PICCOLO ERRORE di Jordan Paul Limaco Angoma da Un viaggio qualunque
Bussarono alla porta, erano leggermente in anticipo ma io ero pronta già da un po’. Avevo passato la notte insonne calcolando ogni particolare, i documenti a portata di mano, la valigia pronta con dentro i vestiti senza etichetta e il portafoglio con la “bolsa de viaje”, che era stata messa per tutto il tempo nella cassaforte della stanza sulla quale dormivo ogni sera: il materasso.
Scesi dall’hotel e salii sul taxi, pronta a imbattermi nell’ignoto. Le strade desolate e ancora buie rispecchiavano la mia anima, l’assonnato autista faceva la sua prima corsa della giornata. Il silenzio del Pasador mi diceva che non ci sarebbero state altre raccomandazioni o altre indicazioni.
La luce dei lampioni si mischiò con i pannelli pubblicitari dell’aeroporto José Joaquín de Olmedo, non ci mettemmo tanto ad arrivare poiché il traffico era praticamente assente.
Nel parcheggio circolavano ancora poche macchine ma a breve si sarebbe riempito perché l’affluenza dell’aeroporto era tale da riempire tutti i posti macchina. Lo sapevo perché lo aveva detto il Pasador.
Salutai l’autista, il Pasador mi aiutò a scendere e ci dirigemmo verso le porte scorrevoli dell’ingresso. Isolati da tutti e prima di raggiungere le insegne luminose dell’ingresso, il Pasador si fermò.
«Sara, il mio lavoro è finito. Ora dipende tutto da te!».
Questo era il nostro addio, da qui in avanti avrei dovuto cavarmela da sola. Lui sorrideva con il tentativo di tranquillizzarmi, ma io avevo bisogno ancora di alcune piccole conferme.
«Tu non entri?».
«Non ti posso accompagnare dentro. Noi ci salutiamo qui».
«Capisco! Speriamo che non succeda niente».
«Vedrai che tutto andrà bene. Nessuno può impedirti di partire se i documenti sono in ordine. Se poi ci sono delle complicazioni, al massimo ti rimandano il volo a un altro giorno per controllare la veridicità dei tuoi documenti. Ricordati che i documenti che hai in mano sono autentici, fatti in un’altra maniera ma sono veri. Quindi non hai di che preoccuparti. Comunque, evita di agitarti e fai molta attenzione a ciò che ti viene detto. Se ti porgono delle domande, rispondi con serenità. Ci sono un sacco di passeggeri ed è facile che tu passi inosservata. Io rimango qui nei paraggi. Buona fortuna!».
Ci demmo un abbraccio, presi il trolley in mano e mi avviai verso la sala delle partenze.
All’interno dell’aeroporto c’erano molte persone, guardando i cartelli che pendevano dal soffitto, seguii le frecce che indicavano la partenza dei voli internazionali. Sul mio biglietto c’era scritto il terminal della compagnia aerea che mi avrebbe portato a Milano. Una volta arrivata, mi avvicinai timidamente allo sportello per il check-in facendo zig zag sui paletti che segnavano il percorso semi vuoto.
Una signorina dai modi delicati mi accolse sorridendo, controllò i biglietti e documenti e mi chiese di mettere le valigie su una pedana per pesarla. Le mostrai il trolley dicendole che era l’unica valigia che avevo e lei mi suggerì di portarlo nella cabina dell’aereo. Ascoltavo il rumore delle sue dita sulla tastiera e i click del mouse mentre lei lavorava. Osservava attentamente i documenti e scriveva sul suo computer con un’agilità che neanche i dattilografi avevano. Poco dopo mi restituì tutto augurandomi buon viaggio. Sorpresa dalla facilità con la quale avevo superato il check-in mi allontanai continuando a camminare verso il controllo passaporti. Questa volta le palpitazioni al petto stavano accelerando e la paura cominciava a prendere il sopravvento. Rallentai i passi tentando di recuperare la serenità. Guardai ai lati alla ricerca di un posto dove mettermi seduta per riprendermi. Nelle vicinanze era presente solo un cartello che indicava la toilette. Entrai, anche se non avevo il bisogno del bagno. Aprii il rubinetto facendo scorrere l’acqua tra le mie mani mentre facevo dei respiri profondi. Allo specchio la mia immagine era patetica. Non ero io. I capelli rossi e il trucco mi facevano sembrare una persona parecchio adulta, la matita che delineava i miei occhi cominciava a colare a causa del sudore lasciandomi grandi occhiaie che non riuscivo a sistemare con le dita, anzi, ogni mio tentativo non faceva altro che peggiorare e accrescere il problema.
