La strada a sorpresa sgombra. In una busta di polipropilene blu illuminata da stecche di neon bianche, l’ultimo bar aperto nella traversa sul viale, c’è un pacco di biscotti, la bottiglia riempita al nasone, alcuni giornali, piccoli pacchetti (promesse di sguardi che s’infuturano in brindisi e progressioni), forse giochi semplici per bambini, dritto in piedi davanti al banco, pantaloni larghi in viscosa color tortora e accenni di pinces, un giubbotto nero a trapunture orizzontali, bianca la zip, “un caffè e una fetta di crostata”, anche se fuori tintinnano i cin di spritz e pizzette secche e quarti di tramezzini esausti col cotto arricciato e la fontina indurita del mattino, la maionese, poi, pare glitter su mollica oleosa, e la crostata, quindi, è la cena, (aspettiamo ancora franco e luisa, entriamo intanto che fa freddo, scusate ma il parcheggio, gloria non voleva la tata, ho lasciato carla dall’amica, ci mancava la riunione, dai entriamo, entriamo, non posso fare tardi, domattina parto, domattina lavoro, domattina,), le briciole le raccoglie col dito inumidito sulle labbra di caffè, mentre lagga la videochiamata, quarti di pixel che scompongono e ricompongono visi, da qualche posto lontanissimo, parole veloci, indecifrabili, si direbbero scambi comunali, qualcosa sul tempo, su quello che è successo di giorno in questo parallelo di mondo, sui pagamenti da regolare e su quelli regolati, sul mal di gola e sulle pastiglie al miele, sulla pioggia che ha smesso. Il logos sembra tutto ciò che si può fingere in questo ultimo bar aperto a sera, mentre i bistrot si riempiono coi brusii che montano.
Il fiorista è il punto di luce del viale diversamente buio, in una coltre di nebbiolina dalla quale cincischiano acquerugiola e smog. Qualche ghirlanda con molta plastica, catene intermittenti di led involtolate tra aghi di pino imbalsamati, le stelle rosse, un tipo allampanato ha un pacchetto in mano, suona al citofono, chiede se può salire per fare gli auguri, una donna risponde che no, non può, gli si dice molto d’altro, pare triste e rassegnato, si aspetta la reazione, dovevano essere scuse di certo scomposte fuori la liceità di tempi e luoghi, si scusa, dice di capire, saluta e s’allontana svoltando nell’angolo opposto al bar, dai cui vetri tutto passa e si sfalda come i pixel di quella chiamata dove resta incatenato con gli occhi quello con la busta di polipropilene blu (c’è scritto trattarsi di un polimero isotattile e termoplastico, attorcigliamento di molecole che producono grande resistenza ed elasticità, pronte a sopportare pesi eccedenti per la natura scarsamente reticolata di quelle catene, che forse servirebbe da esempio alle faccende del cuore, un cuore di polipropilene, pensa) né sarebbe sensato insistere sul fatto chimico se quelle vicende non lo avessero riguardato da vicino in quel posto lontano da cui probabilmente parte la videochiamata, ancora fermo all’ennesimo salario negato, al quarto benservito, l’ultimo in una fabbrica illegale di aspirine nel sottoscala di una catapecchia di sabbia, mattoni e cemento.
Ma non qui la compassione o l’analisi sociale né psicodinamica né blatericci d’accatto, non qui, non ora, che la crostata sta per finire su un viso guarnito di zucchero a velo, le sopracciglia folte e lineari che non s’aggrottano, distese piuttosto, come di chi fa la cosa giusta, la calvizie finalmente al riparo nel caldo sintetico del bar.
Infila la mano in tasca, tira fuori degli spiccioli, con un gesto di balzo sul palmo ben aperto riesce a dividerli con improbabile precisione, tre euro?, tre euro, grazie caro, grazie a te, stanotte lavori?, sto andando sì, buonanotte, ciao buonanotte, ci vediamo domani, a domani. Perché domani torna e chiama e mangia la crostata, qualcun altro entra nei bistrot e domani (ne parlavano poco fa quelli fuori dal locale) parte quell’altra ancora.
La luce del palo illumina a intermittenza una bica di ragazzi che schiamazzano. Al centro esatto del palazzo di fronte una serranda di ferro si srotola giù cigolando. Eccoti.
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