FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 61
luglio 2022

Partenze

 

NASCOSTA TRA LE MACERIE
(Un’improvvisa partenza)

di Alessio Brandolini



Lo sgombero avvenne nel 1951. Iniziarono una mattina di marzo, le ruspe si fermarono tre giorni dopo. Fino a qualche anno prima ci giocavamo di pomeriggio. D’estate fino al tramonto.

Quello era il nostro campo di battaglia, il castello da difendere dal nemico. Scalando il cumulo di sassi correvamo dei rischi. Per le frane, i ferri conficcati nel cemento che spuntavano come lance e ferivano gambe e braccia, i frammenti di vetro e i chiodi. Trovavamo animali morti, li sollevavamo coi bastoni e andavamo a seppellirli nel bosco. C’erano cunicoli da esplorare. Franava un pavimento, il resto di una scala. Di schianto cedeva un muro fragile come carta. Accadeva un metro avanti o alle nostre spalle e venivamo investiti dalla polvere. Pericolo scampato, potevamo proseguire. Chi ha paura torni a casa. Ne avevamo tutti, ma guai a dirlo.

Scavavamo per liberare i passaggi. I rischi aumentavano con la pioggia e bisognava stare alla larga dalla montagna per non essere sepolti dalle macerie. Per non tornare a casa sudici: le nostre madri ce le avrebbero suonate e poi proibito di uscire per una settimana.

Dovevo compiere dieci anni. Fatico a mettere a posto i tasselli della casa dei Gentile distrutta da un bombardiere alleato che sganciò il suo carico di morte per colpire la palazzina delle SS. Dal terrazzo i tedeschi sparavano sugli aerei che volavano a bassa quota. Uno tornò indietro e non centrò il bersaglio. La “palazzina gialla”, così veniva chiamata la sede del comando nazista, non subì un graffio. L’incendio distrusse quadri, libri e mobili. Da qualche anno la grande casa era disabitata.

All’inizio del ’40 avevamo saputo che i proprietari, i Gentile, erano ebrei. Eppure anche loro, la domenica, venivano in chiesa, come tutti al paese. La famiglia era solo di origine ebraica. Sara aveva fatto la prima comunione con me e gli altri della banda. Marco, Gianni e il piccolo Danilo.

Dissero che erano finti cristiani, per convenienza. Non capivamo perché fosse così importante sapere se uno andava a messa con convinzione. Io non pregavo, troppe fantasie nella testa: non vedevo l’ora di uscire dalla chiesa e riprendere a giocare.

Papà diceva che le religioni erano imbrogli e non gli avevano torto un capello. Più volte i fascisti lo avevano picchiato e fatto bere l’olio di ricino, ma perché seguitava a proclamarsi socialista e tornando dai campi metteva al collo un fazzoletto rosso. Tra quelli che lo aspettavano molti erano stati del suo partito o comunisti. Passati dalla parte opposta, lui glielo ricordava e quelli coi manganelli picchiavano più duro.

La famiglia di Sara fu deportata in Germania e di loro non si è saputo più nulla. Erano stati nascosti un mese nella soffitta di Armando, il falegname, poi qualcuno aveva fatto la spia. I Gentile caricati su un camion, Armando rinchiuso in caserma e torturato. Non lo condussero a via Tasso, dove finì invece un partigiano del paese, l’avvocato Placido Martini, poi trucidato alle Fosse Ardeatine. Armando restò dentro tre mesi e quando uscì era un altro, subì tre interventi e lasciò l’ospedale zoppo per sempre.

Sara Gentile aveva due sorelle, più piccole. Il padre era ingegnere e aveva messo a punto un nuovo tipo di carrello per l’atterraggio aereo. Adorava la pittura, la loro casa era piena di quadri, venduti quando iniziarono i problemi di lavoro, dopo le leggi razziali del ’38.

Negli stretti cunicoli trovavamo tracce di quella famiglia polverizzata. Foto bruciacchiate, lavori fatti a scuola da Sara, matite, il braccio di una bambola, la stoffa di un divano, una pentola annerita.

Il federale camminava dritto, le mani intrecciate dietro la schiena.

In gioventù era stato mazziniano. Non s’atteggiava a violento, bastava salutarlo per accattivarsene la simpatia. Parlava di Mussolini come di un eroe che aveva fatto grande l’Italia, più di Garibaldi che s’era ritirato a Caprera a fare il pensionato.

Gli chiedemmo dov’era la nostra amica, con le sorelle e i genitori. Dove avrebbero vissuto al ritorno, visto che la casa era stata distrutta dalle bombe americane. Balbettò qualcosa sull’onore della patria.

«Sì, ma la famiglia Gentile quando torna al paese?»

Il federale fuggì all’arrivo degli alleati ma fu uno dei primi a tornare a guerra finita. A testa alta perché in Piemonte aveva combattuto coi partigiani monarchici.

Seguitammo per anni a giocare sulla montagna di ruderi.

Sara si nasconde in un cunicolo, pensavamo, e non esce per paura che possano farle del male. La chiamavamo fingendo di cercarla.

Poi un giorno ci crollò addosso un soffitto e fummo portati all’ospedale: io, Marco, Gianni e il piccolo Danilo. La mia gamba destra spezzata in due punti. Portai il gesso per quaranta giorni. Brutto non poter correre, arrampicarsi sugli alberi, non poter giocare a pallone.

Allora il sindaco fece recintare la zona: «Lì dentro nessuno ci mette più piede!».

Detriti masticati dal tempo e poi gli operai che arrivano una mattina di marzo, nel 1951, e con le ruspe caricano sui camion tonnellate di macerie.

Al posto della casa di Sara ora c’è una palazzina di quattro piani con ampi balconi.


Tratto dal libro di racconti Un bosco nel muro, Edizioni Empirìa, 2013.

alexbrando@libero.it