL SECOLO XX

Signori giudici
Sono un gentleman
(Si legga in italiano un cavaliere innocente)
Confesso
Che ancora fra le mani
Porto la lancia vermiglia
E sullo scudo e sulla spada
Il sangue scintillante
Ma è stato in difesa della mia dama
Ho dovuto farlo
Uccidere orchi gnomi il vecchio Arcalaus
Per liberarla dall'incantesimo
Non capisco
Perché desiderate la mia morte

***
ALGUIEN SE SALVA POR ESCUCHAR AL RUISEÑOR

Digamos que una tarde
El ruiseñor cantó
Sobre esta piedra
Porque al tocarla
El tiempo no nos hiere
No todo es tuyo olvido
Algo nos queda
Entre las ruinas pienso
Que nunca será polvo
Quien vio su vuelo
O escuchó su canto

(da Duración y leyenda, 1972)


QUALCUNO SI SALVA ASCOLTANDO L'USIGNOLO

Diciamo che una sera
l'usignolo cantò
su questa pietra
perché nel toccarla
il tempo non ci nuoce
Non tutto è tuo oblio
Qualcosa ci rimane
tra i ruderi credo
che non sarà mai polvere
colui che ne ha visto il volo
o ne ha ascoltato il canto

***
CERCANÍA DE LA MUERTE

El hombre solo habita
Una orilla lejana
Mira la tarde gris cayendo
Mira las hojas blancas

Rostro perdido del amor
Apenas canta y mueve
La rueda del azar
Que lo acerca a la muerte

Extranjero de todo
La dicha lo maldice
El hombre solo a solas habla
De un reino que no existe

(da Canto del extranjero, 1976)


VICINANZA DELLA MORTE

L'uomo solo abita
una riva lontana
guarda la sera cupa che finisce
guarda le foglie bianche

Volto perduto dell'amore
appena canta e muove
la ruota della fortuna
che lo avvicina alla morte

Straniero in tutto
maledetto dalla gioia
l'uomo solo in solitudine parla
di un regno che non c'è

***
CANTO DEL EXTRANJERO

Penumbra del castillo por el sueño
Torre de Claudia aléjame la ausencia
Penumbra del amor en sombra de agua
Blancura lenta

Dime el secreto de tu voz oculta
La fábula que tejes y destejes
Dormida apenas por la voz del hada
Blanca Penélope

Cómo entrar a tu reino si has cerrado
La puerta del jardín y te vigilas
En tu noche se pierde el extranjero
Blancura de isla

Pero hay alguien que viene por el bosque
De alados ciervos y extranjera luna
Isla de Claudia para tanta pena
Viene en tu busca

Cuento de lo real donde las manos
Abren el fruto que olvidó la muerte
Si un hilo de leyenda es el recuerdo
Bella durmiente

La víspera del tiempo a tus orillas
Tiempo de Claudia aléjame la noche
Cómo entrar a tu reino si clausuras
La blanca torre

Pero hay un caminante en la palabra
Ciega canción que vuela hacia el encanto
Dónde ocultar su voz para tu cuerpo
Nave volando

Nave y castillo es él en tu memoria
El mar de vino príncipe abolido
Cuerpo de Claudia pero al fin ventana
Del paraíso

Si pronuncia tu nombre ante las piedras
Te mueve el esplendor y en él derivas
Hacia otro reino y un país te envuelve
La maravilla

¿Qué es esta voz despierta por tu sueño?
¿La historia del jardín que se repite?
¿Dónde tu cuerpo junto a qué penumbra
Vas en declive?

