Sergio accostò la macchina al marciapiede, dove la suocera l’aspettava impettita, con dipinta sul viso l’usuale espressione severa e arcigna. Indossava un lungo cappotto viola, scarpette col tacco basso e una borsetta griffata a tracolla dello stesso colore. Tra le mani, un capace vaso di ceramica.
L’uomo si piegò sul sedile per aprirle lo sportello.
“Buongiorno, Flora”
“Sei in ritardo. Chissà perché, la cosa non mi sorprende” fece, entrando in macchina senza rivolgergli lo sguardo. “Buongiorno, Teodoro bello!” disse poi, rivolta al ragazzo sbracato sul sedile posteriore, con un tono di voce passato dal fiele al miele in un nanosecondo.
“Buongiorno nonna” rispose l’adolescente con malcelato sforzo.
“Togliti le cuffie quando ti si rivolge la parola, giovane!” fece Sergio, accigliato.
“Ma ho sentito tutto, pà… ho pure risposto”
“Comunque non è buona educazione”
“Sì, vabbè. Uffa...”
“Va bene lo stesso” commentò la nonna, beneficiando il nipote di un sorriso sorprendentemente tenero.” Che musica ascolti, tesoro? Rock’n’roll?”
“Djent, progressive metal... roba così” rispose, guardando un punto non precisato fuori del finestrino.
“Ah, be’… Non conosco. Comunque non si può dire che ascolti cose dozzinali come tutti i suoi coetanei. Del resto, nelle tue vene scorre il sangue di nonna Pirovano, giusto? Ce l’hai nel genoma, la scelta originale e personalissima…”
“Anche io, alla sua età, ascoltavo il metal” tentò di interloquire Sergio.
“... io e mia sorella adoravamo Mozart. E anche tua moglie, la mia figliola: ascoltava Chopin. E la musica dodecafonica, a quindici anni! Che io non l’ho mai capita. Ma tant’è...”
Nel frattempo, il ragazzo aveva alzato il volume ed era tornato nel suo solitario mondo rumoroso. Calò il silenzio, interrotto da Sergio solo dopo qualche minuto.
“Non ho ben capito perché Caterina sia dovuta andare in macchina con le sorelle e i cognati: loro in cinque e noi in tre” disse Sergio, facendo cenno alla station wagon che procedeva davanti a loro.
“Nel tuo macinino saremmo stati stretti. E poi, sai… Sondano reciprocamente il terreno. Affilano le scimitarre sottobanco, in tutta privacy”.
“Vale a dire?”
“Schermaglie ereditarie. Legittima, quota disponibile. Cercano di capire cosa gli spetta...”
“Un bel passatempo, mentre andiamo a disperdere le ceneri del padre...”
“... del resto, una fatica inutile: mio marito mi ha lasciato le redini dell’azienda. E io sono ancora viva. Scordatevi l’eredità!”
“Ci sotterrerai tutti, altroché!” sottolineò Sergio con un ghigno.
“Comunque sei stato gentile ad accompagnarmi, lo devo riconoscere” osservò Flora con la stessa vivace empatia mostrata da Eichmann al processo a Gerusalemme.
“Dovere e piacere”. E davvero era un piacere, pensò Sergio, accompagnare la famigliola per l’ultimo addio all’odiato suocero. Un vero godimento, assistere allo spargimento al vento delle ceneri del Cavaliere del Lavoro Geremia Mangozzi, simpatico come l’helicobacter pylori, titolare di una impresa di sanitari a Sesto San Giovanni, dispensatore di perle di (sua, presunta) saggezza dall’alto del suo metro e sessantacinque, corroborate da insulti gratuiti al proprio interlocutore, in particolare lui, ‘genero degenere’, come amava apostrofarlo, colpevole com’era, ai suoi occhi e a quelli di sua moglie Flora, di non essere architetto o avvocato come i devoti, decerebrati mariti delle loro altre due figlie, quanto un semplice impiegato del Catasto, peraltro non laureato. Un meridionale che puzzava di fame, ecco chi era per loro. ‘Ho una fabbrichetta che dà da mangiare a ottanta persone, con un fatturato che neanche la Pozzi Ginori, caro mio!’ sottolineava quasi a mo’ di rimprovero. Ora poteva mostrarlo al diavolo, il suo catalogo esclusivo di cessi in ceramica!
