Il mare delle nostre vacanze era quello, un po’ proletario, un po’ borghese, di Torvaianica; ed è lì che ho trascorso le mie estati più belle, anche perché parlo degli anni fra il 1966 e il 1972, gli anni della contestazione giovanile, del beat, degli hippy, della libertà sessuale, del Libretto Rosso di Mao Zedong, dello sbarco sulla Luna, di Woodstock, dei Beatles, di Bob Dylan, di Lucio Battisti, non so se rendo l’idea…
La litoranea che conduce a Lavinio e ad Anzio, il rettilineo con le Sabbie d’Oro da una parte e il Centro Regina dall’altra: piccole villette, condominii tipo periferia di Roma, casette senza pretese; la spiaggia abbastanza larga e generosa, tutti che si conoscono nel raggio di un chilometro, le sciabiche sempre disponibili, le telline ancora presenti e commestibili, alcuni proprietari di barche che vendono o regalano pesce appena pescato, la crema solare Coppertone (quella della bambina col sederino bianco). Ma soprattutto, per noi ragazzi, le partite di calcio pomeridiano contro le squadre delle spiagge limitrofe, tutte regolarmente battute, perché nell’estate del 1970, noi, “Le Sabbie d’Oro”, potevamo contare (cito ciò che ricordo) sui fratelli Trinca, che venivano da un’importante scuola calcio romana, sull’ala destra del Lanuvio calcio, su un allenatore delle giovanili della Roma, su una mezz’ala del Cynthia Genzano, sul centrocampista e regista Delfini, sulla punta che avevamo soprannominato “Gazzella”, e anche su chi scrive, mancino puro con un buon dribbling e un discreto fiuto per il gol.
La squadra si era formata senza nessuna programmazione o accordo; semplicemente, al gruppo dell’anno prima (il 1969) si erano aggiunti, per aver affittato case nell’area delle Sabbie d’oro, i calciatori che ho indicato in precedenza, tutti atleti di un certo valore. Nei primi dieci giorni avevamo già sconfitto tre compagini rivali, e le nostre prodezze si propagavano fin quasi a Torvaianica centro. Il “campo” era la nostra spiaggia, quella delle Sabbie d’Oro, quasi sempre libera nel pomeriggio: bastava chiedere a un paio di anziani di spostare i loro ombrelloni oltre l’area di gioco, e un rettangolo di buoni sessanta metri per trenta era a nostra completa disposizione; le porte le avevamo erette con pali di legno, solo la traversa era costituita da una corda grossa e robusta.
L’arbitro fu sempre il papà di uno dei nostri, un uomo di circa quarant’anni, con una faccia e un modo di fare così rassicuranti che le squadre avversarie non ebbero mai da ridire nulla su quella singolare “designazione”; e in effetti Domenico, questo il suo nome, stava molto attento a non parteggiare per noi, forse anche nella convinzione che per vincere non avremmo avuto bisogno di aiuti o “aiutini” di sorta.
Parecchia gente assisteva alle partite: c’erano i genitori e i parenti dei giocatori, le persone che avevano casa o villeggiavano alle Sabbie d’Oro e un gruppo di giovani tifose che assomigliavano stranamente alle ragazzine romane delle colonie estive che, ad agosto, venivano a trascorrere un mese di vacanza nel mio paese, alloggiando nei locali della Scuola media, trasformata per l’occasione in una specie di collegio studentesco.
Certo, era stato il caso – il fatto di villeggiare a poca distanza l’una dall’altra – a far incontrare le nostre fans, provenienti da vari quartieri di Roma e dai Castelli Romani; ma di sicuro era alla comune, allegra frivolezza e all’insensibilità verso altri richiami – quelli provenienti da un gruppetto di coetanee dedite alle letture e a lunghissime passeggiate – che si doveva la costituzione di quella “piccola banda”, così lontana per costumi e ideali da quella descritta da Proust in All’ombra delle fanciulle in fiore, ma altrettanto affiatata e decisa nella volontà di trascorrere le vacanze assecondando i propri gusti e le proprie preferenze.
Spesso io e mia moglie diciamo che i giovani di oggi sono molto più svegli, consapevoli e decisi di quanto fossimo noi alla stessa età; ma quelle ragazzine spigliate e smaliziate davano parecchi punti a noi maschietti. Erano loro a decidere i luoghi di ritrovo, o come avremmo trascorso la serata, o le puntate al centro di Torvaianica. Parlavano fitto, giudicavano, non avevano alcuno scrupolo a metterci al corrente delle loro classifiche di merito sul fisico più bello, il volto più fine, l’intelligenza più pronunciata, il carattere più dolce o più simpatico; noi facevamo lo stesso, ma con molta più superficialità, cazzarando soprattutto sulle vere o presunte qualità sessuali di ognuna.
