FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 56
settembre-dicembre 2020

Caos

 

LA POESIA DI ALEJANDRO SEBASTIANI VERLEZZA

di Carmen Verde Arocha e Francesca Saltarelli



Partire verso un’altra lingua
di Carmen Verde Arocha

Tanti uccelli partono per non tornare
Phillippe Jones


Nella tradizione poetica venezuelana sono particolarmente interessanti gli autori che hanno coltivato una relazione stretta, quasi intima, con la voce di altre lingue. Parlare e pensare in altro idioma ne ha completato la formazione permettendo loro di leggere la poesia degli autori classici e d’avanguardia di culture diverse. Nel XIX secolo poeti come Andrés Bello, Juan Antonio Pérez Bonalde e, nel XX, Guillermo Sucre, Rafael Cadenas, Alfredo Silva Estrada, Verónica Jaffe, Márgara Russotto, Hanni Ossott, Ana María Del Re, Rowena Hill, Adalber Salas Hernández, Gina Saraceni, Erika Reginato, Claudia Sierich, Geraldine Gutiérrez-Wienken, fra gli altri, hanno trovato – nella traduzione di libri di poesia – la strada per esplorare nuove forme poetiche e rinnovare la propria scrittura. Ricordiamo, per esempio, Alfredo Silva Estrada, che fece della traduzione ciò che ebbe a definire la sua seconda pelle.

Anche il nostro interesse è rivolto ai poeti venezuelani che parlano una seconda lingua, ereditata dai genitori, per la maggior parte immigranti che arrivarono in Venezuela a metà del XX secolo. In questo caso ci soffermeremo in particolar modo sui figli di italiani. Penso a Vicente Gerbasi, Márgara Russotto, Ana María del Re, Gina Saraceni, Carmen Leonor Ferro, Erika Reginato, fra molti altri, affratellati da una stessa lingua ancestrale, familiare sin dalla prima infanzia, che consciamente o inconsciamente li restituisce alle loro radici, a un’origine da cui possono andare e venire continuamente. In questo senso, Alejandro Sebastiani Verlezza, autore di tre raccolte: Posdatas (2011), Canción de la encrucijada (2016), Partir (2018) appartiene ad entrambi i gruppi che ho menzionato: è poeta-traduttore e poeta figlio di immigrati italiani.

Le precedenti pubblicazioni di Alejandro Sebastiani Verlezza, e ancor più significativamente la raccolta di poesie Partir, confermano l’autore come una voce singolare fra quelle della sua generazione, in questo secolo iniziato due decenni or sono: la sua parola, consapevole e riflessiva, si muove, si sposta verso le radici italiane senza però indulgere – a lungo, nella scrittura – sulla nostalgia per l’assenza del padre – Gerbasi-Reginato –, o sulla malinconia che scaturisce dalla consapevolezza del perché bisogna partire – Russotto-Ferro –.

Sul risvolto di copertina della raccolta le parole dell’autore sono esplicite: «In Partir faccio un elogio del movimento, dei percorsi, dei sentieri e delle strade, quelle che si vedono e quelle non tanto chiare, quelle che traccia il desiderio e quelle che improvvisamente svaniscono. Mi inquieta la visione di quelle strade, la loro imminenza, il loro confine e la loro distanza ».
Mentre leggo questa citazione non posso fare a meno di accostare alcune parole del poeta Jean Arp, dicono: «Non possiamo intenderci nel linguaggio interiore se non con gli uomini che incontriamo sui confini, i confini delle cose».