Vedevo entrare e uscire persone impazienti di salire a bordo. Io invece rimanevo nell’attesa che i battiti diminuissero. Recuperata la calma, avanzai verso il controllo passaporti esortando me stessa come un soldato quando va in guerra.
L’area era composta da cabine con ufficiali all’interno che facevano avvicinare quelli in fila uno alla volta. Avevo in mano i biglietti di andata e ritorno, l’itinerario, la prenotazione dell’hotel a Milano, il mio passaporto e la carta d’identità. Non mancava nulla, tutto era al completo per iniziare lo spettacolo.
Qualcuno dalla fila mi fece notare che era arrivato il mio turno, sentivo l’adrenalina scorrermi in corpo man mano che mi avvicinavo cercando di controllare l’ansia che si era impadronita di me.
Ad accogliermi fu una poliziotta che sembrava scocciata del suo lavoro.
«Documenti, prego».
Senza indugiare appoggiai le carte sul bancone e le mostrai il passaporto, la carta d’identità e i biglietti aerei.
«Motivo del viaggio?».
«Vado a conoscere un po’ d’Europa».
«Per quanto tempo?».
«Solo un mese».
Non mi fece altre domande, voleva sapere soltanto il motivo del mio viaggio e i giorni di permanenza fuori dall’Ecuador. Sembrava che procedesse tutto correttamente, i suoi colleghi facevano scorrere la fila mentre lei si soffermava sul mio passaporto. Si assentò per un breve istante e i dubbi cominciarono a martellarmi la testa, desideravo fortemente che niente andasse storto. Le mie speranze caddero quando la vidi ritornare accompagnata da due agenti i quali, dopo aver preso tutte le mie cose, m’invitarono a seguirli. Camminavo verso una zona appartata dalla fila e dai controlli passando davanti a una serie di stanze. Entrammo in una di quelle abbastanza grandi da contenere diverse scrivanie dove alcuni passeggeri sedevano di fronte ad altri agenti. La stanza era grigia e aveva delle finestrelle che sfioravano il soffitto che davano sul corridoio. Il rimbombare della stanza non permetteva di percepire i discorsi che si facevano e non capendo l’operare degli agenti, l’ansia accresceva notevolmente. Da una scrivania vidi alzarsi una signora che allegramente stringeva la mano agli agenti che erano con lei per poi salutarli e apprestarsi a uscire per prendere la porta d’imbarco.
Ci accomodammo a una scrivania che si trovava a pochi passi dall’ingresso, da qui potevo osservare le persone che superati i controlli si disperdevano in diverse direzioni. Uno degli agenti mise sul tavolo i miei documenti e si sedette pronto a iniziare una conversazione che non prevedeva niente di buono. L’altro rimase in piedi con le braccia incrociate come a volermi intimidire.
Quello che successe dopo lasciò di stucco entrambi gli agenti, la valanga di domande che mi fecero comprendeva tutte quelle che il Pasador aveva previsto e tutte quelle che io avevo praticato instancabilmente. Non c’era nessuna a mettermi in difficoltà e a tutte io avevo risposto brillantemente.
