FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 56
settembre-dicembre 2020

Caos

 

LIQUIDÀMBAR – INTERVISTA A CARMEN VILLORO

di Marco Benacci



È uscita in questi giorni per le Edizioni Fili d’Aquilone la raccolta poetica Liquidàmbar, pubblicata in Messico da Mantis Editores nel 2017, scritta da Carmen Villoro e dedicata alla morte del padre, di cui era apparsa un’anticipazione sul numero 51 della Rivista.
Nelle traduzioni di testi poetici è sempre necessario decifrare i giochi dell’autore in maniera di riprodurre al meglio la stessa magia in italiano, evitando di cadere nella tentazione di svelare o ancor peggio dare un’interpretazione al contenuto. Nel caso di Liquidàmbar però la decodificazione e la traduzione sono state veramente singolari, sia per gli infiniti richiami e invenzioni che l’Autrice compie su ogni parola che per l’inevitabile coinvolgimento di emozioni. Per questo è stato fondamentale l’aiuto della stessa Carmen che, con pazienza e gentilezza, ha risposto a tutte le mie domande, chiarendo gli aspetti tecnici e confortando il cuore che temeva di aver smarrito la giusta strada.

Le chiacchierate e le mail intercorse, per uno come me che ha investito una vita intera nei testi letterari, hanno sempre avuto qualcosa di illuminante; da qui (forse proprio dal primo incontro virtuale) è nata l’idea di un’intervista sia per lanciare il libro che per sfruttare l’occasione per parlare di poesia e di vita.
Afferma Carmen Villoro, a un certo punto, che Liquidàmbar è per lei uno spartiacque. Devo dire che dopo questa intervista sento ancora più forte la sensazione che abbia avuto lo stesso effetto nella mia vita di amante della poesia; sono sicuro che avrà lo stesso effetto in tutti coloro che decideranno di percorrerlo, perché «l’esperienza poetica inizia dai sensi, ma si trasforma ben presto in un’esperienza spirituale».

Buona avventura.



La prima domanda riguarda gli innumerevoli giochi di parole presenti in Liquidàmbar. Sono molto curioso di sapere se dietro c’è uno studio particolare o se nel tuo poetare è una cosa automatica.

Mi è sempre piaciuto giocare con le parole, sin da piccola. In modo naturale, il linguaggio se cambi una lettera all’interno di un vocabolo, se inverti le sillabe o se aggiungi un prefisso, ti invita a provare variazioni di significato. Mi viene spontaneo, tuttavia, nel caso di Liquidàmbar, i punti e lo stile delle modifiche sono stati pensati per quelle ripetizioni di strofe che simulano una preghiera. Le frasi si ripetono per conferire la natura di un rituale, ma c’è sempre una parola o un’immagine che cambia per donare qualcosa di nuovo alla strofa.


Nel libro, nell’affrontare una perdita così grande, come quella del padre, c’è un legame molto forte tra la rassegnazione e l’accettazione. Mi piacerebbe sapere che rapporto c’è a livello poetico: in casi come questo, per raggiungere l’accettazione, si deve sempre passare attraverso la rassegnazione?

Si tratta di rassegnazione come “risignificazione”. La poesia ci permette di dare nuovi significati al mondo, di trovare un altro senso agli eventi e alle cose, uno più profondo ed essenziale. L’accettazione della morte di una persona cara passa dalla comprensione che la vita dell’individuo appartiene a un ordine più ampio: la vita che pulsa nella natura.


I componimenti sono pieni di sensi, però spesso ti definisci un «io arido di sensi». Puoi spiegarmi questo doppio “essere” che sembra quasi una contraddizione?

Si tratta dei differenti livelli del senso. La parola poetica è solitamente polisemica ed è grazie a questo che ciascuno le attribuisce un significato secondo la propria personale esperienza emozionale e la propria filosofia. L’io cerca di dare un senso all’esistenza ma non raggiunge mai la certezza.


Senza mai essere palese, in tutta la raccolta si percepisce una costante presenza di sacralità, non solo con riferimenti biblici. Che ruolo ha la religiosità o meglio ancora la spiritualità nella tua poesia?

Sono d’accordo con Octavio Paz quando afferma che l’essere umano ha bisogno del sacro, come ciò che di armonico e di bello hanno gli esseri e le gesta. Il linguaggio poetico rivela la seconda natura delle cose e svela il miracolo. Le religioni hanno una forte dose di poesia. L’esperienza poetica inizia dai sensi, ma si trasforma ben presto in un’esperienza spirituale.


A livello tematico è meraviglioso il rapporto tra gli elementi naturali e le comunità del Chiapas che vi hanno accolto. È solo un espediente poetico o è un qualcosa che hai sentito e vissuto?

Tutto quello che scrivo l’ho sentito e sperimentato. Risponde a una commozione affettiva più che intellettuale. Gli elementi della natura sono inscindibili dall’identità e dalla cosmovisione delle persone di quelle comunità, che mantengono la loro cultura originaria, il rapporto con la terra ed i frutti che essa concede.


