FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 68
novembre 2024

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L'INTRUSO

di Patrizia Passarelli



“Come hai detto che ti chiami, straniero?”
“Non l’ho detto.”

C. EASTWOOD, Lo straniero senza nome


Giulia continuava a fissare la macchina sfornare batterie di fotocopie in ordine ben allineato, su vassoi diversi, pronte per essere fascicolate e d’un tratto l’idea che quello fosse un lavoro davvero noioso si fece spazio tra i suoi pensieri. Era rimasta ipnotizzata dal rumore, battente e sempre uguale, che si associava alla vista di quei fogli sputati fuori a ritmo serrato. Prima di percepire consapevolmente quello stato di noia, se le avessero chiesto “A cosa stai pensando?” non avrebbe saputo rispondere. Probabilmente una catena di associazioni mentali l’aveva portata a spaziare da un lato all’altro del suo universo, senza un pensiero dominante a catturare l’attenzione. Fino, appunto, all’insinuarsi della percezione della noia. Ne aveva dovute subire tante di cose noiose nella vita, anzi aveva imparato a conoscerla fin da piccola la noia, a odiarla, rispettarla e forse, raramente, persino ad apprezzarla. Era tale l’intimità con questo sentimento che a volte si convinceva di essere noiosa a sua volta.

Quando la fotocopiatrice si surriscaldava, il puzzo del toner saliva alle narici con una coda pungente di ammoniaca e quello era il chiaro segnale che ci si doveva fermare. Ma mancavano davvero pochi fogli alla fine e perciò decise di portare a termine il lavoro. Poi, pensò, non le restava che prenotare l’albergo per gli spostamenti della troupe la settimana prossima e finalmente sarebbe uscita. Aveva un mezzo pomeriggio di svago davanti a sé: un appuntamento dall’estetista per concludere la settimana in modo rilassato e potere iniziare a programmare il week end.

Lei e Fabrizio avevano ricevuto un invito: Martino organizzava una cena a casa sua sabato sera per salutare gli amici prima della partenza. Aveva vinto una borsa di studio e per un anno se ne andava a lavorare in Canada.

“Come faremo un anno senza di te, Marti!” “Beh facile, mi verrete a trovare…. e quando vi ricapita l’occasione di un viaggio così?” Erano tutti contenti per lui, un’opportunità fantastica, biologo molecolare presso uno dei più prestigiosi centri di ricerca di Toronto. A chi non piaceva l’idea di partire subito? Nessuno si fece ripetere l’invito due volte e Martino aveva dovuto praticamente fare un calendario con i turni per ricevere tutti gli amici.

“Ragazzi ma io vado lì a lavorare mica a fare la guida turistica” si difendeva scherzando. “Ahhh, ma già ti stai tirando indietro? Che pretendi scusa, tutte quelle ore di aereo, non penserai che verremo per il week end. Lo facciamo per te sai, per farti sentire meno solo. Eppoi il Canada è grande, ci vuoi far stare almeno dieci giorni?”. Giulia rideva con loro ma sapeva che a lei quel viaggio non era permesso. Troppo lungo, troppo freddo, troppo rischio. Limitare gli sforzi, dosare le energie, alternare alle attività momenti di sosta. Queste attenzioni, da tanto, facevano parte del suo stile di vita e col passare del tempo neanche erano state più sufficienti. Aveva imparato a gestirsi piuttosto bene, ad ascoltare il suo corpo ma questo non evitava, a volte, di doversi tirare fuori dalle situazioni. Gli amici, quelli veri, la capivano, degli altri non si preoccupava.