Con i nervi saldi facevo affermazioni e mi dimenavo in acque torbide con molta destrezza, il loro ingegno nel trovare tranelli per farmi cadere non funzionò perché ormai avevo la situazione sotto controllo. Avevo studiato tanto, avevo risposto in maniera perfetta e pensavo che questo mi sarebbe bastato per proseguire il viaggio.
Mi sbagliavo. Il poliziotto dopo avermi ascoltato esclamò:
«Tu non sei ecuadoriana!».
Bastò questa frase a farmi gelare il sangue. Poi si alzò, prese i miei documenti e assieme al suo collega se ne andarono incaricando a chi rimaneva sulla porta di sorvegliarmi.
Rimasi seduta ad aspettare, quella affermazione mi preoccupava parecchio e non avevo idea di quello che sarebbe successo. Convita che il Pasador avesse fatto egregiamente il suo lavoro e che i documenti fossero correttamente iscritti nell’anagrafe e nelle altre istituzioni di Governo, mantenevo la calma con la speranza che presto mi lasciassero andare come succedeva con le altre persone che, come me, erano entrate nella stanza.
L’orologio scorreva e l’ora del decollo si avvicinava sempre di più.
Mi venne un brutto presentimento, ci stavano mettendo troppo ed io non avevo nessuna risposta certa. Chi sa se avevano capito veramente che non ero ecuadoriana, forse lo avevano intuito dalle mie risposte o forse avevano notato qualcosa nei documenti per cui dovevano approfondire con maggiore attenzione.
Rientrarono dalla porta, erano passati ormai quarantacinque minuti e questa volta erano accompagnati da altri due poliziotti. Si accomodarono e di nuovo la stessa affermazione:
«Tu non sei ecuadoriana!».
«Sì che lo sono!», replicai immediatamente alzando un po’ il tono della voce.
«Nessun ecuadoriano è così bravo Signora» disse l’agente scuotendo la testa con un ironico sorriso.
Io rimasi in silenzio non avendo argomenti per controbattere. Poi lui si girò verso uno dei poliziotti che lo affiancavano e gli diede una specie di comando facendo un gesto con la testa e alzando le sopracciglia.
Il poliziotto si avvicinò a me e disse.
«Signora, lei oggi non prende l’aereo, rimane in stato di fermo in attesa d’indagini e accertamenti dei suoi documenti. La porteremo in caserma, dove rimarrà il tempo necessario a risolvere questa situazione».
Cercai di protestare ma nessuna frase valida a dimostrare chi sostenevo di essere uscì dalla mia bocca. La sicurezza mi abbandonò in quell’istante e lasciò spazio ai nervosismi che mi fecero rifugiare nel silenzio. In quel frangente non mi venne da obbiettare. Ripensandoci, chiunque avrebbe reagito opponendosi anche con violenza nel veder calpestati pestati i propri diritti, io invece con il mio silenzio avevo accettato le mie colpe e con queste la mia condanna.
«Caricatela sull’autopattuglia!».
Fu l’ordine che mi trafisse il cuore, scossa dalla vergogna, rimanevo seduta e immobile con la testa fra le mani avvolta da un’infinità di emozioni che non riuscivo a esprimere.
Una mano mi afferrò per il braccio, mi tirò su dalla sedia e mi portò fuori dalla stanza tra l’osservare dei passeggeri che rimanevano seduti sorpresi dal mio allontanamento con così tanti poliziotti al mio fianco.
Volevo evitare gli sguardi di tutti i presenti, ma non potevo. Sentivo i loro occhi addosso a me come pugnali che penetrano nella carne. Non si esprimevano ma percepivo le loro offese e sentivo il loro disprezzo, lo stesso disprezzo che si rivolge a un crudele criminale. Ignari di ferire una donna che nel profondo chiedeva pietà per aver tentato di cercare altrove quello che la sua terra non le aveva potuto dare: una vita degna.