C’è un aspetto, evidente soprattutto nella sezione Paura, che mi ha colpito molto: i dolori dell’anima sono fortemente collegati a quelli del corpo. Nella scrittura si affrontano alla stessa maniera?

I dolori dell’anima dolgono nel corpo, hanno bisogno del corpo per essere elaborati. La scrittura cerca immagini e metafore fisiche per rappresentare il dolore morale. In situazioni di sofferenza è impossibile distinguere dove inizia l’anima e dove finisce il corpo. La devastazione annienta l’essere completamente.


Nella sezione Siamo partiti dall’Etiopia ci dici che il cammino della vita di ognuno di noi non comincia con la nascita, bensì con l’inizio della vita sulla Terra. Vorrei sapere che importanza ha avuto Liquidàmbar nella tua esistenza, quale parte del cammino rappresenta. E soprattutto se averlo scritto ti ha dato una maggiore consapevolezza del fatto che il cammino insieme a tuo padre non è ancora finito.

Liquidàmbar è uno spartiacque nella mia vita. Nella mia maturità, la riflessione che mi ha regalato mio padre nei suoi ultimi istanti, mi aiuta a camminare con sicurezza verso la tappa successiva. Hai ragione, scrivere questo libro, continuare a leggerlo e a riscriverlo nella mia mente e nel mio cuore, è una maniera di continuare a camminare al suo fianco.


Ne Il giardino del filosofo, c’è la metafora degli uccelli che sul ramo pretendono di «allontanare l’oscurità». Il libro è un tentativo riuscito di allontanarla?

Le esperienze non hanno solo un tono. Persino nella veglia funebre di mio padre, a cui allude questa poesia, c’è stata allegria e grazia. L’io poetico invita il lettore a scoprire queste venature. L’oscurità si è allontanata, ma ritorna attenuata in ondate di nostalgia e di triste tenerezza.


La poesia può sconfiggere la morte?

No. La morte di qualcuno che ami è ineffabile, non ci sono parole che la possano descrivere o la possano trascendere. Il mio libro è un tentativo incompiuto, un’insistenza goffa ma necessaria.


L’ultima domanda è irriverente. Mi sono sempre chiesto come è possibile sopravvivere a certi eventi della vita. Ti giro la domanda trasportandola alla scrittura: dopo aver scritto un libro così profondo, emozionante, completo, unico e assoluto, perché spingersi oltre, perché scrivere ancora?

Non pretendo che tutto quello che scrivo abbia una condizione di trascendenza. La poesia è, per me, uno stile di vita, qualcosa di naturale come mangiare o camminare. A volte la scrittura si condensa in un libro come questo, nel quale tutto sembra concordare internamente; non succede sempre, ma è impossibile fermarla.




TRE POESIE DI CARMEN VILLORO


*

Sono venuta in montagna
per calpestare la terra che hai calpestato.
Sono venuta per comprendere l’aria di un luogo
come si comprende il sapore di una frutta
per capire lo sguardo di questi uomini
che hai visto e ti hanno guardato
con una luce diversa.

Sono venuta, padre, per scavare la terra
dove mio fratello ha depositato il tuo nome
come chi pianta un seme
affinché cresca il tempo
verso la sua origine.

Sono venuta per portarne una manciata alle mie labbra
e baciarla come si bacia un padre.


*

Davanti all’albero di ambra
rammento il tuo sangue.

La resina profumata che discende
dalla pelle grigia del tronco millenario
redime la sofferenza.


*

Bollivano I fratelli
nell’aprire in due il mare
nel contenere la storia con i loro corpi
affinché non straripasse
sul sentiero aperto
affinché non ci schiacciassero
le loro maree irrequiete
e potessimo passare
fino al loro territorio libero zapatista
fino alla loro tavola
fino al centro del mondo
dove non esiste il tempo
e la speranza è un'orchidea
che pulsa
e pulsa
e pulsa.


Carmen Villoro, Liquidàmbar, a cura di Marco Benacci, Edizioni Fili d’Aquilone, 2020




Carmen Villoro
psicanalista e poeta è nata a Città del Messico nel 1958 ma vive a Guadalajara dal 1985.
Ha pubblicato libri di poesia e di prosa poetica, tra i quali: El tiempo alguna vez (1990), El habitante (1998), Jugo de naranja (2000 e 2008, tradotto in francese e pubblicato in Canada nel 2017), Obra negra (2006), Espiga antes del viento (2011), Liquidámbar (Mantis editores, 2017, Edizioni Fili d’Aquilone, 2020); inoltre scrive testi per cataloghi di artisti plastici e saggi sul processo creativo.
Ha ricevuto il «Premio FILIJ Ensayo sobre Literatura Infantil y Juvenil» nel 1993, il «Premio Jalisco» nel 2016 e il «Premio Internacional Hugo Gutiérrez Vega» nel 2018.
Membro del Sistema Nacional de Creadores de Arte del FONCA, attualmente è membro del Seminario de Cultura Mexicana e direttrice, presso l’Universidad de Guadalajara, sia della Cátedra de Arte, Poética y Literatura «Fernando del Paso» che della Biblioteca Iberoamericana «Octavio Paz».


marco.benacci@live.com