Oltre a far riferimento alle implicazioni politiche e sociali – a proposito degli immigranti che giunsero nel paese nel dopoguerra e dei migranti di questi ultimi dieci anni, i cui dolori sono ben presenti nel testo – in Partir Sebastiani Verlezza riflette sulla lingua degli avi e dei parenti italiani e la ritrova con singolare lucidità: dialoga con loro mentre vanno e vengono e in quel movimento, spostamento, lungo strade e sentieri, come dice assai bene il poeta, ci avverte di quel passaggio che esiste fra disillusione e consapevolezza: «… corro verso di me / ma non mi trovo / – o così pare –/ mi cerco in altra lingua / una che mi parla solo quando vuole». E conclude: «– nessuno sa come suoni questo mistero –/ perché sentire ciò che non posso del tutto è la fortuna …». Alcuni decenni prima Márgara Russotto sembrava replicare: «quando ormai me ne andavo/quando appena incominciavo a capire ».
María Zambrano è ancor più precisa: …il poeta «continua ad attendere il dono, tranquillo. E quanto più passa il tempo meno sa decidersi a partire. E quanto più rimanda, tanto più il regalo sognato torna indietro, si dissolve, si strugge, torna a fondersi per quanto può con la nebbia da cui è emerso».

La parola di Alejandro Sebastiani Verlezza, la sua poesia, Partir, proclama lo stupore del poeta dinnanzi all’amore, la vita, la malattia, per questo si dissolve ma poi riaffiora nel ritorno, nella vita che rinasce, nel movimento del viaggio, sebbene si resti nello stesso posto: «il paesaggio è lì / –sempre in movimento – sebbene a volte voglia vederlo fermo».
Partire è forse una metafora della disillusione per l’incontro mancato. In spagnolo partir significa anche dividere. E allora, come riunire ciò che è stato diviso?
Questa seconda accezione allontana il significato del verbo partir da quello dell’intransitivo ir (andare): può forse partire ciò che è in pezzi? Come fare affinché ciò che è diviso torni a essere unità per intraprendere il viaggio? Solo colui che parte è diviso, si mette in viaggio alla volta di se stesso per ritrovarsi nell’unità.
Nella poesia che dà il nome alla raccolta, «Partir», si legge: «lasciare la stanza vuota / i muri più bianchi che mai/ ». Bianchi come il mare che viene evocato in tutte le liriche: «chi son quelli che se ne sono andati? / – dove sono? –/ coloro che seppero legarsi all’albero maestro?/ dove vivono?/ in quali acque?». Versi che evocano Enea, Omero ma anche Orfeo: «ti prego / non farmi voltare / non farmi voltare ». Partire verso un’altra lingua reca in sé la possibilità dell’amore. L’amore che fa tremare quando entriamo e viaggiamo nell’altro o lasciamo che l’altro entri e viaggi attraverso di noi. Quel tremito di anticipazione cui allude Sebastiani Verlezza, che si avverte alla vigilia di un viaggio, non è diverso dal tremito che scuote l’infanzia, a mano a mano che si cresce e le persone care, i nonni, o gli zii incominciano ad andarsene. Viaggiamo sempre in attesa di ciò che accade dall’altra parte, come nel film Ai confini del paradiso del regista turco-tedesco Fatih Akin. Dall’altra parte della nostra voce, dopo aver attraversato l’oceano: «lunga e più che lunga è la strada verso la distanza», dice Alejandro. E il poeta Alfredo Silva Estrada sembra rispondere dai confini, con la poesia intitolata “Antes de partir”, prima di partire: «Prima di partire / Non fermarti a guardare / Le lenzuola in disordine /E quel bicchiere/ Da cui tante volte s’è bevuto/Cerca piuttosto / gli orizzonti da intessere come fili di lana/ Gli uccelli che mangiano sulle spalle dei ciechi /E che questa rotta ti conduca / Come una scrittura».

Celebro la forza di questa voce, la voce di Alejandro Sebastiani Verlezza, la voce al di qua e quella al di là. La voce che intraprende il viaggio e fa ritorno accompagnata da altre voci, come quelle che tanto turbavano Enriqueta Alverlo Larriva nella sua raccolta La voz aislada. Eppure in Partir le voci che s’aggiungono non arrecano turbamento, sono familiari. Il registro quotidiano, quasi colloquiale, ci confonde, ci costringe a rileggere più volte. Sebastiani Verlezza, affratellato alle voci dei poeti figli di italiani, è anche debitore di due grandi della poesia venezuelana, creature che se ne sono andate e ora sembrano tornare: Alfredo Silva Estrada e Enriqueta Arvelo Larriva. La poesia di Alessandro Sebastiani Verlezza ne è la conferma, Partir ne è la dimostrazione.




