FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 54
gennaio/aprile 2020

Fiabe & Follia

 

IL PONTE

di Carlo Miccio



Il racconto che state per leggere era in origine il primo capitolo di un romanzo pubblicato ormai quasi tre anni fa – La trappola del fuorigioco, Collana 180, edizioni Alphabeta Verlag. Era perché poi, nell’evoluzione del progetto, ho deciso di eliminarlo e affrontare la narrazione della malattia mentale in una dimensione meno romantica e più sfumata, incorporata in un personaggio solo in apparenza più socialmente integrato.

Quando Fili d’aquilone mi ha chiesto un estratto per questo numero tematico sulla follia, ho pensato però che potesse essere più utile ripescare questo piccolo aborto, per un paio di motivi precisi. Il primo è che in questo breve estratto sono presenti tutti i temi principali del romanzo: un rapporto tra un padre psicotico e suo figlio, mediato dalla passione per il calcio e dominato dall’ossessiva paranoia del comunismo mescolata ad elementi spiccatamente religiosi. Di questo parla il romanzo, che nella stesura definitiva recupera anche frasi intere e immagini iconiche (la statua, il topo, il gesto del calcio come rottura fisica dell’ordine) presenti in questo racconto. Per cui chi non l’ha letto può farsene un’idea abbastanza precisa anche da questo estratto-che-estratto-non-è.

Ma per chi il romanzo invece l’ha già letto, questo racconto mi offre la possibilità di mostrare una parte di lavoro creativo marcatamente segnata da un approccio alla sottrazione, a quello che una mia amica scrittrice molto più brava di me chiama logica dello spreco, cioè la dolorosa necessità di separarsi di qualcosa che ormai ha preso vita ed esiste sulla carta, funziona anche discretamente bene alla lettura, ma preclude alla realizzazione di qualcosa che potrebbe essere ancora migliore.

Il senso della pubblicazione su Fili d’aquilone – che ai processi creativi presta sempre molta attenzione e con cui condivido il rifiuto della fretta di consumare tutto e subito – è proprio questo: altrimenti, fedele alla logica dello spreco, sarebbe rimasto per sempre sepolto nell’hard disk del mio computer.


* * *


IL PONTE

“Ho visto tuo padre.”

Quattro parole, mormorate appena, sufficienti a farlo voltare di scatto per controllare che in ascolto non ci fosse nessun altro. Invece erano solo loro due, impegnati a fumarsi la centesima sigaretta della giornata mentre, dentro, i compagni preparavano cartelli e striscioni per i funerali del giorno dopo.

“Dove?” chiese Marcello.

“A Roma. Dorme sotto un ponte sul Tevere.”

Armando Palombi studiava da infermiere e nei weekend faceva il volontario per la Caritas. Passava il sabato notte a distribuire coperte e cibo caldo ai senzatetto. Lui e Marcello non potevano neanche definirsi amici nel vero senso della parola. Si conoscevano da due anni, iscritti entrambi alla stessa sezione di partito, ma per il resto niente più. Il compagno Palombi era un cattocomunista, uno che divideva il suo tempo tra la parrocchia e la sezione, andava a messa tutte le domeniche e alle riunioni politiche era sempre per la linea del dialogo.

Marcello invece la domenica dormiva fino a mezzogiorno e la linea del dialogo la schifava per principio.

“Come fai a essere sicuro che era lui? Lo conosci?”

“Passava tutti i pomeriggi in parrocchia, prima. Gli piaceva la compagnia dei disabili.”

Marcello provò un misto d’imbarazzo e risentimento a sentir parlare di suo padre in quella maniera da uno che conosceva appena. Ma soprattutto lo metteva a disagio la naturalezza con cui Palombi aveva pronunciato la parola prima. Tanto più che adesso continuava a ricevere informazioni non richieste.

“Dice che aspetta un angelo che verrà a rivelargli un segreto. Un segreto che riguarda tutta l’umanità.”

Marcello lasciò cadere il mozzicone di sigaretta per terra e lo calciò in strada con la determinazione di un terzino che spazza via l’area di rigore.

“E tu non potevi chiamare qualcuno?”

Armando Palombi scosse la testa.

“Non possiamo, a meno che non ci sia un grave motivo di salute. Perderemmo tutta la loro fiducia.” La sua voce si era fatta empatica e professionale adesso, propria di chi per mestiere sceglie di amare il prossimo suo come se stesso.

Marcello rimase qualche secondo in silenzio, cercando solo di evitare lo sguardo dell’altro. Ma poi si arrese.

“E quale sarebbe questo cazzo di ponte?”

La mattina dopo Marcello trovò la stazione affollata di facce tristi e bandiere rosse. Uomini e donne, ragazzi ed anziani, in attesa del regionale per Roma. Tutti diretti a piazza San Giovanni, ai funerali del compagno Enrico Berlinguer.

Una settimana prima, durante un comizio a Padova, una folla di operai e militanti lo aveva visto perdere improvvisamente il filo del discorso e scivolare dietro la tribuna dell’oratore, sorretto appena in tempo dalle braccia dei militanti alle sue spalle. Emorragia cerebrale, cinque giorni di coma e poi la morte, l’undici giugno del 1984.