Era il cuore quello con cui fin dall’infanzia aveva dovuto fare i conti. Da bambina non poteva prendere parte a giochi troppo faticosi, qualche volta doveva rinunciare alle ore di educazione fisica per non fare sforzi intensi o prolungati. Niente correre troppo, saltare troppo, nuotare troppo. Tutto quello che era troppo era proibito ma la misura del troppo non è facile da trovare per un bambino. Giulia era nata con un cuore diverso, più grande del normale, con le pareti troppo spesse che lasciavano poco spazio a disposizione per quelle cavità in cui il sangue doveva circolare e scambiarsi. Era un nome difficile quello che definiva la sua malattia, cardiomiopatia ipertrofica. Allo stesso modo era stato difficile per sua madre trovare ogni volta le parole per spiegarle, per convincerla a fare e non fare, a capire, a superare i disagi, il dolore e le paure di una bambina prima, di una ragazza e di una donna poi. Difficile era stato per lei imparare ad accettare quella diversità, a conviverci. Lei stessa aveva spesso aiutato la mamma con l’incoscienza e l’allegria che da adolescenti fa sentire invincibili. Anche davanti a giramenti di testa improvvisi, all’affanno per pochi scalini di corsa o alla debolezza che la teneva stretta per giornate intere, non aveva mai – quasi mai – perso la convinzione di poter condurre una vita uguale – quasi uguale – a quella di tutti i suoi amici. C’erano situazioni in cui però l’ottimismo non riusciva proprio a prevalere e alcune di queste le ricordava bene. Alle scuole elementari guardava i compagni che facevano ginnastica. Li guardava con la fame negli occhi mentre saltavano, si arrampicavano nel quadro svedese o correvano e lei lì in un angolo ad aspettare che finisse l’ora. Per sentirsi meno diversa da loro, a ogni giro di palestra che completavano, si chiedeva quanti giri avesse fatto il suo sangue o se, chissà, il cuore avesse un battito regolare quanto quello delle mani della maestra che segnava il ritmo dell’esercizio da fare. Quanto le sarebbe piaciuto prendere il posto di quei ragazzini pigri che trovavano mille scuse per stare nascosti negli spogliatoi a non fare nulla! Se avesse potuto non avrebbe saltato neanche una lezione. L’unica attività che le era consentita – sotto stretto controllo – era l’asse di equilibrio e lì era fortissima. Alle cose che poteva fare senza limiti dedicava tutta sé stessa, tutto il suo impegno fisico e emotivo, come fossero un’occasione di riscatto e per questo aveva sviluppato una capacità di concentrazione che pochi altri alla sua età sapevano mantenere. Quando camminava su quell’asse di legno sembrava che non avesse più peso, la padronanza dei movimenti, le dicevano, le conferiva morbidezza ed equilibrio. Tutta l’attenzione che metteva in quei gesti le aveva insegnato a calibrare le emozioni e forse anche un po’ (così le piaceva pensare) il numero dei battiti. Ma gli ingranaggi della vita a volte si bloccano, parti di noi non rispondono più agli stimoli e mentre questo succede, quando questo processo ha inizio, noi non lo sappiamo, non possiamo sapere come le cose cambiano nel nostro corpo, quello che ci cresce o si modifica dentro. Aveva 14 anni quando la trovarono svenuta ai piedi delle scale. Aveva citofonato e dalle solite poche parole “Ciao sono io” la mamma aveva sentito quel po’ di affanno che l’accompagnava sempre. Le madri e il loro orecchio speciale. Come tante altre volte quello che aveva percepito le era rimasto dentro, silenzioso, come un campanello d’allarme allertato, pronto a disinnescarsi alla vista di una Giulia sorridente. Ma quella volta il campanello iniziò a suonarle nella testa quando il tempo tra la risposta al citofono e l’arrivo dell’ascensore al piano si dilatò troppo. Uscì sul pianerottolo, vide l’ascensore occupato ma non sentì il rumore della cabina che saliva. Rientrò di scatto a prendere il telefono e mentre si precipitava giù per le scale stava già chiamando il numero dell’emergenza cardiaca. La trovò priva di sensi, le labbra appena cianotiche, la porta dell’ascensore aperta senza che fosse riuscita a salirci. La mamma sapeva le manovre da fare e le fece con cura anche se in preda all’emozione. Giulia riprese conoscenza in ambulanza con lei accanto e quando aprì gli occhi e le sorrise, fu forse la prima volta in cui pensò che davvero aveva corso il rischio di morire così, improvvisamente. Forse il suo cuore cambiava perché lei stava cambiando e non cambiavano solo le gambe che diventavano più lunghe o il viso che piano piano perdeva le fattezze di bambina. Cambiavano i desideri, le sensazioni che ora sembravano incontrollabili, tumultuose e quel cuore la infastidiva. Quel cuore che batteva lento, che non seguiva le sue trasformazioni, che la costringeva ad avere paura, a riprogettare continuamente le giornate.

