FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 69
marzo 2025

Identikit

 

LE TLAHUELPUCHI

di Carlos Rutilo



Per María Fernanda Ramos


Camminiamo attraverso la città tuttora avvolta nella nebbia. A volte Carmen prende l’iniziativa di unire le nostre mani quando ci fermiamo, in certi istanti, a contemplare il paesaggio che attende la sera tra le strade deserte. Gli edifici più alti della città danno la fragile impressione di essere fantasmi di antichi giganti che rifiutano di perdersi nei labirinti del tempo. In altri luoghi del centro sembra di stare in zone di guerra perché dove prima era consuetudine vedere vecchie facciate di palazzi, ora, al loro posto, ci sono soltanto macerie in paziente attesa di risorgere come lo spettro moderno di ciò che erano ai loro vecchi tempi. A un certo punto ci fermiamo a osservare il fiume che scorre sotto un ponte di ferro in totale abbandono; motivo per cui credo che la gente abbia smesso di frequentarlo, anche per via della mancanza di sicurezza così attraente nei colori della ringhiera arrugginita.

“Così devono essere, con gli anni, le strade della memoria: arrugginite come un vecchio ponte sul punto di cadere a pezzi”, dico a me stesso mentre cerco di non prestare attenzione all’orizzonte che va ammassandosi sempre più di nuvole grigie. All’improvviso mi accorgo che nel cielo è come se una mano invisibile stia lentamente tirando le corde del sole fino a sommergerlo, come un uovo di sangue, tra le strette e spettrali montagne che accerchiano la città.

Sotto i nostri piedi il fiume appare come un immenso specchio d’acqua limpida e vetrata. Ma per un tenue istante, attraverso lo sguardo di Carmen, arrivo a pensare di vedere anche una donna anziana dormire avvolta nella neve di un vulcano che si trova nel mio villaggio, ed è come se un fantasma millenario facesse di tutto per manifestarsi proprio ora che ce ne stiamo tranquilli. Carmen appoggia le braccia sul parapetto metallico del ponte e si contempla nell’acqua, accanto ai pesci di diverse dimensioni e colori che transitano in assoluto silenzio e inizio a imitare i suoi movimenti fluviali senza smettere di guardarla.

“Quando ci siamo conosciuti ti avevo raccontato di avere un amico che ti assomiglia parecchio. Non lo conosci, non te l’ho mai presentato e non credo che un giorno lo farò, o almeno non tanto presto. Però torno a lui poiché oggi, che abbiamo passato parte della serata a chiacchierare delle nostre vite, mi hai parlato delle streghe del tuo popolo...”, dice Carmen e poi sembra che cerchi il nome esatto di quelle streghe nel fragile baule dei nostri recenti discorsi.

Nessuno dei due ha mosso le braccia della ringhiera di acciaio. Carmen mi fa un sorriso d’acqua e si aggiusta gli occhiali. Allora qualcosa di gelido nella mia memoria sembra disegnare quel piccolo villaggio, isolato e distante dalla città, come se fosse quasi morto o sul punto di scomparire.

“Tlahuelpuchi... nel mio villaggio così venivano chiamate le donne che praticavano la stregoneria... non ridere, dico sul serio. Con questo nome noi conoscevamo le streghe...”

“Non sto scherzando. È solo che mi è difficile articolare quella parola, forse tra un attimo la avrò già dimenticata. Però raccontami quella storia, per favore. Ricordo che tu e il mio amico – ovviamente ciascuno in momenti diversi – mi avete parlato entrambi del caso di alcune donne che mettevano braccia e gambe in un calderone per poi trasformarsi in creature simili a tacchini e poi dalle loro viscere spuntava come una palla di fuoco. Credo che anche lui le chiamasse con lo stesso nome da te appena pronunciato.”

“Tlahuelpuchi...”.

“Ne hai mai incontrata una? Anche se da lontano.”