Percorrevo il corridoio con lo stesso animo di chi sarà giustiziato con la pena capitale. A ventotto gradi di temperatura sentivo freddo, avevo le gambe tremolanti e i piedi pesanti. Ogni mio passo s’incollava al pavimento e non mi faceva avanzare alla stessa velocità del poliziotto che mi teneva per il braccio con una presa ferrea.
Uscimmo da una porta laterale. Ormai era giorno. Da questo lato dell’aeroporto potevo vedere chiaramente il parcheggio dove avevo salutato il Pasador. Desideravo fortemente di vederlo, magari poteva fare qualcosa ed evitare che mi portassero via. Purtroppo lui non c’era. L’orologio segnava le otto e un quarto, il mio volo era partito già da un po’ e probabilmente lui se ne era andato pensando che io ero salita su quell’aereo.
L’auto della polizia attendeva con le luci accese e le portiere aperte. Contai esattamente cinque passi prima di ritrovarmi al suo interno. A guidarla era lo stesso poliziotto che mi aveva portato fuori, un ragazzo poco più grande di me che prima di salire scambiò un paio di parole con il suo superiore.
Seduta sul sedile posteriore, guardavo gli aerei in cielo mentre ci allontanavamo dall’aeroporto in completo silenzio. Imboccammo una strada piena di macchine che comprendeva cinque corsie d’andata e cinque corsie di ritorno. Durante il tragitto, mi s’intorpidirono le guance, mi si annebbiò la vista e la palpebra sinistra cominciò a muoversi senza che io la potessi controllare, gli spasmi si manifestavano ovunque. I tendini erano tesi e i muscoli in allerta. Mi sentivo in affanno, mi mancava l’aria e la testa non mi faceva focalizzare niente.
Ogni tanto lui mi guardava dallo specchietto e scuoteva la testa. Ascoltavo i suoi profondi sospiri, il cinguettare del cuoio della sua cinta sul sedile e le chiavi che tintinnavano appese dal cruscotto. L’aria condizionata accesa colpiva la mia fronte sudata, asciugandola lievemente ma senza procurarmi nessun sollievo. Sentivo il forte bisogno di prendere un’altra pasticca di alprazolam che tante volte mi aveva fatto stare meglio. Ero nel più completo abbandono e vedevo in essa la chiave per aggiustare i nervi. Non riuscivo ad impugnare la borsa che piano piano mi scivolava dalle mani facendomi perdere l’interesse di custodirla. Dovevo rassegnarmi e accettare che nulla poteva cambiare.
L’immagine di Jan compariva a tratti, andava e veniva facendomi compagnia. Ogni volta che si presentava l’unica cosa che riuscivo a fare era chiedergli scusa. Avevo sbagliato tutto. La sorte non aveva mai giocato a mio favore, lo sapevo bene e ciononostante io mi ero affidata a questa. Ora dovevo pagare il mio errore. Non quello di aver finto di essere un’altra persona, non quello di aver corrotto un funzionario e tanto meno quello di aver pagato il Pasador. Dovevo pagare per il vero errore, il più grande errore: quello di aver abbandonato mio figlio.
[...]
Io volevo essere forte e questo pensiero mi fece venire la voglia di lottare e non arrendermi così facilmente. Ero arrivata fino a lì e non avrei permesso che la sorte si prendesse ancora una volta la mia vita.
La mia mente macchinava strategie di sopravvivenza, guardavo ogni cosa dal finestrino sperando di trovare un segnale che mi desse una spinta. È strano come in una situazione del genere ti vengano così tante idee assurde in testa. Vedevo passare alcuni ciclisti e mi chiedevo se fosse veramente così difficile rubargli la bicicletta per mettermi a pedalare in senso opposto senza farmi raggiungere dal poliziotto. Oppure, se fossi in grado di scappare approfittando del rosso dei semafori o addirittura di saltare dalla macchina in corsa e correre nella ricerca di un nascondiglio.
Tutte fantasie che non si applicavano alla realtà. La portiera si poteva aprire solo dall’esterno e anche se fosse stato possibile forzarla, ovviamente, non sarei stata capace di compiere nessuna di queste pazzie.
