Nella vita di ciascuno di noi si nascondono delle ombre. Ad esse restiamo avvinti, specie nell’“ora più scomoda”, quando la nostra esistenza pretende di più, di travalicare, come il giovane Harold di Safety Last! (film del 1923), brillantemente richiamato dal tratto inequivocabile di Stefano Cardinali in copertina della seconda opera di Marco Galetto, Dove si nasconde la notte (Robin Edizioni, 2021).
La protagonista, Laura, è una giovane infermiera, una donna che cura, che si prende cura di qualcun altro in un percorso in cui sempre più consapevolmente recupererà anche la propria storia.
La scena si apre davanti a un podere nei dintorni della località immaginaria di Terse, nome ragionato in contrapposizione (o apposizione?) al titolo Ombre che l’autore ha scelto per i capitoli di inizio e fine, identici, con l’aggiunta in chiusura di una pagina rivelatrice che, tra le muffe e la polvere di questa casa/corpo riaperta dopo tanto tempo, mostra la trama dell’intera tela narrativa di 275 pagine ben scritte.
Un tempo quel luogo era stato protagonista dei giochi di bambini di Laura, del fratello Dario e dell’amica del cuore Alice, ora non è che un rudere, vecchio e cadente «come un corpo … segnato dal lento scorrere del tempo, ferito da lutti e sciagure; vivo, ma sfinito. Non più minaccioso» (p. 9). Questo «tempio laico» (p. 11), santuario di ricordi, nostalgia e rimpianti fa da cornice a tutta la vicenda.
Laura, donna della cura, è ogni giorno vittima di incuria, in primo luogo, da parte di se stessa (non ha mai tempo per sé), come dell’amante: lei infermiera, lui medico autorevole, sposato con figli e mille altri pensieri tutti più importanti di lei. Laura, donna della cura, dell’inclusione delle pene altrui, si scopre esclusa, corpo estraneo nella propria famiglia, improvvisamente: una triste vicenda clinica le rivela solo adesso, alla soglia dei quarant’anni, di essere stata adottata in tenerissima età. Tutta la vita è in discussione. Laura vuole la verità e decide di scoprire chi sono i suoi veri genitori, cosa li abbia portati a concepirla e poi darla via. Affida le ricerche ad un avvocato, ma il vero percorso di investigazione (più psicologica che documentaria) è altrove: la donna si sente chiamata da una altra storia che ha fatto incursione durante i suoi turni di lavoro in ospedale, una incursione delicata, quasi banale nei fatti, quanto travolgente nel suo richiamo.
Durante l’ora delle visite al giaciglio di una paziente in coma, si reca un uomo che si piega verso il suo orecchio per sussurrare qualcosa, un «mormorio monocorde, come una sommessa preghiera, di cui non è possibile stabilire il contenuto» (p. 33). La scena si ripete più volte. Laura, ossessionata da quel gesto, apparentemente inutile, gratuito, illogico, escogita un sistema per ascoltare il messaggio misterioso: esso si rivela poetico, catartico, traccia di un mondo sommerso (pp. 56-57).
Lo sconosciuto avventore è un “matto”, già ospite al manicomio di Santa Maria della Pietà, chiuso nel 1999: Franco Rocci, il Muto (che muto non è), detto anche Vassallo, poiché, ai tempi, era sempre al seguito di un altro matto, autorevole e scontroso, Pino Muzzi. L’indagine su Franco porta Laura, impavida detective di questo “caso” apparentemente strampalato, allo psichiatra Aldo Moldai: non più in attività, costui, uomo del passato – diremmo quasi, nella sua sacralità e nel rigore, deus ex machina del libro – ha conservato la capacità di analisi dell’interlocutore e… molte informazioni riguardo alle anime e ai corpi di coloro che hanno vissuto la “prigionia bianca” dei manicomi prima che la Legge Basaglia li facesse chiudere.
Lo psichiatra consegna alla curiosa Laura, ammaliata dalla sagoma del “muto” Franco, un plico, un memoriale: Padiglioni (l’intero capitolo III, pp. 100-174). Nel documento Moldai racconta il suo ingresso da giovane a Santa Maria della Pietà, accolto da ispettori, colleghi medici, religiosi di supporto, insomma un esercito di professionisti del disagio mentale, per cui quella fossa di sofferenza non è che quotidianità, routine, “lavoro”.