“Non sapevo che Geremia desiderasse essere cremato” osservò, dopo un intervallo di quiete con sottofondo heavy metal, proveniente dalle cuffie di Teo.
“In verità, ho deciso io” sentenziò lapidaria Flora, accompagnando quelle parole con una breve, acuta risata simile a una raffica di mitra, subito seguita da un silenzio mortifero. “Ultimamente, non c’era più con la testa. Voleva essere seppellito nudo, avvolto solo da un lenzuolo bianco, senza uno straccio di bara. Figuriamoci!” concluse, accendendosi una sigaretta. “Dispiace se fumo?” chiese, quando era arrivata quasi al filtro.
“Ma figurati, ci mancherebbe...” fece Sergio in tono ironico, evitando lo sguardo pietrificatore della medusa. “solo... magari, se apri un po’ il finestrino...”
“Teo, tesoro, apri il tuo finestrino? Poco poco, grazie.”
Sul volto di Sergio apparve una smorfia. “Da dietro, l’aria fredda mi arriva proprio sul collo. Ho una cervicale terrificante. Scusa Flora, ti dispiacerebbe aprire il tuo?”
“Per rovinarmi l’acconciatura? Arrivo giusto ora dal parrucchiere. Non se ne parla”. L’anziana donna fissò il genero con manifesta insofferenza. “Certo che sei difficile, sai? Non sopporti il fumo, non vuoi il freddo… l’eterno insoddisfatto, ha ragione Caterina. E comunque ho quasi finito. Ce la fai a resistere almeno un minuto?”.
“Ce la faccio” rispose Sergio impassibile, dopo aver deglutito, lo sguardo rivolto alla strada. Lungo il tragitto, immaginò la suocera con i bigodini in testa e una rivista tra le mani, a ciarlare con il parrucchiere e le altre clienti, con le ceneri del marito al seguito. Provò quasi un senso di nausea.
Terminata la sigaretta, l’anziana donna sospirò, guardando il grosso vaso di ceramica con fine effetto craquelure tenuto stretto tra le gambe.
“Mi chiedo se e quanto di Geremia sia presente qui dentro. La salma è stata cremata con tutta la bara: come hanno fatto a distinguere la cenere di mio marito dal resto? Tu lo sai?”.
“La cenere del legno è più leggera di quella del corpo” rispose Sergio con palese distacco. “Per un professionista è relativamente facile separarle. Certo, non so quanto scrupolo impieghino nel farlo. Non escludo che, tra le ceneri di Geremia, sia presente una discreta percentuale di legno”.
“Come in vita, così in morte...” commentò Flora.
“Come?”
“Niente, niente… È che in genere” osservò con un ghigno sibillino “voi maschietti non brillate sempre per acume e perspicacia. Geremia non faceva eccezione. Gran lavoratore, questo sì. Ma, quanto al resto...”.
“Se lo dici tu...”.
Nel frattempo, avevano imboccato la strada verso il mare. Intorno, non si vedeva nessuno. La campagna appariva spoglia, desolata. Gli unici suoni erano quelli ovattati del motore della macchina e delle chitarre distorte che straripavano dalle cuffie di Teo.
“Fa veramente freddo oggi, vero?” osservò Sergio.
“Ha scelto la settimana più fredda dell’anno per morire...”
“Non credo che avesse la propria dipartita in programma. Normalmente...”
“... e non si è mai voluto controllare. Mai un’analisi, non dico un check-up. Poteva vivere più a lungo, e invece… Eccoci qui, a disperdere le sue ceneri e a morire di freddo, in pieno inverno! Una testa di legno, ecco cos’era!”.
Proseguirono fino al mare senza aggiungere altro.
Le due macchine parcheggiarono una dietro l’altra in un’ampia piazzola di sosta, da cui era visibile una battigia orfana di bagnanti, che ospitava solo un grosso tronco marcito e imbiancato, contornato da poche, sparute bottiglie di plastica, avvolte da alghe rinsecchite. Il cielo coperto da nuvole scure, il mare di un pesante, opprimente color piombo.