POESIE DI ALEJANDRO SEBASTIANI VERLEZZA
da Partire
[Partir, Oscar Todmann Editores, Venezuela, 2018]


PARTIR

(lado a)

dejar la habitación en cero
los muros más blancos que nunca
ahora están llenas de basura las maletas
solo queda meterles candela
y abandonarse a la paz de lo blanco

quiero ajustarme ya en el centimetraje
saber de qué sobras puedo deshacerme
–nada del otro mundo–
la partida ya comenzó
hoy me impuse conquistar la lentitud

mirar
mirar o no mirar hacia dentro
es recibir la inaudita frecuencia del día
y sus corrientes sonoras

del resto
solo asumir el jubiloso ejercicio de la resta

partir
partir

solo partir

así sea solo en la sensación

pero partir
partir
ya

(conversa con Adalber,
quien suele decir:
al hablar siempre partimos)


PARTIRE

(lato a)

lasciare la stanza vuota
i muri più bianchi che mai
ora le valigie son piene di resti
non c’è che da bruciarle
e abbandonarsi alla pace del bianco

voglio adattarmi al centimetro
sapere di che avanzi posso disfarmi
– niente dell’altro mondo –
la partita è già iniziata
oggi mi impongo di conquistare la lentezza

guardare
guardare o non guardare dentro
è captare l’inaudita frequenza del giorno
e le sue correnti sonore

di ciò che avanza
solo accettare il gioioso esercizio della sottrazione

partire
partire

solo partire

anche solo la sensazione

ma partire
partire
ora

(parla con Adalber,
che è solito dire:
parlando partiamo sempre)


(lado b)

partir
siempre será necesario
aún con el asedio de la llegada encima
como esos buques
casi inmóviles
desdibujados en el fondo de un paisaje vibrante
“no hay aturdimiento
si lo remoto del sol aparece en la lejanía”

dar el paso –óyeme bien–
sin descifrar si estamos ante una huida
sin muchas ganas de esperar las señales del adiós
solo un gusto por la encrucijada
el liviano y ancestral deseo
de ponerse en el camino una y otra vez
esa será la guía
no sed de éxodo
sino vivacidad ante el porvenir

partir

hacerlo ya mismo
livianamente
sin turbación
solamente con el viento y sus mensajes cifrados como guía

partir aquí
o donde sea
partir
partir pero ya
así sea hablando solo

y quedarse
agolpado
en
la
fiebre
quieto
muy quieto
ante las huellas de humo
que no solo aturden ni amagan con seducir
y provocan algo parecido a la embriaguez
no de amor
–claro que no–
sino de asco
temeroso y clásico asco
de ese que se aprende en calles polvorientas
y conversaciones interminables
barras inhóspitas
–casi horca–
allá
lejos
muy lejos del suelo sin melodía


(lato b)

partire
sempre sarà necessario
seppur con addosso l’assedio dell’approdo
come quelle navi
quasi immobili
confuse sullo sfondo d’un paesaggio vibrante:
“ non offusca la vista
il sole remoto in lontananza”

fare il passo – ascoltami bene –
senza voler capire se si tratta di una fuga
senza gran voglia di attendere i segnali dell’addio
solo per il piacere del crocicchio
leggero e ancestrale desiderio
di mettersi in cammino, ancora e ancora
non sete d’esodo
ma irrequietezza rispetto al futuro

partire

farlo adesso
leggermente
senza turbamento
solo il vento alla guida e i suoi messaggi cifrati

partire qui
ovunque sia
partire
ma partire ora
anche solo parlando

e restare
costretto
nella
febbre
calmo
molto calmo
nella scia di fumo
che non solo ammicca od ottunde
ma provoca qualcosa di simile all’ebbrezza
non d’amore
– no di certo –
ma di nausea
impacciata e classica nausea
di quella che s’impara nelle strade polverose
conversazioni interminabili
bar inospitali
– quasi un patibolo –
laggiù
lontano
molto lontano dalla terra senza suono