Ya te olvidas Penélope del agua
Bella durmiente de tu luna antigua
Y hacia otra forma vas en el espejo
Perfil de Alicia

Dime el secreto de esta rosa o nunca
Que guardan el león y el unicornio
El extranjero asciende a tu colina
Siempre más solo

Maravilloso cuerpo te deshaces
Y el cielo es tu fluir en lo contado
Sombra de algún azul de quien te sigue
Manos y labios

Los pasos en el alba se repiten
Vuelves a la canción tú misma cantas
Penumbra de castillo en el comienzo
Cuando las hadas

A través de mi mano por tu cauce
Discurre un desolado laberinto
Perdida fábula de amor te llama
Desde el olvido

Y el poeta te nombra así la múltiple
Penélope o Alicia para siempre
El jardín o el espejo el mar de vino
Claudia que vuelve

Escucha al que desciende por el bosque
De alados ciervos y extranjera luna
Toca tus manos y a tu cuerpo eleva
La rosa purpúrea

¿De qué país de dónde de qué tiempo
Viene su voz la historia que te canta?
Nave de Claudia acércame a tu orilla
Dile que lo amas

Torre de Claudia aléjale el olvido
Blancura azul la hora de la muerte
Jardín de Claudia como por el cielo
Claudia celeste

Nave y castillo es él en tu memoria
El mar de nuevo príncipe abolido
Cuerpo de Claudia pero al fin ventana
Del paraíso

(da Canto del extranjero, 1976)


CANTO DELLO STRANIERO

Penombra del castello lungo il sogno
torre di Claudia toglimi l'assenza
penombra dell'amore in ombra d'acqua
lento biancore

Dimmi il segreto della tua voce occulta
la favola che vai tessendo e stessendo
cullata dalla voce di una fata
bianca Penelope

Come entrare al tuo regno se hai sbarrato
la porta del giardino e ti difendi
Nella notte si perde il tuo straniero1
candore d'isola

Ma c'è qualcuno che nel bosco avanza
di cervi alati e di straniera luna
Isola Claudia per la pena immensa
viene a cercarti

Racconto vero dove le sue mani
aprono il frutto che lasciò la morte
Se un filo di leggenda è il ricordo
bella addormentata

La vigilia di un tempo alle tue rive
tempo di Claudia toglimi la notte
Come entrare nel tuo regno se chiudi
la bianca torre

Ma un pellegrino v'è nella parola
cieca canzone vola verso il fascino
Dove nascondere la voce sua
per te nave che vola

Nave e castello è nel tuo ricordo
mare di vino e principe abolito
Corpo di Claudia ma finestra infine
del paradiso

Se pronuncia il tuo nome nella roccia
lo splendore ti muove in esso viaggi
verso un regno diverso che ti avvolge
la meraviglia

Che voce è questa destata dal tuo sogno?
La storia del giardino ripetuta?
Dove il tuo corpo accanto a quale tenebra
scendi in declivio?

Penelope dimentica dell'acqua
bella addormentata la tua luna antica
lasci per un'altra forma dello specchio
sagoma di Alice

Dimmi il segreto già di questa rosa
da unicorno e leone custodita
ché lo straniero sale il tuo colle
sempre più solo

Meraviglioso corpo ti disfai
E nel racconto è cielo il tuo fluire
Ombra che è quasi il blu di chi ti segue
mani e labbra

I passi si ripetono nell'alba
ritorni alla canzone tu stessa canti
penombra di castello nell'inizio
tempo di fate

Dalla mia mano lungo il tuo fluire
un desolato labirinto nasce
fiaba d'amore persa ti richiama
fin dall'oblio

Il poeta ti nomina molteplice
Penelope o Alice sia per sempre
il giardino lo specchio il mare di vino
Claudia che torna

Ascolta colui che scende dal bosco
di alati cervi e di straniera luna
Tocca le tue mani offrendo al tuo corpo
la rosa rossa

Da quale paese e quale tempo viene
la sua voce la storia che ti canta?
Nave di Claudia alla tua riva portami
digli che lo ami

Torre di Claudia annulla in lui l'oblio
candore azzurro l'ora della morte
giardino di Claudia che attraversa il cielo
Claudia celeste

Nave e castello nel tuo ricordo è lui
di nuovo il mare principe abolito
Corpo di Claudia ma finestra infine
del paradiso

***
CALLAR ES BELLO

Callar es bello, a veces,
en la desdicha, cuando el alma
reconoce sus flores
en la muerte encantada;

y oír apenas esa música
de los jardines en desvelo,
mientras caen las hojas
que nos llevan, insomnes, a otro tiempo.

