FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 66
marzo 2024

Inverno

 

UNA RAGIONE SENZA ARMI,
UNA SOLITUDINE SENZA RAGIONE

In Stella Maris, il secondo libro del
dittico finale di Cormac McCarthy

di Marco Testi



Stella Maris è la clinica dove per la terza volta viene ospitata Alicia Western, sorella di Bobby, protagonista del primo romanzo del dittico terminale di Cormac McCarthy, Il passeggero. Il suo essere anche titolo del racconto rivela l’assolutezza di un luogo che diviene co-protagonista silente, in apparenza, come se gli spazi non potessero parlare linguaggi diversi che non quelli antropici, perché Stella Maris è il resoconto dei colloqui tra la giovane e lo psichiatra Cohen.

Non è solo il diario di un rovesciamento previsto, quella della logica d’occidente nelle parole di una ragazza – schizofrenica, per la medicina ufficiale – che indaga i misteri del linguaggio e della matematica, della musica, della filosofia e della fede. Le risposte sono le domande, con un dottore che deve fare appello a tutta la sua esperienza – di scienza è preferibile qui non parlare, vista la sua parziale demolizione nel racconto – a tentare di riportare il colloquio sulle tracce dell’antica pretesa terapeutica oscurata dalle ombre che emergono dalle parole – domande, asserzioni, ironiche quaestiones retoriche, citazioni – di una giovane donna cui la sua disciplina tenta di dare una evidenza e un’etichetta: schizofrenia, paranoia, autismo, e quanto altro.

Il che sembra, senza asserzioni definitive, solo sfiorare, nel migliore dei casi, un delirio che crea strani personaggi, portatori di ironia devastante. Ma anche di compagnia, che altri non sanno offrire. Il dottore sembra essere giunto, dopo lunghe sedute, ad una delle verità: l’innamoramento reciproco tra fratello e sorella, e la fuga del primo che lascia la Fisica per tentare mestieri apparentemente alieni da qualsiasi studio teoretico, siano essi il sommozzatore o il pilota di macchine da corsa, che tenta la separazione da un amore apertamente invocato da lei e allontanato da lui che ne sente un lacerante, abissale richiamo. Che non è possibile assecondare.

Stella Maris è apparentemente solo questo: il dialogo, dieci anni prima degli eventi narrati in Il passeggero, tra uno psichiatra costretto a fare i conti con una paziente, matematica geniale, che costantemente mette in crisi l’assertività pseudo-scientifica della sua disciplina e che rivela invece le aporie della auto-dichiarazione di obiettività di quella scienza. E che semina sospetti sulla auto-assertività della matematica, avvertita come narcisistico riflesso di un sé platonico senza possibilità di svelare il vero enigma. Alicia fa compiere al suo psichiatra un tour spezzato da ironia e abissale capacità di sprofondamento, nel sapere umano, con il sospetto che uno dei motivi del delirio sia un’intuizione sovra-disciplinare, non in grado di soffermarsi su un singolo, complesso aspetto della ricerca umana, ma semmai portatore di uno sguardo certamente geniale, ma senza i limiti che ogni scienza oggi si pone a fronte di quanto si è profilato nell’universo del sapere da Kant in poi. Una sorta di ipertrofia del cogito impedisce l’immersione nel pur limitato contesto di un settore del sapere, con il risultato – o il rischio – di una condanna radicale e universale.

La cura è per l’ Alicia ospite di Stella Maris unicamente il prendersi cura dell’altro, “l’accudimento, non la teoria”. Con il sospetto che alle radici della presunta malattia vi sia la separazione tra mente e anima. E non è un caso che a fare capolino tra i “necessari” Heisenberg, Gödel, Wittgenstein, Russel sia George Berkeley, con la sua visione di un mondo frutto della nostra percezione individuale e non esistente in realtà se non nella totalità divina. La non esistenza del mondo.

Stella Maris è anche l’emergere di antichi dubbi, il rischio di credere di conoscere il tutto attraverso la percezione delle sue parti, il sospetto che il linguaggio abbia rappresentato l’impoverimento della mente e dell’essere tutto, e che la razionalità onnivora abbia dimidiato la ricchezza della psiche e dell’intera anima mundi.
Certamente non un’eccezione nel lungo cammino di McCarthy attraverso il nuovo inverno del rischio estinzione e del ritorno alla bestia primigenia, o la narrazione della gratuità della violenza che in questi giorni è diventata certezza esistenziale, come nel caso della strage di Praga, i cui motivi sembrano, almeno in base ai documenti in possesso delle autorità, il puro odio per gli altri.

Molto poco romanzo, per questo, niente affatto black fantasy o distopia, ma immersione in quello che chiamiamo male alla luce non di un nichilismo disperante e passivo, ma di una intermittente speranza in altro che il semplice, raggelante umano, come in Flannery O’Connor o Dostoevskij, o Melville.
Il riflesso di una redenzione non solo racconto, ma contraddittoria azione dell’Altro, che non è solo separazione netta, ma coscienza che ciò che chiamiamo male e bene sono nomi senza più troppo spessore e che rimandano a Giobbe, o alla lotta con l’angelo, alla fine apparente sulla croce, l’insensatezza al senso unicamente raziocinante e teoretico dell’occidente.


Cormac McCarthy, Stella Maris, traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi, 2023, 194 pagine, 18,50 euro.


testimarco14@gmail.com