Passò in ospedale un paio di settimane. Due settimane in cui fu sottoposta ad ogni genere di accertamento e ad un intervento. Si era reso necessario l’impianto di un defibrillatore per scongiurare, appunto, il rischio di morte cardiaca improvvisa.

Ci volle un po’ di tempo perché riuscisse ad accettare questa nuova condizione. Era la prima volta che aveva dentro di sé “un corpo estraneo” – come lo chiamava allora – e questo non le piaceva ma sapeva di doverlo accettare. Quel corpo estraneo le permetteva il compromesso, le lasciava ancora la possibilità di pensare a una vita normale. Ma non le piaceva pensare che nonostante gli sforzi, non riuscisse a controllare il suo cuore che continuava a crescere e a battere per conto proprio incurante dei suoi sforzi, come se non le appartenesse, slegato dall’impegno che impiegava per farlo stare bene. Era per quello che lo chiamano “muscolo involontario”, perché lui procedeva per conto proprio, indipendente appunto dalla sua di volontà. Era arrabbiata, aveva 14 anni ed era stufa di dover fare analisi ogni momento e ricevere consigli su ogni cosa.

Il tempo l’aiutò, la rabbia lasciò il posto un po’ alla rassegnazione e un po’ alla convinzione che in fondo era possibile anche per lei vivere una vita con delle soddisfazioni.

Iniziò ad amare la pittura, le gallerie, i musei e passare il tempo guardando quadri. Quadri e pittori di ogni epoca, diversissimi e lontanissimi tra loro. Guardava e sentiva su di sé il caldo o il freddo dei colori, si perdeva nella profondità di un paesaggio, s’immaginava come una dama di corte vestita a festa. Nella sua testa vedeva ciascun quadro prendere forma sotto le mani dell’artista, pensava alla tela bianca e al passaggio seguente ed era come affiancare un fotogramma a quello precedente o a quello successivo finché, alla fine, come in un filmato, si costruiva l’opera conclusa. La pittura la faceva viaggiare, andava lontanissima, sentiva l’odore dolciastro dei fiori che iniziavano ad appassire nelle nature morte o restava imbrigliata negli spazi geometrici di Kandinskij e l’affascinava pensare come in fondo pochi colori, sempre gli stessi, potessero mescolarsi e dare vita a tanta diversità. Quando s’immedesimava nei quadri, vedeva nelle immagini qualcosa che forse non c’era ma che le sembrava di aver vissuto o provato e si sentiva vicina a quell’artista. Un’assenza di forma in un’opera, le sembrava compensata dall’energia data dal movimento del pennello o dal colore; poi con quello stesso sguardo guardava sé stessa e si dava coraggio: il suo cuore aveva meno energia certo, ma lei aveva un carattere positivo, la determinazione la sosteneva, la sua allegria faceva in modo che fosse sempre circondata di amici. Così usciva da quelle mostre e si sentiva soddisfatta.