Recuperata la lucidità, percorremmo diversi minuti fino a che il silenzio s’interruppe. Il conduttore della pattuglia mi pose delle domande con molta naturalezza.
«Quanti anni hai ragazza?» disse il poliziotto guardandomi dallo specchietto retrovisore.
«Ne ho ventotto».
«Sei molto giovane per andare in prigione. Sei sposata?».
«No, ma ho un figlio piccolo».
«Capisco, quindi è per lui che fai tutto questo».
Non so se voleva guadagnarsi la mia fiducia, la mia simpatia o era una strategia per ottenere maggiori informazioni che confermassero i loro sospetti; si rivolgeva a me con una certa compassione come se fosse colpito dalla situazione.
«Quando arriveremo in caserma, potrai chiamare la tua famiglia per avvisarli dell’accaduto. Sai già a chi chiamare?».
«No, signore».
«Come, non sai chi chiamare? Allora con chi sei venuta all’aeroporto?».
«Non mi ha accompagnato nessuno. Ho preso un taxi da casa».
«E dove abiti?».
Ogni sua domanda mi metteva sempre in difficoltà. Non ero preparata a rispondere. Né io né il Pasador avevamo previsto questo tipo di domande. Il mio silenzio rivelava che tutto ciò che dicevo non era vero e che stavo nascondendo alcune cose. Il vero interrogatorio si stava svolgendo in quel momento.
«Vedi, si capisce subito che non sei di qua. È molto strano che tu non sappia chi chiamare e che non ricordi dove abiti. Sono sicuro che se ti chiedessi la via di casa tua non sapresti rispondermi. Nemmeno se ti dicessi che avrei intenzione di accompagnarti a casa e lasciarti andare, sapresti indicarmi una strada».
Effettivamente, non avrei potuto chiamare nessuno. E anche se gli avessi suggerito l’unica via che conoscevo, quella dell’hotel, da questa posizione non avrei saputo arrivarci.
«Dai dimmi la verità, te lo chiedo da amico».
Non potevo più nascondermi. Continuare con la farsa non aveva più senso, ma non riuscivo ancora a dire niente. Così il mio silenzio si mostrò ambiguo e davanti alla mia risolutezza di mantenere una ferma posizione, lui accostò la macchina e fece una telefonata.
Ecco pensai, quella poteva essere la mia occasione di fuggire, dovevo cogliere un momento di distrazione e provare a scappare, mettermi a correre.
Sul punto di tentare la fuga qualcosa mi bloccò. Mancanza di coraggio, o semplicemente un po’ di buon senso.
Parlava con qualcuno che sembrava essere un suo superiore, si rivolgeva all’auricolare con rispetto e parole di subordinazione.
«Lei non parla. Non ha nessun familiare e non si ricorda dove abita. A questo punto le dirò di mettersi in contatto con un avvocato. Intanto, la porto in caserma per preparare le carte». Dal loro discorso potevo intuire che la faccenda si stava complicando ancora di più.
Conclusa la sua telefonata, fece una manovra del tutto irregolare. Un’inversione di rotta in quel grande viale pieno di traffico che mi sembrò alquanto strana perché stavamo tornando indietro.
«Mi dispiace che tu debba stare in caserma. Una volta dentro se non ti viene a prendere nessuno passerai la notte da sola, dovrai condividere la cella con i criminali. Non dovrei dirti questo, ma non so se sia meglio stare con i criminali o con quei bastardi dei miei colleghi. Da un po’ di tempo la polizia e i militari stanno investigando su una mafia che porta persone in Europa con la stessa modalità che stai intraprendendo tu. Sappiamo che diversi capi delle forze dell’ordine ne fanno parte. Le autorità che stanno investigando il caso, pur di ottenere delle informazioni, non si farebbero degli scrupoli a maltrattarti. Tu sei una ragazza giovane. Non sai cosa potrebbe succederti».
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