Callar es bello, entonces,
oír el polvo amado
que pasa por un cielo innumerable
en la noche mortal o el desencanto.

Nada decir, mirar en sueños
la penumbra del bosque,
como un ala que se abre
desde el azul profundo de sus flores.

Oh tú que reinas en la noche,
rosa del paraíso que no vuelves,
déjame oír tu mágico embeleso
por los caminos de la nieve.

Dime, ¿qué azul me guardará en tu cuerpo
perdido, dime, hay otra forma
de no morir sino es el canto
que se desvela a solas?

Callar es bello en la desdicha
bajo la sombra enajenada,
y esperar a que cierre nuestros ojos
el cielo interminable de las fábulas.

(da Madrigales de vida y muerte, 1978)


TACERE È BELLO

Tacere è bello, a volte,
nella disgrazia, quando il cuore
riconosce i suoi fiori
nella morte incantata;

e ascoltare appena quella musica
dei giardini insonni,
mentre cadono le foglie
che vigili in un tempo diverso ci conducono.

Tacere è bello, allora,
sentire la polvere amata
che passa in un cielo innumerevole
nella notte mortale o il disincanto.

Dire niente, guardare nei sogni
la penombra del bosco,
come un'ala che si apre
dall'azzurro profondo dei suoi fiori.

Oh tu che regni nella notte,
rosa del paradiso che non torni,
lasciami ascoltare il tuo magico incanto
attraverso le vie della neve.

Dimmi, nel tuo perduto corpo, che azzurro
mi avvolgerà, dimmi, c'è un'altra forma
per non morire a parte il canto
che in solitudine si svela?

Tacere è bello nella disgrazia
sotto l'ombra confusa,
e aspettare che chiuda i nostri occhi
il cielo sconfinato delle favole.

***
EPIFANÍA DEL AZUL

Hay un color azul detrás de la casa,
pero no sabes ya de dónde ha venido:
De una barca sembrada de violetas
o del almendro que se abre como un palomar.

Entonces ya no sabes de dónde vino todo,
quién hizo el vuelo de los pájaros
o los sueños de la bella que duerme,
¿quién te mira escondido detrás de la memoria?

En el color te acercas hasta el origen
de lo que ya no tiene huella,
sales al patio y tocas su epifanía
que sube por tus manos como la vez primera.

(da Muerte de Merlín, 1985)


EPIFANIA DELL'AZZURRO

C'è un colore azzurro dietro la casa,
ma non sai più da dove sia venuto:
Da una barca ricoperta di viole
o dal mandorlo che si apre come una colombaia.

Allora non sai più da dove è venuto tutto,
chi fece il volo degli uccelli
o i sogni della bella addormentata,
chi ti guarda nascosto dietro la memoria?

Nel colore ti avvicini all'origine
di ciò che ha perso le orme,
esci nel cortile e tocchi la sua epifania
che ti sale nelle mani come la prima volta.

***
ENTRE ÁRBOLES

Si eres tú la que busco
ven en la noche de perdidos reflejos,
si eres el cuerpo amado
ven entre árboles, entre canciones.

Aquí te espera un tiempo
desposeído de sus fábulas,
un cuerpo castigado por la vida
y las zarzas de los caminos.

Si eres tú la que vienes
déjame una señal entre los árboles:
un velo blanco, una huella en el polvo
me bastarán en mi miseria.

Ven que la muerte espera,
como floresta magnífica espera la muerte;
si eres tú la que busco
ven protegida por un cielo.

(da Muerte de Merlín, 1985)


FRA ALBERI

Se quella che cerco sei tu
vieni nella notte di cangianti riflessi,
se sei il corpo amato
avanza fra gli alberi, fra le canzoni.

Qui ti attende un tempo
ormai privo di favole,
un corpo castigato dalla vita
e dai rovi dei sentieri.

Se quella che verrà sei tu
lasciami un segno fra gli alberi:
un velo bianco, una traccia di polvere
mi basteranno nella mia miseria.