VARIACIONES

(lado a)

marcharé
largamente
sin anhelos
ni gallinas asfixiadas en las aceras
es que por aquí lord
tampoco atiendes el teléfono
y siempre escuchamos el jodido
WRONG
WRONG NUMBER
tú lo sabes
la vida sigue en su melodiosa opresión
pero siempre hay manos
que saben descargar su peso en esta jaula
es que a fin de cuentas
–también te lo habré dicho alguna vez–
tú eres casi siempre la misma
sorda   salada
sin puertos
solo a veces cálida en tu amargo abrazo de poste

las tabernas se me volvieron tan pequeñas
y solo me salva el cuerpo que ya sabes
pero las ganas de huirte
siguen ahí
lord
intactas
porque ahora sé que partir y quedarse es casi lo mismo


VARIAZIONI

(lato a)

Me ne andrò
lungamente
senz’aneliti
né galline strangolate sui marciapiedi
è che da queste parti lord
non rispondi nemmeno al telefono
sentiamo sempre quel maledetto
WRONG
WRONG NUMBER

tu lo sai
la vita prosegue nella sua melodiosa oppressione
ma ci sono mani che sanno sempre
come scaricarne il peso in questa gabbia
in fin dei conti
– te l’avrò pur detto qualche volta –
tu sei quasi sempre la stessa
sorda   salata
senza porti
solo talvolta affettuosa nel tuo vizzo abbraccio d’amarezza

così strette mi stanno ora le osterie
mi salva solo il corpo che tu sai
ma la voglia di sfuggirti
è sempre lì
lord
intatta
perché ora so che partire o restare è quasi la stessa cosa


(lado b)

y si no estás
porco dio
apenas esta lánguida fumada me rescata

hago como si me deslizara sobre tu piel
aguanto el tremor de los dedos


(lato b)

e se non ci sei
porco dio
a stento mi salva questa languida boccata di fumo

fingo di scivolare sulla tua pelle
trattengo il tremito delle dita


RITORNELLO
(2013)

cambiar tierras siempre entusiasma
pero a los pocos días
me descubro igual
–el mismo no sé qué–
entonces
coño
me pongo ante el muro
empiezo con el dedo a intentar la rasgadura
y me devuelvo
y soy el mismo
aquí o allá
en la playa helada
o la montaña
en este solo y curtido camino
lejos pero no tanto
hasta que vuelve la cosquilla de la fuga

(2016)

doy otros giros
vuelta y vuelta
hasta que me suelto
y caigo largo
y no pasa nada
no hay sombras
ni pasos
–me resigno– a
hora soy animal de fijeza
y ya no persigo
solo espero
el momento justo

caerás en la red
mientras sueño tu atajo


RITORNELLO
(2013)

cambiar terra sempre entusiasma
ma dopo qualche giorno
mi scopro uguale
– lo stesso non so cosa –
allora
cazzo
mi metto davanti al muro
inizio con il dito a cercare la fessura
e torno
e son lo stesso
qui o là
sulla spiaggia gelata
o la montagna
su questa strada sola e navigata
lontano ma non troppo
finché non torna il prurito della fuga

(2016)

faccio altri giri
uno via l’altro
finché mi lascio
e cado lungo
e non succede niente
né ombre ci sono
né passi
– mi rassegno –
ora sono animale da ferma
non più inseguo
solo attendo
il momento giusto

cadrai nella rete
mentre sogno la tua scorciatoia


PAISAJE

llegué
y no me fui
–esa es la verdad–

llegué y no me di cuenta
pasó el ventarrón
llegué y no he dado mi mejor paso

llegué y arranco
–largo camino sin perfumes–
no hay cíclopes
no hay mástil

todo
todo lo barrieron

incendiaron los mercados
secuestraron los cofres

llegué y no vi humo
ya no había esposa
ni pretendientes
el perro cojeaba
el mendigo alzó la botella
y me quiso cortar la cara