“Non ho vissuto a lungo nel mio villaggio, quasi tutta la mia famiglia è emigrata al Nord, quindi non posso dirti se in realtà ne ho mai incontrata una; non tutti lì mi parlavano e se lo facevano si assicuravano che io non li comprendessi, però ricordo una signora e una ragazza che mi spaventavano molto quando tornavo a Xulalpa durante le vacanze estive, o nel giorno dedicato ai morti.”

Carmen si sistema di nuovo gli occhiali sul naso e attraverso l’acqua mi dedica un altro sorriso; poi il suo sguardo si fa serio quando inizio a raccontarle che da bambino vedevo scendere dalle alte montagne di Xulalpa una donna piccola e curva, dalla pelle raggrinzita e i capelli argentati come quelli del piumaggio di un tacchino, sempre accompagnata da un’altra giovane donna sottile come un fiume che riflette il colore delle foglie degli alberi in pieno autunno. Indossavano gonne nere di un tessuto molto pesante e camicette bianche con fiori ricamati sul petto. Ricordo che entrambe camminavano scalze sui sentieri di pietra e sulle spalle portavano uno scialle scuro con dentro un paio di contenitori di alluminio pieni di sangue e scendendo verso il villaggio macchiavano di quella sostanza le strade acciottolate. La nebbia che invade la memoria non mi lascia mettere a fuoco il nome di quelle due donne; ma ricordo la casa dove vivevano collocata sulle montagne che, in quel periodo, ancora ostentava la sua testarda e civettuola decadenza, con tracce di un giardino dai fiori appassiti uguali a quelli delle tombe abbandonate del camposanto, i rampicanti secchi e appiattiti sulle recinzioni di legno putrido.

Era mio nonno materno a portarmi in quei luoghi per insegnarmi gli svariati suoni della campagna ed è stato proprio in una di quelle spedizioni che mi sono imbattuto per la prima volta nella casa dei miei futuri incubi. Ricordo che una volta scorsi la ragazza giocare con un paio di bambole di stoffa nello smorto giardino, ed era strano alla sua età, e la vecchia che la osservava stando seduta in una sedia di legno, tutta presa a cucinare qualcosa di simile a un vecchio pupazzo di segatura. Entrambe sembravano non temere il tempo che passava proprio davanti ai loro occhi.

All’improvviso, tra la nebbia, riappaiono le sagome di alcuni miei amici di quella lontana infanzia, a cui piaceva andare per le strade con le mani legate al filo di un aquilone realizzato con carta cinese e rami di vecchi alberi. Mi viene anche in mente che non ho mai imparato a farne uno con le mie mani, per questo li osservavo regolarmente seduto dalla panchina della mia vecchia casa mentre facevano volare il loro aquilone in alto, in alto fino a perdersi in qualche lontano punto dell’orizzonte.

Eppure, una volta che le due donne della montagna erano scese al nostro villaggio, quegli stessi bambini raccolsero tutte le pietre che potevano sollevare da terra e con tanta rabbia le scagliarono sui volti delle streghe. Gridavano Tlahuelpuchi, e nessun adulto che passava da quelle parti si arrischiò a bloccare quel primo massacro dell’infanzia; finché mia madre uscì di casa e le difese da quei terribili bambini. La vecchia signora, nonostante le ferite riportate, non si lasciò sfuggire una lacrima, o almeno non ricordo di averle viste sui bordi dei suoi occhi; invece qualcosa di molto simile a una tempesta risaltò sul volto della ragazza, tempesta che finì per attraversare tutto il mio corpo.

Era uno sguardo così penetrante che raramente riuscivo a togliermelo da dosso durante quella fase della mia vita: mi lavavo e sentivo i suoi occhi verdi attaccati alla pelle, come un tatuaggio a forma di serpente. A volte dormivo con il timore di ritrovarmela seduta al bordo del letto o fuori dalle finestre della mia stanza, beccando i vetri con il suo volto da tacchino, e illuminando le ombre che la notte offriva con l’immensa palla di fuoco sgorgata dal suo ventre.