Vieni che la morte attende,
come magnifica foresta attende;
se quella che cerco sei tu
vieni protetta con un cielo.

***
MUERTE DE MERLÍN

Entre bosques el reino ha concluido.
No tiene sino puertas con herrumbre.
El sortilegio era falso, los encantadores
yacen bajo el espino blanco.

Sin embargo - para quien pueda ver
a través de sus párpados de escarcha -,
existe un rincón desconocido
que brindan la constelación y la rosa.

Aquí el laurel no habita
sino el veneno azulado de la mandrágora
y el tiempo guarda sus libélulas
para dorar los ojos de los muertos.

(da Muerte de Merlín, 1985)


MORTE DI MERLINO

In mezzo ai boschi il regno s'è concluso.
In tutte le sue porte c'è la ruggine.
Il sortilegio era falso, gli incantatori
giacciono sotto il pruno bianco.

Tuttavia - per chi potrà vedere
attraverso le palpebre di brina -,
esiste un angolo segreto
offerto dalla costellazione e dalla rosa.

Dove il lauro non cresce
bensì il veleno blu della mandragola
e il tempo serba le libellule
per indorare gli occhi dei defunti.

***
METAMORFOSIS DEL JARDÍN

Del jardín en verano
nos queda la ceniza,
apenas ese abismo
desde donde no vemos sino tréboles blancos.

A pesar de la muerte
alguien canta a un país desconocido,
acaso sea su duelo la ventura,
aquel destino que nos fuera negado.

Todo es ya polvo en nuestras manos,
canción: no busques ya ni esperes;
tengamos la libélula
y no soñemos la estación que dura.

El jardín sin escalas
guarda bienes y males,
mas, ¿no había aquí una primavera,
un cuerpo que pasaba entre los árboles?

(da Muerte de Merlín, 1985)


METAMORFOSI DEL GIARDINO

Del giardino d'estate
ci rimane la cenere,
appena questo abisso
da dove non si vedono altro che bianchi trifogli.

Malgrado la morte
qualcuno canta a un paese sconosciuto,
forse nel suo dolore c'è la sorte,
quel destino che a noi era negato.

Tutto è polvere ormai nelle nostre mani,
canzone: non cercare più, non sperare;
teniamo la libellula
senza sognare che duri la stagione.

Il giardino senza scale
conserva i beni e i mali;
ma non c'era qui una primavera,
un corpo che slittava fra gli alberi?

***

APÓCRIFO ALEJANDRINO

En sueños invocó Su nombre el Caballero,
y vio en sueños el Blanco Libro de la agonía.
Al despertar, no hallaba el sol de Alejandría,
y confundió sus manos con el libro postrero.

Leyó entonces su fábula y otras fábulas, sus
vigilias le enseñaron que nada es verdadero,
ni la tiniebla de oro donde viera a Jesús,
ni el escudo de plata que dejó ciego a Homero.

(da Carta imaginaria, 1998)


APOCRIFO ALESSANDRINO

Nei sogni il Cavaliere invocò il Suo nome,
e vide nei sogni il Libro Bianco dell'agonia.
Nel risveglio non trovava più il sole d'Alessandria,
e confuse le proprie mani con l'ultimo libro.

Lesse allora la sua fiaba, e altre fiabe, le
veglie gli insegnarono che nulla è veritiero,
né la tenebra d'oro dove scorse Gesù,
né lo scudo d'argento che accecò Omero.

***
CARTA IMAGINARIA

(De Ulises a Nausica)

Vivo en un reino milenario. El cielo
pasa sobre las torres como un agua
llena de cantos. Puedo ver la luna
que rodea a los pájaros, la piedra
donde alguien escribió que todo es vano,
que el hilo de las túnicas se pierde
y no retorna nunca. Tamarindos
había que en sus hojas anunciaban
un dolor y una música a las reinas
que venían del agua más profunda.
Y había la mañana, el mediodía,
los jardines de piedra, el cactus negro.

