Nel profondo del bosco le parole non hanno peso JORDI DOCE
Pubblicata recentemente in Italia, da Passigli, la raccolta poetica dell’autore asturiano Jordi Doce (1967) Noi non c’eravamo [No estábamos allí], pubblicato in Spagna nel 2016. Libro tradotto con maestria da Stefano Pradel, che ci aveva annunciato l’uscita sul numero 58 (luglio 2021) di Fili d’aquilone. Ultimo libro di Doce è Maestro de distancia (2022), di fulminanti prose poetiche, da poco tradotto in inglese e pubblicato in Inghilterra [Master of Distances, 2023].
Da sempre Doce affianca al suo originale percorso poetico un importante lavoro di traduzione dall’inglese che lo ha portato a esplorare (e a vivere attraverso la traduzione) zone lontane e/o diverse dalla vasta e ramificata poesia spagnola e ispanoamericana in lui, ovviamente, ben radicata.
In questa densa raccolta, divisa in tre sezioni, il linguaggio poetico scava nel mistero della materia, nelle relazioni interpersonali e sonda un sé stesso che sembra non volersi mai fermare. Avviene una diffrazione dell’io che spesso si trasforma in un “tu”, talvolta in un “lui” e persino in un “noi”, come dichiarato fin dal titolo del libro. È come se l’io uscisse dal sé (in più forme, identità) per studiarsi e vedersi dell’esterno, per stupirsi della vita che gli scorre intorno, per conoscersi più a fondo, acquisendo così un valore di ricerca universale. Il confronto tra l’io e il tu genera un continuo movimento, brevi dialoghi talvolta con qualcosa di teatrale che fa sì che ogni testo poetico sia una specie di racconto, una microstoria, spesso a sfondo favolistico più che orfico. L’io lirico si espande, si smarrisce nel vasto teatro del mondo, è come un pellegrino, un viandante che nell’ombra si rinfrange e moltiplica, si smarrisce nei fitti boschi dell’anima umana: un’anima al di là del tempo, un’anima che nel presente abbraccia il passato e il futuro (quel che potrebbe essere); un’anima al di là dello spazio o di un luogo ben definito, delimitato. Un io che fugge via, che si sposta in continuazione e, allo stesso tempo, è presente in più territori e lo spazio che lo contiene è sempre descritto in ogni dettaglio e via via si espande fino ad abbracciare la terra, l’infinito.
Man mano, nel corso del libro, si accresce la dimensione narrativa e il testo poetico evolve verso una poesia più discorsiva, pastorale e a un certo punto appare un “lui” misterioso, enigmatico, come in “Ospite” dove nel carosello delle apparizioni il “lui” si trasforma nel fantasma che occupa il posto vicino ad altre ombre e non è facile da isolare, da mettere a fuoco perché è un “lui” sfumato, traballante e le parole che lo descrivono non sono d’aiuto e – alla fine – un pugno di buio ne prende il poso fino a cancellarlo. O nel “Visitatore” dove qualcuno (lui) cammina tra le tenebre di un vecchio camposanto in cerca del proprio nome inciso su una vecchia lapide.
È come aprire delle porte che non danno in nessuna stanza, in un nessun luogo ma il viaggio, comunque, non deve mai fermarsi anche se il bosco sembra allargarsi, infittirsi, confonderci, ampliare la propria capacità di accogliere animali, alberi, ombre, voci e ricordi. Si va verso una “Tregua”, se ne sente il bisogno dopo questo peregrinaggio in più direzioni.
