FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 56
settembre-dicembre 2020

Caos

 

I CINQUANT’ANNI DI UN MITO
Nel gennaio del 1970 al Sistina di Roma
esordiva Orfeo 9 di Tito Schipa jr

di Marco Testi



Il 23 gennaio di cinquant’anni fa il Sistina di Roma ospitava un evento unico, non solo perché si trattava della prima opera rock italiana, ma in quanto prima opera di questo tipo ad essere messa in scena in assoluto. Un record tutto italico, quello di Orfeo 9 di Tito Schipa jr, anche se il nostro tic di seguire mode e tendenze talvolta ci porta a ignorare quello che di bello è accaduto – e accade, perché è in corso di preparazione Gioia, il nuovo progetto di Schipa –, nel Belpaese.

Perché in realtà, Orfeo 9 detiene diversi record: a un festival del Cinema di Venezia, di cui parliamo nell’intervista a Tito Schipa, ad esempio, gli è stata tributata una lunga standing ovation. È riuscito ad assemblare quando ancora non se ne parlava, Renato Zero e Loredana Bertè, ma anche musicisti del vaglio di Bill Conti (autore della colonna sonora di Rocky), Santino Rocchetti, Tullio De Piscopo e molti altri. Non solo: nonostante l’età, Orfeo 9 non mostra rughe profonde. Eppure narrava una comune sessantottesca, il tentativo di vivere una vita fuori dai meccanismi borghesi, l’amore liberato dai calcoli o dalle strettoie dei fidanzamenti ufficiali, del rientro alle otto, della perpetuazione di un modo di vivere ripetitivo. Era parte di uno spirito che si esprimeva grazie a quelle voci, a quei dialoghi, a quei vagabondaggi tra periferie industriali e asfalto. E che non era però una riproposizione di schemi alla moda. C’era altro dietro. Qualcosa di più profondo e svincolato dai conformismi, anche quelli nascosti negli anticonformismi. Il discorso del volere per volere – quando si ha già accanto la promessa degli dèi –, e poi, accorti dell’errore, del restare avvinghiati ad un passato che non può tornare, vivere con la testa girata indietro, si collega direttamente agli archetipi mitici, biblici, orientali ma anche ad alcune riletture che in Occidente hanno operato poeti come Rainer Maria Rilke o Cesare Pavese. La poesia – è questo il caso di Orfeo 9, (il fatto che formi un tutt’uno con la musica e il canto viene da molto, molto lontano, e dovremmo parlare di Grecia, Roma, Provenza e Dante) si è impadronita del dolore e del rimpianto di qualcosa che è già stato nostro. E, a modo suo, ha sciolto l’enigma:

      Era radice ormai.
      E quando a un tratto il dio
      La trattenne e con voce di dolore
      Pronunciò le parole: si è voltato-,
      lei non comprese e disse piano: Chi?

Il Rilke dei Sonetti a Orfeo ha osato l’inabissamento nella duplice, infelice coscienza, quella di un Orfeo che improvvisamente, mentre sta riportando sulla terra dei vivi la donna amata, nel lungo cammino d’Averno, intuisce l’abisso del senso reale, e non del suo sogno: Euridice non c’è più, al suo posto una creatura nuova e figlia dell’altrove, e allora comprende che deve girarsi; d’altra parte lei è ormai un’altra: non sa neanche perché sta risalendo verso un altrove che ignora, dalla pace della pianta, dell’acqua, di una nuova esistenza. Il poeta ha risolto il dilemma del cercatore di un’immagine inesistente: deve risvegliarsi nella piccola-grande morte del lasciar andare la persona amata un tempo.

L’Orfeo di Tito Schipa è un passo temporale, il tempo d’Orfeo, indietro, colto nel momento del rimpianto, del senso di colpa, della tristezza di non possedere più qualcosa che aveva nelle mani quando il Venditore di felicità (un magnifico Renato Zero) glielo ha spacciato come modo falsamente nuovo di essere più felice. I cori che accompagnano questa sua descensio ad inferos, gli amici, l’amore perduto, il velo della statua costruita nel sé che scende lentamente a mostrare la nuda verità del nuovo nulla che lo attende, le musiche che non cercano di accattivarsi l’empatia del pubblico di allora con concessioni al beat ormai al tramonto, al rock, al sentimentale smielato, ma con una rigorosa autodeterminazione creativa, fanno di Orfeo 9 un monolite che non ha servito gli idoli del genere, le mode, gli ismi. È una singolarità, diremmo in termini scientifici, in un panorama che pure ha visto Jesus Christ Superstar e Tommy. Che sia nostrano non vuol dire che sia tributario di qualcuno di quegli pur splendidi episodi. Scritto nel 1969, divenuto lp doppio nel 1973 dopo l’esordio in uno dei templi dello spettacolo musicale italiano d’allora (il grande e compianto Giggi, con due g, ha fatto il suo debutto qui, come qui sono passati Armstrong, Bacharach, Liza Minnelli, senza dimenticare le scene di Rugantino e West side story) , il Teatro Sistina del 1970, poi film rai messo in onda nel febbraio 1975, oggetto di censure da prurito epocale (droga, vivere promiscuamente in una comune qui in Italia ecc ecc) e ora cofanetto prezioso – vedi la nota bibliografica qui sotto – per la storia dell’opera rock internazionale (pur essendo costata pochissimo ai tempi) Orfeo 9 è davvero una pietra miliare. Che ancora oggi indica la via della resistenza all’ovvio e alla moda attraverso semplicemente la capacità di cogliere e rivelare lo spirito del tempo.