Tengo aún en mis manos una rama
plateada por la muerte, y una historia
que habla de los que fueron. Las murallas
de la ciudad recuerdan todavía
una nave que estuvo en otra orilla
anclada por el peso de mis viajes
entre sombras, lotófagos, demonios.

Si supieras, Nausica, cómo ha sido
mi vida desde entonces: nada grata
para quien vio la flor de los granados
y la esparció en su lecho y su memoria,
mientras cantaba el ciego al que ofrecieron
una silla de cedro y una fábula.

Tú me guiaste a la ciudad, desnudo,
sólo cubierto por el mar de arena
y por hojas de luz de su hondo prado
para contar mi gloria, mi infortunio.
Te seguí, como dios que me creía,
soñando con mi isla venturosa
donde había dejado tres colores
y un patio y una vid y a mis amigos.
Pero la Reina no esperó mi nave,
la soñó bajo el agua deseada,
y soñó mi esqueleto deslumbrado
por nácares y peces y penumbras
donde cae la tarde y la madera
no es sino puente de un jardín en sombra.

En mi sueño me vi, Rey abatido
por la espada que guardo aún oculta
para el Rey extranjero. Soñé enconces
que moriría lejos de mi patria,

que no volvería a ver en los espejos
las calles de mi Ítaca y el vuelo
que prepara mi arco en esa dicha
perfecta de las olas y las piedras.

Vivo en un reino milenario, es cierto,
sólo un mar de jazmines me rodea.
Salgo a los bosques cuando el cielo teje
la medianoche, solo y en silencio
con mi vida: el destino no me deja
lanzar mi flecha, como yo quisiera,
al corazón del jabalí y la luna:
nunca doy en el blanco, y sólo puedo
pensar en ti, Nausica. Los feacios
jamás supieron ver en el relato
de Demódoco, el ciego, que tuvieran
en su sala de sándalo al más pobre
y más desencantado navegante.

Yo no escuché la historia de mis viajes,
pues veía en tus ojos otra historia,
y esa noche soñé con un vestido
que adoraban tus manos, y una espada.
De lo demás, Nausica, no quisiera
acordarme: la nave hecha pedazos,
los marineros muertos y un fantasma
vagando entre los pinos de la isla.
Los pinos de la isla eran tan bellos,
y ya no tengo cerca ni su sombra.
Ítaca fue un jardín, y hoy sólo escucho
cantar a las serpientes; ramas duras,
endrinos y no almendros, y la piedra
donde alguien escribió que todo es vano.

(da Carta imaginaria, 1998)


LETTERA IMMAGINARIA

(Da Ulisse a Nausica)

Vivo in un regno millenario. Il cielo
passa sopra le torri come un'acqua
piena di canti. Posso vedere la luna
che avvolge gli uccelli, la pietra
dove qualcuno ha scritto che tutto è vano,
che il filo della tunica svanisce
per non trovarsi più. Tamarindi
c'erano che dalle foglie annunziavano
dolore e musica per le regine
che venivano dall'acqua più profonda.
E c'era la mattina, il mezzogiorno,
i giardini di pietra, il cacto nero.

Conservo ancora in mano un ramo
argentato dalla morte, e una storia
che parla di coloro che furono. Le mura
della città evocano ancora
una nave che a un'altra sponda
fu ancorata dal peso dei miei viaggi
tra ombre, lotofagi, e demoni.

Se tu sapessi, Nausica, come è stata
la mia vita da allora: non grata
per chi ha visto i fiori del melograno
sparsi sul proprio letto e nel ricordo,
mentre il cieco cantava e gli offrivano
una sedia di cedro e una favola.

Tu mi portasti nella città, nudo,
soltanto coperto dal mare di sabbia
e da foglie di luce del folto del bosco
per dire la mia gloria, la mia pena.
Io ti seguii credendomi un dio, quindi
sognando la mia isola felice
dove avevo lasciato tre colori
e un patio e una vigna e i miei amici.
Ma la regina non attese la mia nave,
la sognò in fondo alle agognate acque,
e sognò il mio scheletro abbagliato
da mezze luci e pesci e madreperla
dove la sera arriva a un tratto e il legno
non è altro che ponte di un giardino in ombre.

