FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 55
maggio/agosto 2020

Cenere

 

7 FEBBRAIO 1940

di Marco Galetto



Fiol d’un can d’un pelandron!” tuonò la voce alle sue spalle, stentorea e minacciosa. “Cancaro!”.

Nuccio, ridendo, se la diede a gambe. Attraversò rapido la canonica, terminando la sua corsa nell’attigua chiesa. Lì sapeva di essere al sicuro. E infatti, voltatosi, vide il vecchio Bepi fermo sulla soglia della navata laterale, ansimante e furente.

“Brutto puteo, va in m...”. Il sacrestano, vittima dell’ennesimo scherzo del ragazzino, riuscì a trattenersi: strinse giusto i denti, assentendo platealmente, a monito e promessa di una futura, inevitabile punizione.

Ma Nuccio era tranquillo. Sapeva bene che il vecchio Bepi, grasso e canuto, irascibile e brontolone, non aveva mai punito nessuno. Prima di tornare sui suoi passi, sbuffò e guardò il ragazzino di traverso col suo unico occhio buono (l’altro, giurava di averlo perso sul Piave, durante la guerra, più di venti anni prima).

Nuccio si sistemò su uno dei banchi più prossimi all’altare. Poggiò i piedi sull’inginocchiatoio ed incrociò le mani dietro la testa, in attesa dei compagni di catechismo che, sapeva, di lì a poco sarebbero arrivati. Ed infatti, dopo pochi minuti, questi fecero il loro ingresso dalla canonica a due a due, guidati dalla madre superiora e altre tre suore. Presero ordinatamente posto accanto a Nuccio, occupando solo i primi banchi.

“Vieni qui, tu” fece suor Adalgisa, la catechista, indicando il posto accanto al suo, in un tono che non ammetteva repliche. “E stai composto”.

Nuccio, a testa bassa, si sistemò accanto alla religiosa; alla sua destra sedeva Toni Sperandeo, altro osservato speciale del gruppo, che gli diede il benvenuto con un’affettuosa gomitata d’intesa. Nel frattempo, silenziose e inosservate, le ragazze del coro si erano sistemate dietro l’organo.

Dopo qualche minuto, Bepi uscì dalla canonica, attraversò lento la navata laterale ed aprì il portale della chiesa. I paesani cominciarono a entrare alla spicciolata. Gli uomini, fattosi il segno della croce, si avviavano lenti e guardinghi ai banchi di destra, col cappello ben stretto in una mano; le donne, decise e sicure, austere e silenziose, prendevano posto a sinistra, tenendo poggiato sulle ginocchia chi il rosario, chi la borsetta.

Bepi tornò in canonica, non senza prima aver gettato uno sguardo in tralice verso i primi banchi. Nuccio ricevette un’altra lieve gomitata al fianco “Quello non ti vede di buon occhio, eh?” sussurrò Toni, ammiccando al sacrestano. I due compagni soffocarono una risata

“Buoni voi due!” intervenne suor Adalgisa, la voce come un sibilo, affilata come un rasoio.

In quel mentre, si sentì l’organo, e tutti si alzarono in piedi. Don Giovanni fece il suo ingresso, accompagnato dal diacono e da quattro chierichetti. Fece l’inchino alla grande croce in legno posta nell’abside e poi, rivolto all’altare, iniziò la messa col saluto ai parrocchiani.

Una volta seduto, Nuccio fissò a lungo il loro parroco. Aveva i capelli col riporto e un gran naso aquilino, con un porro enorme giusto al centro: i suoi piccoli occhi scuri, divisi simmetricamente da quella superba escrescenza, gli rammentavano immancabilmente mirino e tacca di mira della Beretta che suo fratello Luigi, orgoglioso e spavaldo soldato della milizia fascista, portava sempre in fondina. Quel prete sarebbe apparso oltremodo buffo, se non fosse stato per quella sua voce forte, tenorile, per quella sua postura eretta e l’aria serafica, che comunicavano ai suoi interlocutori autorevolezza e dignità. In quel frangente, coi paramenti viola di inizio Quaresima, don Giovanni appariva ancora più solenne e ieratico.

Seguirono tutti in rispettoso silenzio i passaggi liturgici, fino al rito delle Ceneri.

Ad un cenno concordato delle suore, i ragazzi e le ragazze del catechismo si disposero ordinatamente in fila ai piedi del presbiterio mentre don Giovanni, aspergendo l’acqua santa, benediceva le ceneri, ricavate dalle palme d’ulivo consacrate dell’anno precedente.

Il diacono fece oscillare il turibolo dell’incenso e, dopo pochi secondi, il suo profumo caratteristico invase prepotente le narici dei parrocchiani; nel frattempo don Giovanni, accompagnato da due chierichetti, segnava con la cenere i primi della fila.

All’improvviso, Nuccio fu attratto da un fascio di luce proveniente da una delle vetrate della chiesa. Il suo sguardo si concentrò sul pulviscolo in movimento, ben visibile in controluce. Rimase come ipnotizzato, affascinato dal lento, infinito roteare di quelle minuscole particelle, a disegnare ellissi, cerchi, curve, sinusoidi.

