FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 62
novembre 2022

Arrivi

 

PARTIRE È NIENTE

di Viviane Ciampi
illustrazioni di Diane Beauchamps




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Si va. Il pesce azzurro accumulato a riva mostra un’evidente afflizione. Si va. Sabbia bionda, ottime previsioni. Si va. Il meteo suona il flauto della siccità col suo fremito perenne. Immaginare altre città, altre melodie, altri sguardi da sbarco recente. Allora è vero che si va nel destino provvisorio.


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Dopo aver mangiato veleno di frontiera accade come una spinta meccanica, si scorge un dettato dall’alto a cui dare retta.


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Ma partire è niente oppure quel navigare in mari obsolescenti tra mille lingue che si perderanno senza melodrammi sentimentali.


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Loro, uomini donne, piccoli corpi viaggianti nel fuoco che divora, loro cose tra le cose, nell’opaca stravaganza delle cose, nella forma vuota delle cose sono dentro, ancora dentro, poi fuori come espulsi dalla madre, come espulsi dal peso della storia. Allora insistono: si va.


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Sono marea umana che scivola nella marea umana, nella luce per niente fraterna, schiavi, sagome, parti in ombra o cancellate, fabbricanti della notte dei fili spinati, di memorie addolcite o salate.


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Eppure si addormentano tra corpi addormentati, tanto nessuno dirà niente. Soffia un vento distratto ‒ disastrato ‒ di lamenti e sudore, di porte spalancate al presentimento. Hanno creduto oppure no alla bontà del viaggio. Se fossero rimasti che cosa sarebbe cambiato?


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Tanti sono già

radunati

con le

tuniche scure

i jeans sudati

scarpe da tennis

e profondi

sospiri

dove

le

parole non arrivano.



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Noi qui seduti sul velluto con l’anima avvilita, divenuti irradiati dal fulmine con tanta bellezza sorda e cieca, azzurro censurato ridotto a balbettio.


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Avevamo sfiorato il ventre dell’immaginario fino alla carezza finale. La voglia di far festa era gemella del verbo attraversare.


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Viaggiare e fuggire non hanno le stesse sillabe. Partire e arrivare non hanno le stesse sillabe. Non si può arrivare alla partenza. Chi fugge è figlio malato del viaggio. Il leone gli correrà dietro all’infinito.


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Quando Bruna arrivò in Francia incinta di mio padre dovette dormire in una camera sudicia con le cimici. Il dittatore le correva dietro nei sogni. Non riuscì mai a pronunziare bene il nome della via dove abitava.


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Noi qui, forse immobili. Meglio tacere. Le ore tutte uguali, arabeschi di ore cadute dall’ombra.



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La sopravvivenza, un fossile dimenticato nella culla degli dei.


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Qualcuno disse: gli dei non contano. A loro volta dimenticati nella valle dei dispersi al semaforo del tempo.


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Poche pagine scritte in risposta alle violenze e al sangue che si scioglie, al sangue che s’incolla pianissimo alla pelle. Dentro un pugno di mosche niente da raccontare se non il rimanere di un pugno di mosche fastidiose

tra sistole e diastole

tra sistole e diastole

tra sistole e…


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Nella grande illusione

è troppo tardi

in fondo lo sapevano

è troppo tardi

per qualunque viaggio

e persino in questo libro

appena aperto a pagina tre da un lettore disattento

lettore sognato

indovinato

nello squilibrio della retina

strana bestia anche lui!


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Loro stanno approdando con benzina nei polmoni, aperitivo gentilmente offerto a chi arriva senza neppure un applauso.


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La forza. Cercarla. Bussare alle porte per abituarsi. Forti dell’essere forti e non solo vincitori di un giorno.


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La forza. Cercarla, non mendicarla. In una spremuta di umanità. Aprirne il canto negli alberi rimasti senza voce, nel respiro dei girasoli pronti alla schiusa. I ventri vuoti non ammettono debolezze, i tamburi vanno riempiti per assicurare il cibo invernale. La salvezza, tutta da inventare giorno per giorno. Si potrebbe approfondire il mistero, il sentiero ‒ quindi ‒ sempre da indovinare. A quel punto parla da solo nella testa della gente.


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In caso di allegria, braccarla fino al midollo, con le dita, con le unghie, con le braccia. Con una stretta micidiale. Il servizio di sicurezza non la tollera due volte.


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Morendo s’impara. Morendo si spara. Armonia salva.


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Alla fine del mondo si potranno scrivere poesie d’amore con Eros in primo piano senza tubi o altri accessori ma con orizzonti di labbra bacianti, mani carezzevoli carezzanti, e tutti torneranno adolescenti all’arrivo in altri mondi e sfiorare una spalla regalerà semenza nuovissima persino ai defunti.


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Loro arrivano, arriveranno nell’ora lenta per qualche secolo ancora con armi immaginarie puntate su di noi. Oppure saremo noi ad arrivare sui gradini del tempo con le armi immaginarie puntate sull’oscurità dell’esilio e sul verbo arrivare, noi che conosciamo l’arte di addomesticare i nostri demoni da sempre utilizzati, noi che solleviamo antiche voci dalle vite molteplici.


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Noi conserviamo braccia lunghissime che sfiorano i fantasmi in piedi ‒ bestemmianti ‒ vicino ai letti delle nostre ricche stanze.


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La poesia migra ovunque. Scarica barili di bile e flaconi di profumi, apre parentesi per accogliere gli invisibili, le uova putride del dolore, corpi di bambini ridotti all’osso, danza d’insetti nell’incendio (ma nessuno lo sa).


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Di lontano accade qualcosa di preciso: un battito di porta in nostra assenza, un grigio di rovine, di tempo franto. Ma pochi, gli elementi.


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Qualcuno avrebbe dovuto dirci che desiderare l’arrivo non è l’arrivo.


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Qualcuno avrebbe dovuto dirci che anche le direzioni hanno una fine.


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Qualcuno avrebbe dovuto dirci

l’arrivo è semplice,

ossia il contrario della semplicità.


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