Nel suo sogno mi vidi, re abbattuto
dalla spada che tengo ancora occulta
per il re foraneo. Ho sognato allora
che sarei morto lontano dalla patria,
che non avrei rivisto negli specchi
le strade della mia Itaca né il volo
che propizia il mio arco nella gioia
perfetta dei marosi e delle pietre.

Vivo in un regno millenario, è vero,
un mare di gelsomini mi circonda,
entro nei boschi quando il cielo forma
la mezzanotte, solo e silenzioso
con la mia vita; il destino non mi lascia
lanciare la mia freccia, come vorrei,
dritta al cuore del cinghiale e della luna:
non colpisco il bersaglio e solo posso
pensare a te, Nausica. I feaci
non seppero vedere nel racconto
di Demodoco, il cieco, che avevano
nel salone di sandalo il più povero
e il più disincantato dei navigatori.

Io non ascoltai la storia dei miei viaggi,
perché nei tuoi occhi vedevo un'altra storia,
e quella notte sognai di un abito
che le tue mani adoravano, e di una spada.
Il resto, Nausica, non vorrei
ricordarlo: la nave fatta a pezzi,
i marinai morti e un fantasma
che vagava nel pineto dell'isola.
Dei pini che erano così belli
non mi rimane ormai nemmeno l'ombra.
Itaca era un giardino, ma oggi sento solo
il canto dei serpenti; rami duri,
prugnoli anziché mandorli e la pietra
dove qualcuno scrisse tutto è vano.

***
EN LA HORA DE NUESTRA MUERTE

Si estamos solos,
si la orfandad divina es esa llama
que nos hace perder lo que tuvimos
en el jardín.

Si la penumbra
nos deja sin su vuelo de palomas,
y el cristal que nos hiere es esta luna
leve y violenta.

¿Por qué tanto deseo de estar vivos
entre las flores?
Nadie nos llama del país lejano
virgen y eterno.

Si ha muerto el aire
de tu gracia, y ya no te compadeces
de la miseria que nos da su vino
tan bello y triste.

¿Por qué seguir contándonos la fábula
que en la memoria
nos decía de dioses y de hadas
tristes y bellos?

¿Para qué amarnos
si el día pasa y no retorna nunca,
y lava nuestros huesos, y en la hora
de nuestra muerte

no cree en la maravilla de los lirios
que nos llevaron
en la barca que apunta al otro reino
solo y perpetuo?

Dejémoslos pasar
como las estaciones de un castillo
que ya tuvo su invierno y su verano
contra la dicha.

Ah, tú, felicidad, ¿de dónde vienes?
¿De tu solar en ruinas? ¿Por qué llamas
si ya todo en nosotros se ha perdido,
lirios y rosas?

¿No es nuestra vida el ala de unos pájaros
que vuelan en el fondo de un espejo?
Sólo hay dolor y polvo en su silencio,
cristal y brasas.

(da Brasa lunar, 2004)


NELL'ORA DELLA NOSTRA MORTE

Se siamo soli,
se l'essere orfani di Dio è quella fiamma
che ci fa perdere quello che abbiamo avuto
nel giardino.

Se la penombra
ci lascia senza il suo volo di colombe,
e il cristallo che ci ferisce è questa luna
lieve e violenta.

Perché tutto questo desiderio d'esser vivi
tra i fiori?
Nessuno ci chiama dal paese lontano
eterno e vergine.

Se è già morta l'aria
della tua grazia, e non hai pietà
della miseria che ci offre il suo vino
tanto bello e triste.

A quale scopo raccontare ancora la favola
che nella memoria
rammentava gli dei e le fate
tristi e belli?

A quale scopo amarci
se il giorno passa e non ritorna mai,
e lava le nostre ossa, e nell'ora
della nostra morte

non crede alla meraviglia dei gigli
che ci portarono
sulla barca diretta all'altro regno
solo e perpetuo?