Con la sua lettura del memoriale Laura, a fianco del suo Virgilio Moldai, compie un vero e proprio viaggio negli inferi, con tanto di gironi dedicati a «suicidi» o «criminali», «cronici», «agitati». Un percorso fatto dalle informazioni e dalle suggestioni che l’autore ha colto ed elaborato in uno studio appassionato che ha voluto svolgere sui temi della sofferenza mentale.
Tra i pazienti che vegetano nei padiglioni c’è una «leonessa», Zaira Zorzi (p. 126 e ss.), diversa dalle altre, dotata di una nobile fierezza intrinseca, temuta (quasi riverita) dagli altri “ospiti” ma anche – addirittura – dal personale: vittima di abusi in famiglia, diede scandalo da ragazza tra i suoi paesani perché ribelle e scorbutica, ora, ancora, lancia sentenze, espone posizioni anarchiche, esprime pensieri fuori da ogni schema. Sembra… malata cronica di libertà. Al suo seguito la giovane Rebecca, rimasta traumaticamente orfana in tenera età, ora un’ombra silenziosa.
Moldai incontra altri pazienti/spiriti lungo la sua discesa: cerca e trova la sua Giovanna, antico, totalizzante e unico amore della sua vita, la cui mente è ora «lontana», prigioniera di una follia che le ha rubato pudore e dignità (pp. 131-137). In questo viaggio nella memoria Moldai si imbatte anche in Franco il Muto (p. 140). Il giovane medico viene censurato dai superiori per la sua condotta, le visite troppo lunghe e dal carattere troppo personale. Gli consigliano di essere più distaccato, per sopravvivere in quell’ambiente, di escludere, dunque, di chiudere nell’ombra quelle menti ormai bollate come insane.
Nei padiglioni, naturalmente, era praticato l’elettroshock, terribile “terapia”/tortura che fece dire al suo inventore, Ugo Cerletti: «Liberare l’uomo dall’ elettroshock è stata la prima idea che mi è venuta quando ho praticato il mio primo elettroshock sull’uomo» (p. 161). Moldai assiste anche a quello praticato a Pino Muzzi, legato nella follia da un sentimento complesso alla leonessa Zaira. Il loro amore venne spezzato da quella tortura… una sofferenza soffocata, tenuta forzatamente a bada… senza scampo, senza la possibilità della fuga, nemmeno quella estrema della morte.
Tutto questo orrore Moldai lo sente «più forte degli altri», anche se non ha mai potuto conoscerlo davvero: come un cieco, non può che immaginarlo. Zaira ha intuito questo dono e così ha istaurato con lui una connessione che si rivelerà indispensabile a Laura per scoprire la verità verso la quale per tutto il libro è attratta come da un magnete. E noi lettori con lei.
Il senso di questo libro è una «promessa di inclusione», la stessa che ha ammaliato Laura alla visione di Franco, il matto riuscito nell’intento di risvegliare dal coma una sconosciuta facendo ricorso a parole d’amore. A quella promessa vale forse la pena di rispondere affrontando le sfide della vita, tuffandosi in essa senza timore… pur se il trampolino sembra troppo alto.
Il grido di Zaira Zorzi, «i morti sono vivi e i vivi sono morti!» resta l’epigrafe di questo romanzo che è anche un diario di fede (si veda la figura e l’evoluzione del pensiero di don Pietro, dopo l’esperienza all’inferno di Santa Maria della Pietà).
Dove si nasconde la notte, dunque?
Nell’incuria, nell’esclusione, nell’oblio. Siamo fatti di carne e di spirito, dunque siamo vivi e già morti, morti ma ancora vivi, e, sostiene Galetto, tra i due stadi c’è una interconnessione molto più intensa di quello che pensiamo.
Marco Galetto, Dove si nasconde la notte, Robin Edizioni, 2021, pagg. 280, euro 15,20.
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Marco Galetto È nato nel 1968 a Latina, dove tuttora vive con la moglie e i due figli. Laureato in legge all’università “La Sapienza” di Roma, è impiegato da molti anni nella pubblica amministrazione. Con la Robin Edizioni di Torino ha pubblicato i romanzi Lontano dal mondo (2017) e Dove si nasconde la notte (2021).
antonella_amico@yahoo.it
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