“Memento, homo...”

Provava quella stessa fascinazione alla vista del piccolo ruscello vicino casa, ammaliato dal canto regolare di quell’acqua che scivolava via, come il tempo passato ad ascoltarlo; o come quando, dopo una lunga corsa nella campagna dietro casa, sdraiato sull’erba, studiava curioso le nuvole in movimento, che gli regalavano ombra e disegni mutevoli e improbabili, intervallati dagli squarci di luce del sole.

“...quia pulvis es...”

Nuccio osservava il pulviscolo, indifferente a tutto. Niente contava: solo quel movimento, placido, infinito. Quell’incanto gli regalava pace, distacco ma, al contempo, una misteriosa malinconia, un inspiegabile struggimento. Quel contrasto di emozioni così stridenti lo turbava. Com’era possibile?

“...et in pulverem reverteris”.

Si riebbe giusto in tempo: don Giovanni era giusto di fronte a lui. Gli fece cadere sulla sua testa un pugno di cenere; una piccola parte di questa finì sulla sua giacca.

Tenne il capo abbassato, le mani giunte in preghiera. All’improvviso, uno starnuto rimbombò all’interno della chiesa. “Il solito Duilio...” sussurrò Toni, ammiccando alla sua destra. Nuccio si sporse leggermente dalla fila, quanto bastò per vedere quel loro compagno, il goffo primogenito dell’avvocato Palombi, afferrare un fazzoletto dalla tasca e portarlo rapido al naso, fulminato dallo sguardo accigliato della madre superiora. Da quella posizione, Nuccio poté vedere la fila delle compagne, dalla parte opposta della navata. Cercò, trovandolo, lo sguardo di Letizia che, vistolo, nascose un sorriso, abbassando il capo.

Nuccio rientrò nella fila, soddisfatto ed emozionato. Letizia non era bella come la sorella, fidanzata con suo fratello Luigi. Cinzia gli ricordava tanto Maria Denis, quell’attrice vista l’anno prima al cinema della parrocchia; no, non era così bella, ma non l’avrebbe mai scambiata con lei.

Dopo i catechizzandi, tornati rapidi ai loro posti, fu il turno degli adulti; uomini e donne, in file separate lungo la navata centrale, si avvicinavano lentamente al sacerdote, accompagnati dal canto gentile del coro.

Terminata la funzione, iniziò il deflusso. Nuccio, come suo solito, aspettò che la chiesa si svuotasse, poi, a sua volta, si avviò verso il portale.

Uscito, si guardò intorno. Nei pressi della chiesa erano rimaste poche persone; i più erano tornati a casa. Catturò distrattamente qualche frammento dei loro discorsi.

“Un’altra gelata, e il raccolto andrà in malora...”

“Pare che il Duce, a inizio anno, abbia scritto una lettera”

“...eh, dalla Germania, nessuna risposta...”.

Nuccio alzò lo sguardo. In piazza, nonostante non fosse domenica, il Caffè Ranieri appariva quasi pieno; gli uomini si attardavano al banco per un cicchetto, le donne ai tavolini all’aperto, a degustare le più rinomate paste della provincia.

Fu scosso da una gran pacca sulla schiena.

“Uhè, fradelin!”. Luigi gli si piazzò davanti con un ghigno. “Dai, figlio della lupa, che si va alla guera!”.

“Son due anni che son balilla” rispose Nuccio, piccato. “E poi dicono che la guera non si farà, che...”.

“Si fa, mato! Si fa, la guera, balilla, va là!” lo interruppe Luigi “ma finisce subito, i tedeschi stanno avanti, hano belo che finìo che te pissi ancora nelle braghe!” concluse suo fratello, con una gran risata e uno schiaffo sulla guancia.

Intanto, Cinzia si era avvicinata, seguita dappresso da Letizia. “Ciao Nuccio” fece, visibilmente divertita. La sorella si limitò a sorridere. Nuccio accennò un saluto con la mano, col viso rosso più per la vergogna che per il timido schiaffo del fratello.

Luigi gli fece l’occhiolino, prese la fidanzata sottobraccio e, chiacchierando a voce alta, si allontanò, con Letizia al seguito.

Nuccio sospirò, restando qualche secondo sovrappensiero. All’improvviso, scorse la cenere rimasta sulla giacca. D’istinto, la soffiò via, passandoci sopra anche la mano. Sul tessuto chiaro rimasero piccole strisce nere e grigie. “Che stupido” si disse, scuotendo la testa.

Poi si sedette sugli scalini più alti della chiesa e, con calma, tornò a guardarsi intorno. Vicino a lui non era rimasto più nessuno. La lieve gelata mattutina aveva lasciato posto al calore di un sole quasi primaverile. Il cielo era terso, di un nitore insolito. Lontano, nella pianura che sembrava infinita, le fattorie, con le bestie placide, al pascolo. Sembravano immobili. Nell’aria, il profumo delle mimose, ormai in fiore.

Tutto era quiete, tutto era pace; tutto, una promessa di vita.

marco_galetto@fastwebnet.it