Lasciamoli passare
come le stagioni di un castello
che ha avuto già l'inverno e l'estate
contro la gioia.

Oh tu, felicità, da dove vieni?
Dalla tua casa in rovina? Perché chiami
se ormai tutto in noi è perso,
gigli e rose?

Non è forse la nostra vita l'ala degli uccelli
che volano in fondo a uno specchio?
Soltanto c'è dolore e polvere nel suo silenzio,
cristallo e brace.

***
PATIO DE NIÑOS

La luz viene del aire
en las alas de un pájaro.
No dispares tu honda:
vendría la noche eterna,
fin de mundo, comienzo - para siempre -
de la mortal, celeste llamarada.

(da Brasa lunar, 2004)


IL PATIO DEI BAMBINI

La luce viene dall'aria
sulle ali di un uccello.
Non sparare la tua fionda:
verrebbe la notte eterna,
fine del mondo, inizio - ormai per sempre -
della mortale e celeste fiamma.

***
MONÓLOGO DE SHEREZADA

Ya no quiero palabras, sólo un largo
silencio. ¿Entre las ruinas quién decide
contarse y contar a otros? El desierto
nos rodea, las dunas son ardientes.
Todo muere de sed. ¿Quién quiere fábulas?
Mas, hay alguien que dice, ésta es la luna
de las leves almenas, y, a nosotros,
perdidos, nos olvidan
en medio de la peste.
Damos gracias a Dios, y a Sherezada
que recomienza había una vez un Rey...

(da Brasa lunar, 2004)


MONOLOGO DI SHAHRAZÀD

Non voglio più parole, soltanto un lungo
silenzio. Tra le rovine chi decide
raccontarsi e raccontare gli altri? Il deserto
ci circonda, le dune sono ardenti.
Ogni cosa muore di sete. Chi vuole le fiabe?
Eppure, vi è qualcuno che dice, questa è la luna
sopra i sottili merli delle mura, e noi,
smarriti, siamo dimenticati
nel mezzo della peste.
Diamo grazie a Dio, e a Shaharazàd
che ricomincia c'era una volta un Re...



     1 "En tu noche se pierde el extranjero": per mantenere il ritmo dell'endecasillabo ho trasferito il possessivo da "notte" a "straniero".


(traduzione di Martha Canfield)


Giovanni Quessep
Foto di Vicky Ospina
GIOVANNI QUESSEP

(San Onofre, Colombia, 1939). Nato nella provincia di Sucre, sulla costa caraibica della Colombia, ha fatto i suoi studi superiori a Bogotà dove si è laureato e dove è stato docente universitario per lunghi anni. Dal 1985 si è ritirato nella città di Popayàn, dove continua ad insegnare all'Università. Solo eccezionalmente partecipa ad eventi culturali nazionali o internazionali, benché continuamente sollecitato da organismi pubblici e privati. Membro dell'Accademia Colombiana della Lingua, vincitore nel 2004 del Premio Internazionale della "Casa de Poesía Silva", è oggi uno dei poeti più letti e più seguiti dalle giovani generazioni, considerato dalla critica indiscutibile punto di riferimento nella storia della poesia colombiana. Ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: Después del paraíso (1961), ben presto rinnegata come opera giovanile immatura e mai più ripubblicata, El ser no es una fábula (1968), Duración y leyenda (1972), Canto del extranjero (1976), Madrigales de vida y muerte (1977), Libro del encantado (1978), Preludios (1980), Muerte de Merlín (1985), Un jardín y un desierto (1993), Carta imaginaria (1998) e Brasa lunar (2004). Ha riunito la sua vasta opera in tre antologie: Poesía (1980), Antología poética (1993), pubblicata nella collana di classici colombiani del prestigioso Istituto Caro y Cuervo di Bogotà con una corposa prefazione di Hernán Reyes Peñaranda, e infine Libro del encantado (2004).


Vedi anche, in questo numero:
La poesia colombiana degli ultimi decenni (prima parte)
di Martha Canfield