Orfeo 9 oggi è triplo dvd, realizzato da Ermanno Manzetti, prodotto dall’Associazione Culturale Tito Schipa, "associazione@titoschipa.it" 2015. Contiene oltre al film restaurato, un commento audio di Tito Schipa jr, sottotitoli in italiano e inglese, lo spettacolo teatrale originale al Sistina, un documentario e altri materiali (compreso un libretto di 48 pagine).




INTERVISTA A TITO SCHIPA JR


50 anni di Orfeo 9. Chi lo rivede oggi rimane colpito, fatta giustizia dei mutamenti inevitabili cui Crònos ci ha condannati, dalla sua attualità. Dalla capacità di attraversare indenne le umane ere. Dello stesso avviso è stato il pubblico del Festival del cinema di Venezia che nel 2008 gli ha tributato una lunga standing ovation. Che si prova ad aver creato qualcosa che sembra destinato a rimanere finché il sole sorgerà sulle umane vicende? Non mi dica che non ne è orgoglioso.

Non posso negare che la cognizione di aver creato qualcosa che resterà (e i segni da parte del pubblico continuano a crescere, malgrado non siamo mai usciti dalla palude della disinformazione) è una sensazione dolcissima. E’ il famoso (famoso per me, perché era stampato sulla copertina di un mio libro scolastico), “Bello doppo il morire vivere anchora”…

Nel cast nomi come Edoardo Nevola, Tullio De Piscopo, Bill Conti (l’autore della colonna sonora di Rocky ndr) , Penny Brown, Santino Rocchetti, e due ragazzini, Loredana Bertè e Renato Zero. E pure qui ha visto lontano. Ci vuole raccontare perché scelse proprio loro?

Nel libro che ho scritto sull’avventura (ORFEO 9 – THEN AN ALLEY, che ha partecipato a uno Strega recentemente) racconto dell’acquario magico che era Trastevere in quegli ultimi anni 60, popolato di creature fantastiche e colorate, tutte segnate dal grande talento e dalla gioia di vivere. Tra loro Renato e Loredana spiccavano per la loro bellezza, il loro coraggio anticonformista, la loro musicalità. Sarebbe stato impossibile non notarli e non coinvolgerli, assieme del resto a una buona parte del cast italiano di Hair, da cui viene quasi tutto il mio.

Qual è il ricordo più nitido della Loredana e del Renato degli esordi?

Il loro navigare per le viuzze di Trastevere vestiti in maniera folle, con una luce tutta loro che sembrava venire da un riflettore teatrale, apostrofandosi forte in romanesco “’a Renà, ‘a Loredà” e sfidando gioiosamente le occhiatacce dei benpensanti…

Ora sta lavorando ad una nuova opera, Gioia, o la gita ai Castelli: vuole anticipare qualcosa ai nostri lettori? E perché quel riferimento così preciso, alla celebre canzone scritta da Franco Silvestri quasi cent’anni fa0?

No, quel Gita va pronunciato Ghita. E’ un riferimento scherzoso (ma non troppo) a un capitolo dei testi sacri indiani, la Bhagavad Gita, ossia Il Canto del Beato, forse il testo che più mi ha colpito tra tutto ciò che ho letto in tema di spiritualità. Su quel frammento è basata la storia che racconto, contemporanea ma in qualche modo sovrapponibile agli antichissimi eventi narrati lì.

Quali sono oggi gli ostacoli che si mettono di traverso a chi vuole continuare un lavoro come il suo, in cui autenticità, ricerca, spiritualità, arte devono fare i conti con un orizzonte assai mutato, fatto di velocità rapace, consumo immediato, ricerca di una visibilità a tutti i costi? L’industria mediatica mainstream corteggia questa attualità fatta di isole di famosi, salotti litigiosi, balla con i grandi ecc, o c’è qualcosa da sperare, in una biblica notte in cui si intuisce qualche luce d’alba?

Dovrei rispondere con una sintesi del pensiero su cui si basa la Gita, appunto. In pratica un invito a combattere rabbiosamente contro ogni ostacolo o nemico mentre interiormente si resta in pace, silenzio e contemplazione, sapendo che ogni cosa dipende totalmente da noi e non dipende assolutamente da noi, contemporaneamente. Il concetto è poi passato nelle basi di tutto il pensiero orientale: “Fai del tuo meglio e non preoccuparti dei risultati, non li puoi in nessun modo prevedere”.


testimarco14@gmail.com