Cosa si cerca passeggiando in un bosco o all’interno dei ruderi di vecchie città infestate di fantasmi e di ricordi? Risposte sull’esistenza, sulla morte, sul vuoto che lascia una persona amata quando se ne va per sempre o uno spazio più grande che accolga l’inquietudine e il senso di estraneità che è “una forma di attenzione”. La vita ci sfugge di mano e la poesia prova a bloccarla con i versi, con il flusso vitale della lirica, della riflessione, con il camminare senza sosta. La spossatezza del viaggio (o del verso, anche un verso è un viaggio che ha un inizio e una fine) genera interrogativi: in quale direzione proseguire? Quali voci portarsi dietro e/o dentro? È possibile, dopo tanto incedere, ritrovare la strada di casa? Tornare all’inizio, lì dove si è partiti? E se tutto è in frantumi? E come immaginare com’è il mondo quando noi non ci siamo?
Un lungo testo, verso la fine del libro (e di questo viaggio sorprendente) si intitola “Note a piè di pagina”. Note che non si sa a cosa si riferiscano, sono lì in cerca di un testo come quegli afflitti e famosi personaggi di Pirandello in cerca di un autore. Un testo sperimentale e insieme giocoso, provocatorio, non a caso dedicato a Juan Carlos Mestre, bravo e innovativo poeta spagnolo e di Mestre questo verso (profondamente legato al libro) messo in epigrafe alla prima parte: “Nessuna notte prova vergogna dell’oscurità”. In questa sezione c’è un artefatto che non conosciamo: l’autore scrive (e ci regala) 33 note a piè di pagina di testi di cui non sappiamo nulla e che probabilmente non esistono. È come parlare di un’assenza, di un vuoto, del silenzio, di una enorme distanza. Dal tempo? Tema centrale nella poesia di Doce, quello del tempo, ancor più messo a fuoco nel libro successivo Maestro de distancias (2022), maestro di distanza: ovvero di chi ha la capacità di separarsi dalle cose, dal passato, dal tempo di cui non sappiamo nulla. Però “l’assenza” è il nucleo centrale e fondante di Noi non c’eravamo, fin dal titolo, come dicevo all’inizio, di questa splendida e coinvolgente raccolta poetica, così Jordi Doce, come il canadese Marx Strand, potrebbe essere definito “il poeta dell’assenza”. Nell’ultima sezione, “Monostici”, l’essenziale si espande e poi si ritrae, a fisarmonica, come il respiro dell’oceano, con i versi che aumentano via via da 1 a 11 per poi tornare a un solo verso finale, che chiude il libro, questo: “Iniziano così, le fiabe: un viandante ritorna a casa”.
Jordi Doce, Noi non c’eravamo, traduzione di Stefano Pradel, con prefazione di Pietro Taravacci, Passigli, 2022, pagg. 176, euro 18,50.
Jordi Doce (Gijón, Spagna, 1967) è poeta, critico e traduttore. Dottore di ricerca presso l’Università di Sheffield, è autore di numerosi articoli, saggi e monografie. Riceve il “Premio de ensayo Casa de America” con il libro Imán y desafío, del 2005, a cui seguiranno, tra gli altri, La ciudad cosciente (saggio dedicato a Eliot e Auden) del 2010 e La puerta verde. Lecturas de poesía angloamericana contemporánea (2019).
Al suo impegno come critico si accompagna un intenso lavoro come traduttore dalla lingua inglese (Blake, Auden, Carson, Simic ecc.). Come poeta si distingue sin da subito con la silloge La anatomía del miedo (Premio Antonio González de Lama nel 1993), a cui seguono Diálogo en la sombra (1997), Lección de permanencia (2000), Otras lunas (2002), Gran angular (2005), Poética y poesía (2008), l’antologia Nada se pierde (2015), No estábamos allí (2016, pubblicato anche in Italia da Passigli nel 2022: Noi non c’eravamo) e Maestro de distancias (2022). Si segnalano anche le raccolte di aforismi: Hormigas blancas (2005), Perros en la playa (2011) e il recente Todo esto será tuyo (Pre-Textos, 2021).
Risiede a Madrid, dove dirige la collana di poesia della casa editrice barcellonese Galaxia Gutenberg. Ha un blog personale: jordidoce.blogspot.com. Suoi libri sono stati tradotti e pubblicati in diverse lingue.
alexbrando@libero.it
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