Tutti, comunque, sentivano il bisogno di precisare quale fosse il “proprio tipo”, cui ovviamente si indirizzavano i favori personali. Ma questi erano soggetti a una strana legge, perché duravano pochissimo; ne scaturiva una girandola di “fidanzamenti”, oltremodo pericolosi, perché i commenti sulle “prestazioni” dell’uno o dell’altro si facevano inevitabili.
In quell’estate del 1970 avevo lasciato in paese il mio primo, vero amore, e improvvisamente avevo scoperto che quelle ragazze un po’ sfacciate, dalla lingua sciolta, decise a scegliere invece di farsi scegliere, non mi andavano a genio come nei due anni precedenti. Ma “per non passare per frocio” – dissero proprio così – mi consigliarono di farmi avanti con una di loro, Laura, una moretta riccia con un bel fisico e un volto piuttosto comune, ma dalla pelle incredibilmente liscia e ambrata.
Non dovevi fare molto in realtà, non era necessario corteggiare, essere galante, bastava mettersi reciprocamente gli occhi addosso, chiedere “Vieni stasera al Centro Regina?”, appellarsi al pretesto di fare una passeggiata e i baci notturni erano assicurati. Baci e basta per quanto riguardava me, ma non gli altri, perché dopo pochi giorni udii Eraldo, il più maturo fra noi ragazzi, dire con una certa baldanza: “Ahó, qui er gioco se fa tosto, se comincia a parla’ de preservativi. Perciò vedemo chi li pò prende, e se ve capita fatelo, queste ce stanno…”.
Io avevo quattordici anni, col mio amore paesano avevamo fatto solo pomiciate dentro una casa abitata solo l’estate, ma di cui conoscevamo il ripostiglio della seconda chiave. Le parole di Eraldo sul preservativo mi terrorizzarono, e una sera – eravamo tutti presenti sulla spiaggia, ragazzi e ragazze, seduti in circolo – non trovai di meglio che parlare di “poca serietà” per quello che stava succedendo. Quando una delle nostre tifose mi accusò di superficialità e di ipocrisia rincarai la dose e citando i casi delle ragazze che si erano messe con più d’uno di noi, dissi che quello mi sembrava un comportamento da “puttanelle”.
Quasi tutte le interessate insorsero, ma devo riconoscere che lo fecero con incredibile autocontrollo: e tuttavia, i loro “Mi sa che ti sbagli” di delusione e gli sguardi di riprovazione mi fecero ancora più male. Per un attimo mi illusi che potessero limitarsi a questo; ma Patrizia, un peperino con i capelli alla Rita Pavone e una faccetta carina ed espressiva, non aveva alcuna intenzione di graziarmi. Fissandomi con occhi lucidi di collera, replicò che avevo dimostrato di essere un immaturo, un ragazzino bravo a scuola e nient’altro, e che dovevo stare attento a offendere la gente, perché altre persone non avrebbero reagito come le “puttanelle” che accusavo. Quando terminò di parlare, precipitai nel panico, conscio che aveva ragione; che cosa, se non l’immaturità e la mentalità paesana mi dava la facoltà di giudicare delle ragazzine vogliose di divertirsi? Patrizia aveva toccato un nervo scoperto, perché io sentivo di essere più bambino dei miei coetanei, e quell’episodio ne era la dimostrazione. Non potendo ammetterlo, finsi di non essere turbato; replicai che avevo espresso il mio pensiero, che forse avevo esagerato, ma che comunque consideravo il loro comportamento come un qualcosa di “troppo leggero”.
Stavo male, in verità; quell’episodio apparentemente occasionale e banale mi aveva rivelato in un istante, con un’epifania sorda e negativa, chi fosse veramente il ragazzo di cui si parlava come il figlio che tutti avrebbero voluto avere. La mia immagine era quella di un adolescente studioso, obbediente, educato. In realtà, io non conoscevo altro movente alle mie azioni se non l’istinto, la voglia di divertirmi, e se le mascheravo, se non eccedevo, era solo per timore dei giudizi e delle punizioni che mia madre mi avrebbe inflessibilmente comminato in caso di deviazioni dal suo rigido codice morale, costituito sì da una base etica, ma rinforzato dalla sua ossessiva necessità di presentare al mondo due figli – io e mia sorella – disciplinati, rispettosi, bravi a scuola, insomma cesellati in modo da riuscire graditi ed essere elogiati da tutti. Il risultato? Un disastro, ovvero la sensazione – come il Dave di Opera struggente di un formidabile genio – di essere sempre osservato, che tutti sapessero cosa facevo e, naturalmente, giudicassero le mie azioni.