–se lanzó al mar–
–se lanzó al mar–

llegué y me vi en las ruinas de la casa
todo olía a sangre
cloro         anestesia

nadie
nadie reconoció la cicatriz
trizas el lecho
los hilos
aquella luz
los restos del banquete
la miel y
los huesos relamidos
los platos quebrados de felicidad
el arpa rota
polvorienta
mi suelo en baile de moscas

Llegué y te veo solo a ti
encrucijada
solo tu asedio
gramo de caos

llegué
y el hijo no es hijo

–él también se lanzó–

–él también–

llegué sin dioses ni lengua
llegué y poco vi de mí
tálamo polvoriento
toser y toser
esa fue la emboscada
sacudir telarañas
barrer y barrer bichos muertos

–mi cuerpo contra mi cuerpo–
–ni el puño tuve que alzar–

llegué así
isla
así llegué
sin garra ni estocada
solo la gana en vilo
viruta
astilla
despojo llegué

y se asomó un trozo de horizonte

¿me lo dejé robar?

no sé si habrá camino de vuelta
no sé si habrá algo parecido
no sé si habrá algo más que esto yermo

tanto mareo
tanto mareo
tanto para escapar sin escapar

porque ya no hay espera
solo el consuelo de esta terca pobreza



(los ecos de la tripulación y su llanto regado ahora mismo por los oídos del mundo)


PAESAGGIO

approdo
e non ero partito
– questa è la verità –

approdo e non capisco
calato è il vento di tempesta
approdo e non è stato il mio passo migliore

approdo e arranco
– lunga strada senza profumi –
non ci sono ciclopi
né albero maestro

tutto
tutto hanno spazzato via

hanno incendiato i mercati
hanno rubato gli scrigni

approdo e non vedo fumo
non c’era più la sposa
né i pretendenti
il cane zoppicava
il mendicante brandiva la bottiglia
voleva tagliarmi la faccia


– si è gettata in mare –
– si è gettata in mare –

approdo e mi vedo fra le rovine della casa
tutto aveva odore di sangue
cloro         anestesia

nessuno
nessuno ha riconosciuto la cicatrice
in pezzi l’alcova
i fili
quella luce
i resti del banchetto
il miele e
le ossa spolpate
i piatti scheggiati di felicità
l’arpa rotta
polverosa
la mia terra in una danza di mosche

approdo e vedo te solo
crocevia
solo il tuo assedio
misura del caos

approdo
e il figlio non è figlio

– anche lui si è gettato –

– anche lui –

approdo senza lingua né dèi
approdo e vedo poco di me
talamo polveroso
tossire e tossire
quella è stata l’imboscata
scuotere ragnatele
spazzare e spazzare insetti morti

– il mio corpo contro il mio corpo –
– neppure il pugno ho levato –

approdo così
isola
così approdo
senz’artiglio né stoccata
solo la voglia inquieta
truciolo
scheggia
spoglia approdo

e s’affaccia un pezzo d’orizzonte

me lo lasciai rubare?

non so se ci sarà ritorno
se ci sarà qualcosa che assomigli
se ci sarà soltanto questo desolato posto

così tanta vertigine
così tanta vertigine
così tanta per fuggire senza fuggire

perché non c’è più attesa
solo il conforto di quest’ostinata miseria



(gli echi dell’equipaggio e le sue lacrime or ora versate per le orecchie del mondo)


Traduzione dallo spagnolo di Francesca Saltarelli




Alejandro Sebastiani Verlezza
è nato a Caracas (Venezuela), dove vive, nel 1982. Poeta con incursioni nelle arti visuali, saggista e professore presso la Escuela de Letras de la Universidad Central de Venezuela.
Ha pubblicato i libri di poesia: Posdatas (2011), Canción de la encrucijada (2016), Partir (2018), Los hilos subterráneos (2020) e il diario Derivas (2013). Suoi testi sono stati inseriti in diverse antologie.

 

 

 


carmenverdearocha@gmail.com saltarellifrancesca190@gmail.com

(Foto di Carlos Germán Rojas)