Gli anni del liceo furono i più stazionari per il suo cuore, il “sorvegliato speciale”, sempre sotto controllo. Aveva già da tempo dovuto rinunciare alle ore di educazione fisica e conduceva uno stile di vita molto regolare. Questo le permise di raggiungere una certa stabilità e di essere meno soggetta a sbalzi di umore e, per lunghi periodi, di riuscire a sentirsi uguale agli altri. La continuità di quel periodo positivo, anche se sempre sottoposta ad analisi e ecografie, la fece convincere di poter convivere con quella malattia senza in fondo risentirne troppo, riducendo gli sforzi fisici e continuando con la terapia farmacologica. Ma l’illusione non andò lontano. Il cuore continuava a dilatarsi e iniziò a soffrire di fibrillazioni che si facevano via via più importanti. All’improvviso iniziava a battere fortissimo e il defibrillatore entrava in funzione per contrastarlo. In quei momenti le prendeva un panico crescente che, lo sapeva, non aiutava a migliorare la situazione eppure si sentiva completamente impotente, in balia degli eventi. Una volta, la peggiore nella sua vita, i battiti erano così veloci che la scossa elettrica non riusciva a contrastarli. Le sembrò che si stesse combattendo una battaglia all’interno del suo corpo a cui non aveva il permesso di partecipare. Non capì più niente, lanciò un urlo fortissimo e svenne. Dopo quell’episodio, entrò in uno stato fisico di prostrazione che peggiorava visibilmente, di giorno in giorno. Ogni azione diventava faticosa, il corpo accumulava liquidi e le gambe si gonfiavano, se si sdraiava sul letto respirava male, non sapeva più quale fosse la cosa migliore da fare. Viveva nella sensazione di essere legata a un filo sempre più esile che si annodava intorno alle sue paure. E se fosse successo di nuovo? Se fosse successo quando era sola o mentre stava guidando? La paura l’inchiodò a una sedentarietà che non le era solita. Aveva vent’anni e fu allora che i medici iniziano ad accennare l’ipotesi del trapianto. Erano molto rassicuranti nel modo in cui ne parlavano, quasi un’operazione di routine che banalizzando “serve a togliere un pezzo che non funziona per sostituirlo con uno buono”. Parlarne in modo tecnico serviva a rendere l’intervento qualcosa di meccanico ma lei era spaventatissima. L’idea del trapianto – è vero – apriva nuove possibilità, ma fu come realizzare in un sol colpo quanto le sue condizioni fossero gravi. Accarezzava l’idea che quella potesse essere la soluzione definitiva ma non riusciva a non pensare. Sapeva bene che la possibilità che la sua vita andasse avanti era legata alla morte di un’altra persona e questo per lei era destabilizzante, le faceva desiderare e insieme rifiutare quell’idea. Le si dava l’opportunità di rinascere, di risalire dopo aver toccato il fondo ma a scapito di qualcun altro, una persona simile a lei, stessa età, stessa corporatura, stesso sangue ma storia diversa, sogni diversi. Si riempì di sensi di colpa, ogni giorno di più si rendeva conto di quanto ogni vita fosse legata alla vita degli altri, di quanto la vita, la nostra vita, in fondo, non ci appartenga del tutto. Da ragazzina aveva vissuto il defibrillatore come un corpo estraneo e l’aveva accettato con fatica. E ora? Era un cuore intero, il cuore di un’altra persona “l’intruso”. E se l’intruso fosse quello che una volta entrato l’avesse salvata, gli avrebbe aperto la porta?

Trascorse un periodo di calma forzata. Anni importanti, in cui si laureò in cinematografia, si fidanzò e riuscì a recuperare un po’ le forze. Nelle sue lunghissime giornate oscillava tra il desiderio di costruire qualcosa non appena avesse avuto un cuore nuovo e la consapevolezza di quanto questo montare e smontare progetti fosse assurdo visto che il tutto non dipendeva da lei. Si colpevolizzava, aveva paura di far soffrire le persone che amava, si faceva un sacco di domande. Forse si aspettava troppo, era presuntuosa nei confronti della vita? Era giusto per lei sognare? Continuava a provare insieme la paura e la speranza, vedeva i suoi coetanei che finiti gli studi iniziavano a lavorare, mentre lei troppo spesso non trovava le forze per fare nulla e le sembrava di accontentarsi.