Sergio vide Flora sospirare e aprire la portiera, il vaso con le ceneri del suocero saldamente sotto il braccio. ‘Geremia: una vita nella ceramica’ pensò, sorprendendosi per il proprio crudele sarcasmo.
“Ma voi che fate, non venite?” chiese l’anziana donna ai due compagni di viaggio, rimasti immobili ai loro posti.
“Io non ci penso proprio” rispose Teo che, tolte le scarpe, si era sdraiato, occupando, con i piedi e le gambe piegate, tutto il sedile posteriore.
“Io rimango col ragazzo” disse Sergio, sotto lo sguardo perplesso della suocera. “Oltre alla cervicale, ho spalla e braccio doloranti. Questo freddo non mi fa bene”.
Flora scosse la testa e, senza commentare, chiuse la portiera e raggiunse figlie e generi, che l’aspettavano poco più avanti. Sergio li vide confabulare e lanciare qualche sguardo in loro direzione. Sua moglie Caterina, dopo averlo guardato e aver detto qualcosa che fece ridere tutto il gruppo, si avviò verso la riva, seguita dagli altri. Li vide allontanarsi e raggiungere il mare, mentre Teo continuava imperterrito a sentire la musica, gli occhi chiusi e la testa poggiata sul suo giacchetto, piegato sul sedile a mo’ di cuscino. Dalle cuffie, in sottofondo, arrivavano frammenti di una canzone finalmente orecchiabile:
‘And what is left to us?/ Now there’s only the cinders/...Like a demonic winter/...Hey, what does it take to get your attention?/...Hush now, the winter gets you down...’{1}
Continuò a guardarli mentre parlavano, passandosi serenamente il vaso di ceramica.
Dai finestrini chiusi arrivava solo il rumore del mare.
Per cosa aveva vissuto?
Per una moglie piacente, ma anaffettiva, che ormai lo considerava sì e no parte dell’arredamento? Per un figlio egocentrico e viziato, cui nulla era richiesto e tutto era dovuto? Per una famiglia di classisti e arrivisti che, anziché onorare la memoria del padre, si preoccupavano di chi, tra loro, potesse intaccare la propria quota di legittima?
Sarebbe finito anche lui così? Le ceneri sparse al vento, cancellato dalla memoria, dopo essere stato condannato all’oblio già in vita?
Osservando le sei figure mute, impegnate in quel patetico e vuoto teatrino funerario, venne colto da rabbia e tristezza. E pena: pena per loro e per se stesso, amareggiato, cinico, incattivito. Non si riconosceva più.
In quella giornata d’inverno, triste e gelida come la sua vita, la sua mente andò a Clara, la sua collega del Catasto. Rivide le pause pranzo passate insieme a condividere impressioni su film e romanzi, a magnificare il talento di Truffaut e Philip Roth, a sognare viaggi mai fatti, a raccontarsi le loro povere, piccole vite: semplici, problematiche, ma non prive di speranza. Ripensò ai suoi occhi buoni, ai modi gentili, al suo sorriso timido e sincero, e provò una stretta al cuore.
Sentiva che era possibile, che forse il sentimento che provava era condiviso. Doveva solo trovare il coraggio. Mollare tutto e farsi avanti.
Non tutto era perduto.
Lo trovarono sul sedile, la testa piegata in avanti, la bocca aperta, il corpo abbandonato sorretto dalla cintura di sicurezza.
Teo, sdraiato ancora sul sedile posteriore, con gli occhi chiusi e le cuffie e la musica al massimo, non si era accorto di niente. Non vide e non sentì madre e zii muoversi e parlare intorno al padre, a lungo incerti sul da farsi, prima di decidersi a chiamare un’ambulanza.
Non sentì neanche le parole della nonna, rimasta in disparte:
“Dopo, bisognerà spostare la macchina… Qualcuno di voi sa come si guida questo macinino?”.
{1}Steven Wilson, ‘Man of the People’ (The Future Bites, 2021).
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