Sciolta l’assemblea cui avevo offerto la più stupida delle affermazioni, Laura si adoperò per consolarmi; dopotutto, disse, c’era una parte di verità in quello che avevo detto, lei non sarebbe mai passata, nel giro di una settimana, da Filippo a Stefano e da questo a Marcello. Ma quando comparve Andrea, un bel ragazzo alto e ben fatto, con occhi azzurri dal taglio orientale, la mia brunetta fece come le altre: inventò una scusa, mi mollò e prima che qualcun’altra si accaparrasse il nuovo venuto, lo catturò col suo bacio malefico, uno dei comportamenti più singolari occorsi nella mia carriera di eterno pomiciatore. Quando il bacio era finito, lei non staccava il viso dal mio; le sue labbra scivolavano a lato della mia bocca, come a cercare ancora una stilla di piacere; io non ne ero entusiasta, ma quello strano gesto pareva fatto apposta per coinvolgerti, perché Laura aveva sempre un buon alito, che le fumate clandestine rendevano ancora più accattivante e che grazie allo struscio finale rimaneva nelle nari per decine di minuti.
Andrea aveva giocato contro di noi nella terza partita, che avevamo vinto con la solita facilità. Ma ai più adulti non era sfuggita la bravura di quel ragazzone potente, intuitivo, deciso nei contrasti e nel pressare la punta avanzata della squadra avversaria, tanto che superarlo era risultato difficile persino per un calciatore di livello come “Gazzella”. Delfini, il nostro leader, non esitò un attimo, dopo la fine della partita: andò dritto da Andrea e cominciò a parlargli. Figurati se potevo perdermi il colloquio, visto che le qualità del ragazzo avevano colpito anche me. Delfini parlò brevemente, ma il tipo fu ancora più laconico: sì, voleva giocare con noi, non era legato a nessuno e il nostro gruppo gli era piaciuto. Anche lui, replicammo all’unisono, era piaciuto alla nostra squadra; tacqui il resto, ovvero che era piaciuto a tutti, comprese le nostre fans, che già gli rivolgevano sguardi ammiccanti e sussurravano coprendosi la bocca e sorridendo. Me l’aspettavo, e non diedi importanza alla cosa; è un timido – pensavo – un introverso, sta sempre abbottonato, questo non ci casca con le nostre raganelle, può averne quante ne vuole, di sicuro ha già qualcuna, perciò ben venga, con lui diventiamo ancora più forti…
Tempo due giorni e Laura si mostra scontenta, dice che non è sicura dei suoi sentimenti, ma che non devo offendermi perché sono una persona “acculturata” e questo deve farmi sentire sempre contento e orgoglioso di me stesso. Non ricordo come replicai, di certo non ero né stupito né addolorato; ma il giorno successivo, quando vidi Andrea che circondava con un braccio le spalle di Laura e passeggiava appiccicato a lei, compresi una volta per tutte quanto sia amara, per chi la subisce, la legge del più forte, del più bello, del più macho. Io parlavo e parlavo, quello lì non diceva più di venti parole al giorno, ma non ne aveva bisogno per piacere, conquistare, limonare o scopare, catturare l’attenzione degli altri, essere ammirato e invidiato.
Le mie estati a Torvaianica trascorrevano così, quasi sempre nello stesso modo: giocando, nuotando, mangiando gelati e vivendo flirt semi innocenti con qualche compagna di spiaggia. Ma quell’estate mi aveva caricato di un paio di sconfitte evidenti e brucianti; non ero quel che pensava la gente, né ero quel che avevo creduto di essere. Il rigore morale di mia madre non funzionava, o meglio, funzionava in parte, per sottrazioni anziché per aggiunte: io vivevo meno degli altri le esperienze della mia età, avevo più paure, più fisime, ma gli stessi desideri, la stessa voglia di dire parolacce, di scopare invece di pomiciare e interrompere tutto sul più bello perché “non avevo con me il preservativo”. Ero un adolescente a metà, e quando qualcosa non mi riusciva ero capace di mentire e di offendere; né potevo immaginare che la paura di sbagliare, di non espormi a reazioni che mi avrebbero ferito, me la sarei portata appresso per tutta la vita, con l’orribile corollario di dover limitare ambizioni e azioni coraggiose, e persino giudizi leciti e sinceri, che avrei represso anche quando esprimerli sarebbe stato onesto e giustificato.
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