Le ecografie intanto dicevano che il trapianto non era più rimandabile e così, dopo qualche mese di controlli più intensi del solito, nell’aprile del 2016 Giulia fu inserita in una lista d’attesa. I medici erano ottimisti: era giovane e di corporatura minuta, una tipologia di trapianto meno difficile da individuare.

Dunque il week end, sabato sera, la cena a casa di Martino. Erano tutti un po’ su di giri dopo aver brindato a ogni sorta di sciocchezza: a Martino che partiva e a Martino che tornava, al Canada che lo accoglieva, alle foche, alle alci, a nuovi legami “non solo chimici” e via così. Passata la mezzanotte, mentre stavano tornando a casa, il cellulare di Giulia squillò. Quando sei inserito in una lista d’attesa per un trapianto, ti viene assegnato un numero di telefono attivo H24, che Giulia aveva registrato come Emergenza Cuori Infranti. Cosa potevano volere da lei a quell’ora? Rispose e una dottoressa dalla voce pacata, dopo averle chiesto come stesse, le disse che avevano un cuore idoneo, che rispondeva alle sue caratteristiche e che stavano valutando per lei di effettuare il trapianto. “Può raggiungerci in ospedale?”

∗∗∗

Quanto avevo aspettato quel momento! Mi sembrava che non sarebbe arrivato mai e quando chiusi la telefonata, dopo aver balbettato un Si, certo! guardai Fabrizio che guidava, incredula, spaventata, smarrita come se avessi sentito quella notizia per la prima volta. Fabrizio, che ormai da due anni stava con me, dalle poche, telegrafiche frasi, aveva capito. Fermò l’auto al lato della strada, si tolse la cintura di sicurezza e face un respiro profondo. “Il cuore?” chiese ma senza aspettare una risposta. Sembrava più emozionato di me. “Sei pronta?” “Non lo so, ma andiamo”. Sensazioni e pensieri diversi iniziarono a intrecciarsi. La dimensione razionale sapeva con ordine cosa fare ma insieme fui assalita da un tumulto di mille altre cose che già mille altre volte avevo pensato. Il mio cuore, il suo, chi era, la paura, la colpa, la speranza.

Fino al momento prima di addormentarmi in sala operatoria, non potevo credere che sarebbe successo davvero ma successe.

E mi risvegliai.

Sono io, sono io che sento il cuore battere, battere forte? Ventiquattro anni a lottare e ora sentivo i battiti, chiari, definiti, ero sdraiata e sentivo il battito, parlavo e sentivo il battito. Sentivo la potenza di quel cuore come un pilota sente il rombo della sua auto. Pensai a quando da ragazzina dubitavo – in preda alla debolezza – che il sangue mi girasse nelle vene e ora ne sentivo la pressione. Quando il dottore mi chiese come mi sentivo gli dissi solo “Che dire? Incredula prima e incredula adesso”. Sorrise e disse che mi sarei abituata. Mi spiegò che tutto era andato bene, quale sarebbe stato il decorso e che dopo un anno dal trapianto, se non ci fossero state anomalie o complicazioni, avrei ricominciato a condurre una vita normale, sicuramente migliore e più in forza di quella che avevo vissuto fino a quel momento.

Aveva ragione.

Mi sono abituata, è passato molto più di un anno e non faccio più caso al cuore che batte. Penso però sempre a quella ragazza, soprattutto quando sto molto bene, ai sogni che aveva, a questo cuore che andava alla perfezione e poteva fare tantissime cose. Penso a lei che è una parte di me.

Ogni tanto guardo allo specchio il segno lungo e profondo della cicatrice e mi sembra la traccia di un confine, il confine col mondo esterno, il punto di contatto con quello che il mio corpo ha preso da lì. Quel segno che divide in due il mio petto mi ricorda che sono Giulia anche grazie a un’altra persona, che questo cuore non sono solo io, che un intruso mi ha salvato la vita.


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