“E poi cosa è accaduto?”, chiede Carmen con una grande inquietudine nello sguardo.

“Mia madre iniziò a realizzare protezioni di sale intorno alle porte di casa, ad apire e chiudere forbici davanti a specchi e finestre. Mio padre per un po’ di tempo smise di bere coi suoi amici e si arrabbiava quando, nella sua sbronza solitaria, giurava di vedere palle di fuoco diffondersi tra le montagne. I cani delle strade ululavano in branco come per annunciare la morte di qualcuno. Non mi lasciavano più uscire di casa se non per vedere la nonna che mi curava con i suoi antichi rituali contro il malocchio. Ricordo perfino che in quella stagione molti bambini si svegliavano morti, con dei piccoli fori nelle guance, come se una creatura simile a un vampiro avesse infilato le sue zanne fino a succhiargli tutto il sangue; e ho sentito dire che le donne incinte partorivano solo qualcosa di molto simile a un osso di pesca...”

Ora vedo di nuovo sfilare in interminabili processioni quelle giovani madri, quasi delle bambine, disperate per la inspiegabile perdita dei loro figli. Rammento la dimensione ridotta e il colore bianco, con cornici di colore celeste o rosa, in base al sesso, di ciascuna di quelle bare. In mezzo a tutta quella folla non ho mai smesso di sentire i gelidi occhi delle Tlahuelpuchi, e in lontananza ritorna il suono metallico dei contenitori di alluminio, accanto al frusciare delle gonne nere mescolato allo strano canto che fanno i tacchini. Quella folla sembrava non darsi conto e nemmeno percepire che in lontananza qualcun altro li stava perseguitando, come quei miei amici, nella loro innocenza, perseguitavano le streghe.

“Hai visto di nuovo quei bambini?”

“No, quella è stata l’ultima volta che li ho incontrati nel mio villaggio. Dopo per me non è stato facile tornare e quando ci sono riuscito ormai i miei amici non vivevano più lì. Probabilmente alcuni di loro si sono messi a vendere fiori per le strade di Puebla o di San Luis; e gli altri, semplicemente, si sono impiccati a casa quando non ebbero più notizie dei genitori, emigrati ancora più a Nord. Se ora tornassi al villaggio forse non troverei nessuno che mi conosca o si ricordi ancora di me. Lì ora è più facili incontrare forestieri coi loro estesi terreni ben recintati che gente del posto.”

Per un momento Carmen tace e io smetto di vedere il riflesso della donna addormentata sotto la neve del vulcano. I denti della notte iniziato a impadronirsi del cielo d’acqua.

“E che mi dici delle streghe?”

“Spero che stiano bene ovunque si trovino. Qualcuno mi disse che un giorno smisero di vederle attraversare il nostro villaggio e che la casa è sempre la stessa: abbandonata, però intatta e ricoperta di erbacce nonostante una notte l’abbiano ritrovata bruciata dalle fiamme. Anche se non le ho più riviste per un po’ di tempo le incontravo sempre nei miei sogni. Nelle stagioni di tempesta, già in città, sognavo le Tlahuelpuchi atterrare sul tetto di casa per poi mettersi a beccare sulle finestre, fino a spalancarle. A un certo punto mi decisi a mettere in atto lo stesso rituale che mia madre faceva per precauzione: anche d’estate, quando il caldo mi soffocava, dormivo con le finestre sprangate. A volte ho la strana sensazione che prima o poi incontrerò di nuovo la più giovane delle due, perché ancora sento lo sguardo verde del suo odio ben dentro le mie ossa, come un fantasma in paziente attesa del momento giusto per riapparire tra le ombre.”

Carmen si stacca dalla ringhiera di acciaio e afferra le mie gelide, tremanti mani e con esse disegna, nel riflesso dell’acqua, un cigno, poi fa oscillare le punte delle nostre dita come se quell’uccello stesse per spiccare il volo.

“Lo capisco. Talvolta anch’io sogno i fantasmi. Ma è difficile afferrarli, così come le streghe.”


Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini


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