FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 60
marzo 2022

Luna

 

VARIAZIONI

di Elena Soprano



“Un tipo assurdo,” disse alla sua collega “più basso di me, i capelli rossicci e non sa nulla di pittura.”

“Gli assurdi sono i migliori. E poi, perché no?”

Perché Anna non faceva nulla che potesse alterare lo status quo delle cose. Lavoro, spesa, parrucchiere, dentista, meccanico: manutenzioni di ordinaria routine di una vita da single.

Osvaldo era cuoco in un self service. Non aveva niente della raffinatezza o dell’ambizione dello chef, calcolava dosi e tempi di cottura giusti, organizzava menù non troppo fantasiosi ma bilanciati dal punto di vista nutrizionale. Anche lui oltre i cinquanta, non cercava appuntamenti on line, non frequentava palestre. Non era tipo da incursioni nelle vite altrui: era convinto che prima o poi il caso gli avrebbe portato qualcosa di buono. E che, al momento opportuno, il caso poteva essere aiutato.

Le rubò il numero di telefono. Il suo medico era in ferie, si era rivolto al sostituto nel paese vicino. Anna, alta, magra, con un suo stile di eleganza sportiva, i capelli vaporosi intorno al viso, non l’aveva degnato di uno sguardo. Immersa nel display dello Smartphone, era entrata per la visita dimenticando una cartellina rosa. Lui, d’istinto, l’aveva aperta: c’erano i documenti del finanziamento per una nuova auto. Fotografato il numero di telefono, era uscito, senza aspettare il suo turno. L’aveva chiamata due giorni dopo, Anna era stata cordiale, ma niente di più. Non era seccata, o lusingata per il fatto che l’avesse rintracciata. Sembrava sospesa rispetto agli eventi e sul corso che avrebbero potuto prendere. E quando lui l’aveva invitata al ristorante, lei aveva accennato a un precedente impegno.

La settimana dopo, ci aveva riprovato. Anna aveva rilanciato, invitandolo invece a un vernissage, una mostra dedicata alla luna: “Variazioni“. Venticinque artisti avevano realizzato una tavola ispirata a un’immagine del cinema, quella della luna con il razzo nell’occhio di George Méliès .

“Sabbia e china,” aveva detto a un certo punto lei “guarda che effetto, se ti allontani un po’, sembra gonfiarsi.”

“Se non mangio qualcosa, non chiudo occhio” aveva replicato lui. Avevano guardato i quadri per più di un’ora, letto le didascalie, i testi di spiegazione. Si erano ritrovati fianco a fianco, lui l’aveva percepita glaciale, eppure vicinissima. Camminarono un centinaio di metri per arrivare a una pizzeria coi tavolini sul marciapiede. Anna ordinò un tè. Senza limone, sena zucchero. Nell’attesa riparlò della mostra. Era molto abile a intrattenere una conversazione senza rivelare niente di personale.

“E ti vedi con qualcuno?” domandò Osvaldo tagliando la pizza con doppia mozzarella, senza guardarla in viso, sbrigativo.

“Orologi.” stava per rispondere. Aveva una collezione, ereditata da una zia. Ma, come al solito, non disse niente. Ripensò al suo sogno ricorrente: si affacciava su un acquario senza coperchio e senz’acqua. Sul fondo c’erano minuscole anatre. Una camminava con le zampe a ventosa sulla parete di vetro, percorreva il bordo e quando le era sotto il naso apriva il becco senza emettere suono. E ogni volta Anna si svegliava con questa frase che le galleggiava in testa: “Quando hai smesso di sognare?”.

Passarono un’altra ora in tentativi di conversazione, in un ping pong tra elusione e prevedibilità.

“Dai che ti accompagno,” fece Osvaldo infine “ho la macchina più avanti.” Aveva una carica di ingenuità che rasentava l’entusiasmo.

Pur non volendo dimostrarsi scortese, Anna non disse né sì né no. Continuò a parlare di pittura, sforzandosi di non guardare un neo sotto l’occhio che le ricordava qualcuno di molti anni prima. Arrivati all’auto, il cuoco si rese conto di non avere più le chiavi.

“Eppure….” borbottò frugandosi nelle tasche.

Anna si zittì stringendo gli occhi, all’erta.

“Mi chiederà di venire da me”, “Penserà che le chieda di andare da lei,” pensarono all’unisono varcando il limite di una possibilità che entrambi si diedero tempo per interpretare.

“Un bel guaio, dovrò chiamare un taxi.” continuò Osvaldo che abitava a venti chilometri di distanza.

Anna cominciò a sentirsi più rilassata.

Per un istante rivide l’anatra con le zampe a ventosa del suo sogno.

“Al suo posto prenderei a calci questa auto a fianco.” le uscì d’un fiato, senza cautela.

“Sarebbe peggio perdere il portafoglio.” disse Osvaldo con voce paziente, per nulla sorpreso da questo cambio di registro.

Fu lui ad accompagnarla in taxi e darle il suo numero di telefono. “Bello qui” disse lasciandola al portone, pensando alla partita di carote surgelate che gli avrebbero consegnato la mattina seguente. Anna in ascensore ripensò alle venticinque lune. Le era piaciuta più di tutte quella con il razzo che, sbagliando traiettoria, aveva mancato il bersaglio, mostrando entrambi gli occhi della luna e le sue pupille a forma di ippocampo.

Aprì la porta. C’era uno strano silenzio, la pendola della sala si era fermata. Respirò. Le sembrò che l’aria avesse un sapore diverso da quello di casa sua. Dalla strada provenivano rumori di auto, voci di passanti. Il cielo era coperto quasi a trattenere ancora un po’ l’immagine di quell’uomo. “Osvaldo di luna” si disse sorridendo. Forse, l’avrebbe chiamato.


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