Nell’ultima raccolta di Alessio Brandolini, Il tuo cuore è una grancassa (La Vita Felice, 2022) si riconoscono le preoccupazioni da sempre presenti nella sua opera: lo sforzo di mantenere un equilibrio precario in una realtà sull’orlo del collasso (“si vive nel presente, tutti i giorni / come se fosse avvenuto un disastro”, p. 33), il difficile funambolismo che impone ogni rapporto personale (“parte una scintilla e salta in aria il filo che ci sorregge”, p. 87), l’imboscata di devastanti crisi di identità (“passo davanti allo specchio / e non mi vedo”, p. 46), la terra come provvisorio antidoto all’incertezza e al dolore (“l’aria qui è buona e sulla montagna c’è un bosco che ti conosce e ti parla”, p. 96). Una terra romana che custodisce i resti di fasti e disastri antichi, ma che è anche il luogo fatato dell’infanzia e insieme metafora di scrittura, per cui tracciare parole su un foglio bianco sostituisce, astraendolo, lo scavo di un solco nel terreno, condividendone le proprietà terapeutiche e lenitive per l’animo.
Ma pur entro il ritorno di temi consueti, un evento biografico irreversibile separa questa raccolta da ciò che la precede, conferendole un tono più aspro e, a tratti, disperato: la morte del padre (seguita dappresso a quella della madre: ma è il padre, qui, a campeggiare nella sua vitalissima assenza). La scomparsa del genitore costringe la scrittura di Brandolini a una severa interrogazione dell’impermanenza in toni di inedita urgenza e vulnerabilità, e inaugura uno scavo del rapporto padre-figlio condotto con coraggio e fine intuizione psicoanalitica.
Brandolini ricorre a due tropi stilistici con straordinaria frequenza: il primo è la proliferazione insistita di immagini incendiarie. Presenti nella tavolozza del poeta fin da una sua precedente raccolta (Tevere in fiamme, appunto, del 2008), le figurazioni legate al fuoco assumono qui una ridondanza ossessiva, saturando il dettato. Alcuni esempi: “lago di cenere” (p. 18); “arde l’angoscia” (p. 23); “nuvole cariche di cenere” (p. 25); “vulcano in eruzione” (p. 28); “tra le fiamme” (p. 32); “le foglie che bruciano e il fumo” (p. 33); “giorni incendiati” (p. 48); “la punta infuocata della lingua” (p. 46); “pensieri inceneriti” (p. 49); “esplodo tra le tue braccia” (p. 64); “un falò di ricordi” (p. 75); “raduni i fogli e fai un falò”, “diede fuoco alla stiva carica di balle di carta” (p. 84); eccetera. L’altro tropo è l’apparizione spettrale del padre, più un effetto del sogno che della rimembranza: “alza la testa mio padre e ride come se gli avessi / svelato una storia buffa” (p. 58); “un padre si guarda / intorno e smarrito conta oggetti / ragnatele” (p. 61); “c’è un padre con in mano un grappolo d’uva, non dice nulla e non accenna a entrare, aspetta soltanto una parola, un sorriso” (p. 91).
L’affollarsi di immagini incendiarie e le apparizioni del padre morto non possono non riportarci alla mente due celebri sogni analizzati da Freud nella sua Traumdeutung. Nel primo, un paziente sogna che il suo padre morto non sa di essere morto. Nell’esegesi di Freud, ciò che il padre non sa e non deve sapere è il sentimento edipico del figlio nei suoi confronti. Non deve sapere, chiosiamo noi, che (per legge naturale) il figlio lo ha condannato a morte per il solo fatto di esistere. In questo senso, il padre morto che ricompare in sogno a modo di rimprovero incarna il senso di colpa del figlio per essergli sopravvissuto. È forse anche per questo che il padre appare in uno stato di sofferenza: “la pelle delle mani rovinata” (p. 54) e “con il sangue che gli esce dal naso” (p. 82), “la mano destra che pressa / il fazzoletto a tamponare la perdita, la ferita” (p. 58): il padre morto è anche sempre il padre assassinato dell’Amleto.
Nel secondo sogno riportato da Freud un padre sogna che suo figlio, che giace morto nella stanza accanto, gli afferra il braccio rimproverandolo: “padre, non vedi che sto bruciando? (Vater, siehst du nicht dass ich verbrenne?)” E in effetti, la caduta di un cero aveva provocato un incendio nella stanza del figlio (e si veda, curiosamente, qui: “Il fuoco devasta / le stanze”, p. 32). Nella lettura di Freud, il padre tarda a svegliarsi perché il sogno, benché traumatico, gli consente di prolungare la vita del figlio, che gli appare sofferente, sì, ma ancora vivo. In Brandolini la situazione freudiana è invertita (è il padre a essere morto), ma è sempre il figlio che brucia (“esplodo tra le tue braccia”, p. 64). Brucia dal desiderio di rivederlo, di farlo rivivere, e lo rimprovera di avere “chiuso / gli occhi senza aspettarmi” (p. 54). E che altro è l’ossessiva domanda “dove sei stato tutto questo tempo?” – nella poesia eponima (p. 58) e altrove (p. 72) – se non una variazione di “non vedi che sto bruciando”? Due rimproveri incrociati, dunque: quello del padre (che non sa di essere morto) e quello del figlio (che brucia di desiderio irrealizzabile), a drammatizzare il fatto che l’incontro tra un padre e un figlio è sempre un incontro mancato, fatto di incomprensioni, reticenze e rammarichi.
