FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 56
settembre-dicembre 2020

Caos

 

LA MEDICALIZZAZIONE DELLA VITA

di Massimo Scialpi



(…) Basta la sirena di una sola ambulanza
per distruggere i sentimenti samaritani di un’intera città (…)

Ivan Illich, Nemesi medica, l’espropriazione della salute


Gli incontri di questo triste periodo “parlano” dello stesso tema; viviamo in una “bolla collettiva” che ci imprigiona. Il terremoto covid ha “scosso” le nostre esistenze, gettando una coltre di nebbia sulla nostra vita quotidiana e sulla nostra anima. Le domande: e adesso? Come aiutarci? Come procedere nel lavoro scolastico? La “malattia” di cui stiamo soffrendo, parafrasando Winnicott, non è che la “normalità” possibile in condizioni patogene (1967); è nell'individuo che tutto questo si combina, si sintetizza e rende ogni personalità unica nel suo soffrire il dolore. In particolare, nei disturbi cosiddetti post traumatici da stress, come quelli originati dall’invasione del virus, ci si deve chiedere quanto il vissuto di sofferenza può essere, per assurdo, utilizzato per ridefinire e tentare un’accurata quanto mai delicata operazione di ripristino delle funzioni psicofisiche, attraverso l’attivazione di tutte le risorse interne della Persona. Ci si confronta con la patogenicità della sofferenza (disturbo della mentalizzazione e parallela compromissione della capacità di riflettere cognitivamente ed emotivamente sull’accaduto), anche se la Persona, sembra un paradosso, anche dopo un disastro del genere, vuole comunque comprendere, dare un senso nonostante la “messa in discussione” di valori, il crollo delle certezze, l’annullamento delle strategie comportamentali non più adeguate alle richieste di un presente assolutamente “senza senso”, “pieno di vuoto” e di silenzi, finanche pieno dell’assenza delle Persone più care, dove si sta sperimentando che tutto crolla e svanisce in un attimo; e le difese non sono più funzionali a nascondere il vero sé, un sé traumatizzato e minacciato da eventi interni ed esterni, di rapporto con le cose della vita che non ci sono più, e che proprio per questo, spesso, si sono trasformate in morte; invece, un’altra modalità reattiva, agisce nel profondo su elementi di “distrazione” e di soluzioni facili che permettono di anestetizzarsi dalla realtà, “ridendo per non piangere”, sdrammatizzando il più possibile la situazione o peggio, facendo finta che non sia successo niente.

A volte, è possibile rintracciare proprio in questo vissuto, appena dopo l’evento traumatico, e cioè nel momento importante in cui chiedere aiuto ed essere salvati da qualcuno significa sopravvivere, forse, il germe del già nell’ancora no a livello di speranza “terapeutica”. Nella relazione interpersonale, per fare un esempio, lo psicologo deve ascoltare ed offrire come risposta il suo tempo, la sua capacità di accoglienza, e la sua attenzione intrisa di comprensione empatica. È in questo tipo di relazione di aiuto che è maturato il concetto del “medico come medicina” (Rogers, 1970). Anche la Scuola, l’Istituzione che per eccellenza rappresenta la “prova del fuoco” proprio perché milioni di studenti, professori e personale scolastico tutto, si incontrano nello stesso luogo fisico, non può sottrarsi agli impegni presi nei confronti dei nostri figli; impegni di carattere educativo, scolastico, formativo, ma soprattutto, non dobbiamo dimenticarlo, profondamente “umano”. È proprio in questo luogo relazionale, in questa terra di confine dove tutto deve ancora accadere, ma dove tutto è già in qualche modo accaduto, che si collocano l’attività, la competenza professionale e la sensibilità umana appunto, del docente. È opportuno, in questo inizio di anno scolastico, focalizzare l’attenzione sulla socialità autentica, che proprio in quanto tale come nei periodi più bui della storia, non ha bisogno o meglio non può abdicare a un tempo infinito e quantitativo, ma deve realizzarsi nell’arco di pochi momenti in cui si sta insieme anche se distanti, con guanti e mascherine, ma con il cuore aperto all’Altro da Sé, con l’anima attenta e in allerta proprio per salvarsi nel salvare l’altro e viceversa.

