FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 61
luglio 2022

Partenze

 

PARTENZE

di Marco Galetto



Mi sveglia il disturbante cigolio dei cardini della porta a zanzariera. Mi alzo di scatto dal letto. La luce del giorno già invade prepotente la stanza. Guardo il display della radio sveglia – le 5:35 – e raggiungo rapida il corridoio. Sorpasso il ripostiglio, adibito a cameretta, dove scorgo Marco, esiliato suo malgrado dal letto matrimoniale per il troppo russare: è ancora saldamente tra le braccia di Morfeo. Procedo oltre. Mi fermo sulla soglia dell’ultima camera: Mauro non c’è. In un attimo sono fuori casa, in preda a un’apprensione, non lontana parente di un montante panico. Mi muovo a piedi nudi sulla spiaggia e, dopo pochi passi, torno a respirare sollevata. Mio figlio è in piedi poco lontano, sulla battigia.

“Andateci voi. Fate respirare un po’ di iodio alla piccola peste. Io, per almeno due settimane, devo restare al chiodo”. Così mi aveva detto Liliana, drastica e risoluta, porgendomi le chiavi della sua casa al mare, tra Sperlonga e Gaeta, costretta com’era al capezzale dell’anziano padre, vittima di una delicata frattura al femore. “Non mi devi niente, cara” aveva insistito la mia collega “tenerla aperta e farle prendere aria, è già un grande favore”.

Non me lo sono fatto ripetere due volte.

Quella che lei aveva chiamato ‘bungalow’ era risultato essere, in verità, un grazioso villino indipendente a un solo piano, piuttosto isolato, che dava direttamente sulla spiaggia. Un arredamento essenziale, ma funzionale. Un’ampia veranda, con un lungo e robusto tavolo di legno grezzo, sedie e comode sdraio. Un sogno. “Potete anche lasciare tutto aperto di notte, e godervi il fresco. Tranquilla, non è mai successo niente”.

Io, invece, preferivo addormentarmi con la porta chiusa. Mauro aveva iniziato a muovere i primi passi giusto due mesi prima, e non perdeva occasione per avventurarsi alla scoperta del mondo, camminando senza sosta fino allo sfinimento. Proprio quella notte, però, sopraffatta dal gran caldo, mi ero alzata e avevo aperto la porta principale, lasciando chiusa solo la porta a zanzariera. Eravamo lì già da quattro giorni e, in effetti, le notti erano trascorse nella pace di un silenzio quasi irreale, interrotto solo dall’ipnotico, riposante sciabordio delle onde del mare.

Il pargolo, naturalmente, non aveva perso l’occasione e si era dato alla fuga.

Vinco l’impulso di chiamarlo e di raggiungerlo subito, e rimango ad osservarlo. Si muove avanti e indietro, a intervalli regolari. Ride a crepapelle. Presto, capisco il suo gioco: cammina verso il mare e poi, all’arrivo delle onde, corre all’indietro per non bagnarsi i piedi. La sua risata è forte, viva, contagiosa. Sorrido, quasi mi commuovo.

Mauro inciampa e cade. Batte il sedere sulla sabbia bagnata. Un attimo dopo, le onde lo raggiungono. Lui non si muove, salvo allargare e roteare le braccia per i brividi, al momento dell’impatto con la prima onda fredda. Muovo pochi passi verso di lui, lentamente. Non mi ha ancora vista.

Poi si alza. Alla sua sinistra, qualcosa attira la sua attenzione. A circa venti metri, c’è un gabbiano. Becca qualcosa sulla spiaggia: forse un pesce morto, o appena pescato. Mauro lo osserva e, dopo pochi secondi, si muove verso di lui. Cammina piano, intento com’è a studiarne il comportamento. Mi avvicino con cautela, combattuta dal desiderio di osservarlo a distanza e dalla paura che il gabbiano, infastidito, possa reagire male. Quando arriva a pochi passi da lui, l’uccello afferra saldamente il suo pesce col becco e si sposta in volo pochi metri oltre, rimanendo sulla spiaggia. Mauro si ferma solo un momento, poi riprende il suo cammino. Non desiste. Continua a seguirlo a distanza. Sorrido orgogliosa osservando quel temerario, indipendente Indiana Jones in miniatura, con cui condivido gli stessi cromosomi.

E poi mi fermo. Mi blocco. Mi sorprende una sensazione mai provata prima, che fatico a decifrare, combinata a un ricordo lontano, sopraggiunto inaspettato e prepotente, eccezionalmente vivido.

Ho diciannove anni. Sono sulla porta di casa, al paese, giù in Calabria, con uno zainetto sulle spalle. Due valigie sono già in macchina, dove mio padre mi aspetta, le mani sul volante. Saluto mia madre che, silenziosa, non alza lo sguardo da terra. Anche mio padre non proferisce verbo: durante tutto il viaggio fino alla stazione, si limita a fissare la strada, la fronte corrugata, le labbra talmente strette da apparire bianche. Era già stato detto tutto nei giorni passati. Non vogliono che io mi trasferisca a Roma a studiare – e non per lo sforzo economico da affrontare. Non capiscono la mia smania di partire, di lasciare il paese, un futuro comodo, già pianificato: il lavoro nell’Alimentari di famiglia, il matrimonio, i figli… Non capiscono che proprio quell’orizzonte ristretto mi angoscia, mi toglie il respiro, mi tarpa le ali. E io gli sbatto in faccia la mia fame di vivere; ostento fermezza, indifferenza alle loro proteste. Non senza una punta di sadismo. ‘Sono giovane, è nell’ordine delle cose’, penso. Voglio spiccare il volo.

Con le valigie nelle mani, ferma sulla banchina, in attesa del treno, mi giro e vedo mio padre, fermo sulla soglia della sala d’aspetto, e ho un tuffo al cuore. Sul suo volto non leggo più un muto e stolido rimprovero. C’è altro. La bocca semiaperta, la lieve piega amara dipinta sulle labbra, gli occhi socchiusi… Non ho bisogno di uno specchio per sapere che l’espressione di sgomento di mio padre è la stessa disegnata sul mio volto, quindici anni dopo, su questa spiaggia del sud pontino, a pochi metri da mio figlio, pronto a lanciarsi da solo contro un’onda ribelle o un gabbiano affamato. Ripenso al volto di mio padre, quel giorno, e mi viene da piangere.

La rincorsa al gabbiano termina presto: l’uccello abbandona il pesce sulla riva e si alza in volo; descrive un arco sopra le onde e si allontana, fino a sparire dalla nostra vista. Mauro si volta e solo allora si accorge della mia presenza. Sono a pochi passi da lui. Non è sorpreso di vedermi.

“L’uccello...”

“È un gabbiano”

“Gabb...iano. Volato via. Perché?”

La risposta mi muore in gola. Mi piego sulle ginocchia, lo abbraccio, gli accarezzo la guancia, i capelli umidi.

Mi alzo, gli offro la mano e, in silenzio, ci avviamo verso casa.

marcogaletto1968@gmail.com