Ma se da una parte il figlio, per il fatto stesso di esser nato, condanna a morte il genitore, dall’altra, la scomparsa di quest’ultimo mette il figlio a diretto confronto con la morte. In altre parole, la morte del padre conclude la sua funzione per il figlio, che da sempre è stata quella di ammaestrarlo all’assunzione della castrazione (ovvero, del dolore di esistere). Perché è la castrazione, alla fine, l’unico vero lascito del padre: il riconoscimento, cioè, che le cose che perdiamo (l’infanzia, la terra, i nostri cari) non sono che proiezioni di una mancanza costitutiva che inerisce alla nostra stessa esistenza e che pertanto non ci sarà mai possibile colmare (“l’assenza del padre non sarà mai un capitolo chiuso”, p. 82). L’assunzione della castrazione è certamente un evento traumatico, un evento che l’autore traduce letteralmente facendo periodicamente irrompere nel dettato immagini conturbanti di corpi martoriati (ovvero, in termini lacaniani, immagini del reale del corpo). Oltre alle succitate apparizioni paterne, citiamo: “la bocca piena di terra” (p. 33); “arrivo senza fretta coi chiodi / piantati nella carne, sputo pezzi / di lingua, ricucio la bocca” (p. 39); “osservo / persone a passeggio ridere pur avendo / la testa mozzata sotto il braccio” (p. 43); “il palato ferito” (p. 49); “volti bruciati” (p. 71); “la luna brucia gli occhi” (p. 70).
Nel Seminario XI, Jacques Lacan rivisita i due sogni di Freud, riorientandone l’interpretazione. Per Lacan, tanto il padre che ignora di essere morto quanto il figlio che brucia simboleggiano l’inquietante inestinguibilità del desiderio umano, ciò che Freud definì “istinto di morte” e che, nella revisione lacaniana, significa in realtà l’opposto: l’accanimento di una vitalità che insiste oltre la morte, contro ogni ragione e legge biologica. I sognatori di Freud si imbattono precisamente in questo insopportabile eccesso di vita: il figlio che continua a bruciare, il padre morto che si crede vivo sono altrettante figurazioni del traumatico reale del desiderio umano.
Funzione di questo desiderio è anche la caparbietà con cui ritorniamo sul passato per rianimarlo, la devozione con cui ci affidiamo al ricordo per mantenere in vita i nostri morti: questo precisamente mette in scena Brandolini, in una raccolta di testi che è, tra le altre cose, una fulgida esplorazione del mistero del lutto e della sua elaborazione. E una volta arrivato alla fine, il lettore è anche in grado di comprendere il senso di quei due versi di Iosif Brodskij messi in esergo al libro. “Che senso ha dimenticare, / se poi alla fine si muore?”, si interroga il poeta russo. Nella logica del desiderio, in effetti, dimenticare non ha proprio nessun senso: precisamente perché si muore, la memoria è ciò che insiste e persiste oltre la nostra estinzione. E degli estinti si coltiva e si custodisce il ricordo inesorabilmente, attraverso la ripetizione dell’oralità e della scrittura; ciò che è andato perduto si rievoca continuamente, anche se fa male, in una coazione a ripetere che è atteggiamento costitutivo del soggetto. Perché la memoria è essa stessa funzione del desiderio immortale, è strumento dell’amore – il simbolo più universalmente comprensibile di questo illogico surplus di vitalità che negli esseri umani rifiuta di estinguersi con la morte, trascendendola.
E non è un caso che proprio con una struggente dichiarazione d’amore si concluda questo potente nuovo libro di Alessio Brandolini: “Il tuo cuore è una grancassa che a lungo risuona in alto fra le nuvole come una cannonata, e ami ancora di più chi ti sta accanto”. Si eternano i morti con la reiterazione del desiderio, con la riconferma dell’amore per chi resta. Con l’incessante, ostinato, folle battere del cuore-grancassa.
Alessio Brandolini, Il tuo cuore è una grancassa, La Vita Felice, 2023, pagg. 104 – con una introduzione di Francesco Tarquini.
Alessio Brandolini È nato a Frascati nel 1958 e vive a Roma dove si è laureato in Lettere. Ha pubblicato i libri di poesia: L’alba a piazza Navona (1992, Premio Montale - Inedito), Divisori orientali (2002, Premio Alfonso Gatto - Opera Prima), Poesie della terra (2004), Il male inconsapevole (2005), Mappe colombiane (2007; anche in spagnolo: Mapas colombianos, Colombia 2015), Tevere in fiamme (2008, Premio Sandro Penna), Il fiume nel mare (2010, Finalista Premio Camaiore), Nello sguardo del lupo (2014; anche in spagnolo: En la mirada del lobo, Messico 2018), Il volto e il viaggio (2017, con disegni di Stefano Cardinali) e Il tuo cuore è una grancassa (2022). Nel 2016 è uscita l’antologia Il futuro è un campo incolto (1992-2014) e nel 2021 l’antologia Città in miniatura (2004-2020, anche in inglese: Miniature Cities, Stati Uniti, 2023). In Costa Rica sono state pubblicate le antologie En el ojo del lobo (2009) e Desde otro planeta (2014), in Colombia Llamo desde otro planeta (2016) e in Argentina El camino de regreso (2019). Nel 2013 ha pubblicato il libro di racconti Un bosco nel muro. Traduce dallo spagnolo e dal 2006 coordina Fili d’aquilone, rivista web di «immagini, idee e Poesia». Nel 2011 ha fondato la casa editrice Edizioni Fili d’Aquilone.
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