La vita deve andare avanti, i programmi scolastici devono essere svolti, ma questo non significa “…show must go on”, come se niente fosse, come se non ci fosse un futuro; guai a pensare soltanto alla riuscita formale dell’evento scolastico, o ai risultati tanto attesi senza pensare alle conseguenze emotive e psicologiche dei “non detti” dei ragazzi, sperando che abbiano qualcuno con cui sfogarsi, parlare o scegliere di farlo, in famiglia o tra amici. A casa, per strada, sui mezzi pubblici, nei locali e nelle piazze, la situazione e le reazioni sono le stesse ovunque; cambiano i dettagli, forse a volte importanti, ma la nota dominante è sempre quella, sia che si parli di ciò, sia che si faccia in modo da evitarlo a tutti i costi.

Mai come in questo drammatico frangente storico dell’età moderna, salvarsi significa proteggere se stessi e l’altro; e mai come in questo periodo, si corre il terribile rischio di rinchiudersi nella propria vita, nella propria esistenza, nel proprio microcosmo verso un futuro da monade dove ciascuno pensa a sé, dove ciascuno si “igienizza” nei confronti di tutto il resto, dove ognuno si “anestetizza” rispetto al resto del mondo. L’organizzazione mondiale della sanità, a proposito dei processi relazionali e sociali di questo periodo storico altamente “medicalizzato”, parla di solidarietà e responsabilità. Non si può essere responsabili senza essere solidali, senza aderire ad una visione dell’umanità che porta con sé, sempre e comunque, i germogli di una prossima primavera dell’umanità, dove i vari volti del dolore accompagnano, tracciandolo in maniera significativa, tutto il processo di “ripresa” e il relativo rapporto tra le Persone in modo da elaborare sempre e insieme ipotesi percorribili, plausibili e probabili di risposta (sempre parziali e provvisorie!), agli interrogativi “brucianti” della vita attuale. Il dato inequivocabile di oggi è che ognuno di noi, dal più piccolo al più anziano, in ogni dove, soffre di questa situazione, ognuno a suo modo, e il suo dolore, il suo vissuto di sofferenza, se lo si ascolta, dà le “condizioni” e le “regole” dell’oggi, perché indica come possiamo porci nei confronti dell’attimo storico che ci si trova a vivere; sì, in qualche modo un’etica della Persona, della soggettività ma anche dell’esistere “sociale” seppur in una dimensione parziale, confusa e appunto sofferente.

Karl Jaspers affermava che il meglio di una Persona si vede proprio nelle situazioni limite, dove sopravvivere è Vita, dove chiedere aiuto è la cosa più intelligente da fare, dove stabilire priorità educative, socio-sanitarie e normative non deve mai sostituire lo spirito di fratellanza e di aiuto reciproco che deve animare il senso della vita insieme e della comunità. Etica di un rapporto in cui si garantisce alla Persona di non oltrepassare i suoi “spazi”, di partecipare empaticamente al suo dolore fin quando ne avrà bisogno, e di “assicurare” di fare quadrato nella eventualità che l’angoscia venga fuori in maniera dirompente. Il nostro compito è anche questo, divenire compagni di viaggio “anziani” durante le fasi più buie della vita delle nuove generazioni, per permettere loro di intravedere al più presto i contorni seppur ancora sfumati di un giorno in cui è possibile chiedere aiuto senza per questo sentirsi confusi, umiliati, inadeguati, o ancor peggio “senza possibilità di scegliere” da chi farsi aiutare, in che modo e con quali obiettivi. Ma questa è un’altra storia, o chissà…forse un’altra tappa del percorso collettivo e personale di una comunità ferita nel profondo. Non c’è deroga, il momento è adesso.

massimo.scialpi@gmail.com