“Compagni, lavorate tutti, casa per casa, strada per strada, azienda per azienda” erano state le sue ultime parole, il testamento a quel popolo comunista che lo adorava come un messia.

Un popolo che adesso stava calando su Roma da ogni angolo d’Italia per accompagnarlo nel suo ultimo viaggio, da Botteghe Oscure a Piazza San Giovanni e poi al cimitero di Prima Porta, dove sarebbe stato seppellito accanto alla tomba di suo padre. Per concorde decisione della famiglia e del partito scriveva l’Unità, la cui prima pagina era riempita dal volto del compagno Enrico che sorrideva in bianco e nero sotto una scritta gigantesca. ADDIO.

Era un treno di orfani quello su cui viaggiava Marcello. Uno snodato contenitore di affetto, dolore e horror vacui, saturo di odori primordiali e fumo di sigarette. E comunismo.

Chissà cosa avrebbe detto suo padre davanti a tutte quelle bandiere rosse. Chissà se si sarebbe lasciato spaventare da quella processione di falci, martelli e pugni chiusi. Probabilmente, rifletteva Marcello, si sarebbe fatto il segno della croce e si sarebbe allontanato di corsa nella direzione opposta.

La politica gli faceva paura. Soprattutto i comunisti. Preferiva il calcio.

Suo padre era il più disincantato dei tifosi. Amava il calcio ma non ci credeva. Per lui le partite erano sempre truccate, un eterno inghippo delle grandi e ricche squadre del nord ai danni del resto d’Italia, e davanti alla televisione si scioglieva ogni volta in omelie incazzate piene di arbitri cornuti e gol in fuorigioco. Ma non era una semplice questione di tifo la sua, perché in realtà ai suoi occhi da molto tempo football significava solo totocalcio. L’onestà, il coraggio e la fantasia le lasciava volentieri alle canzoni di De Gregori: per sé preferiva tenersi soltanto sistemi pieni di doppie, triple e speranze. Speranze allegre, però. Come di chi pensa di meritarselo un miracolo, prima o poi. Di averne in qualche modo diritto.

Padre e figlio avevano riempito pomeriggi e serate di diretta televisiva commentando rigori inesistenti, guardalinee disonesti e mediani corrotti. Perché secondo suo padre erano sempre i mediani a vendersi le partite.

Non credeva nell’onestà del prossimo, suo padre.

Questo accadeva prima della separazione, quando dopo anni di malattia ed esitazioni sua madre si era decisa di lasciarlo. A Marcello disse che si sentiva prosciugata, che non ce la faceva più. Che suo padre gli stava aspirando – disse proprio così, aspirando – tutta l’energia, e che di questo passo si sarebbe ammalata anche lei. Sottolineò più volte che lo faceva anche per lui e per sua sorella. Soprattutto per lui e per sua sorella.

Da quel giorno il rito delle partite era gradualmente sbiadito fino a ridursi a puro esercizio d’inerzia. Suo padre si era trasferito a casa della cugina, una vedova che aveva il televisore in bianco e nero, e quando Marcello andava a trovarlo per qualche match importante finivano per trascorrere novanta minuti di claustrofobico silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri.

Finché una sera, un mercoledì di coppa, Marcello era passato senza avvisare e lo aveva trovato in camera sua che recitava il rosario al buio.

“Al Signore della partita non gliene frega niente” gli aveva ringhiato addosso suo padre prima di cacciarlo fuori dalla stanza. La cugina Assunta gli disse che da ormai una settimana suo padre passava le giornate chiuso in camera al buio, pregando e recitando il rosario. Usciva solo per mangiare e andare al bagno.

Le partite scomparvero dalla loro vita e le visite si diradarono sempre di più. Oramai suo padre non faceva altro che strillare di angeli, martiri e maledizioni. Andarlo a trovare era diventato un tormento. Invece che di Zico e Platini parlava solo di vendetta divina e fiamme dell’inferno, e lo faceva con uno sguardo vorace e spalancato che Marcello trovava sempre più insostenibile.

La svolta avvenne qualche mese dopo la separazione, quando suo padre raggiunse il minimo sindacale e se ne andò in pensione. A quarantasette anni. Cominciò a viaggiare, come diceva lui: andò due volte ad Assisi, una volta a Loreto e un’altra volta si fece tutto il pellegrinaggio della via Francigena da Roma fino a Lucca. Sempre a piedi. Camminava scalzo, fermandosi ogni tanto a dormire all’aperto, in mezzo alla campagna. Una volta aveva mostrato a Marcello la pianta dei piedi segnata da graffi e vesciche e, più che da quelle ferite purulente, Marcello era rimasto inorridito dall’orgoglio con cui suo padre le ostentava. Come se quelle piaghe fossero una sorta di grazia concessa solo a lui personalmente.

Di positivo c’era però che, sapendolo in giro per santuari e monasteri, Marcello si sentiva sollevato dal sempre più intollerabile dovere di passare a controllare che stesse bene. Tanto lui, in ogni caso, bene non stava mai.

Poi una sera, verso le dieci, c’era stata una citofonata inaspettata, e la voce di un appuntato dei carabinieri che chiedeva di Marcello. Disse che doveva andare con loro in ospedale perché c’era da firmare un TSO per suo padre.

“Trattamento Sanitario Obbligatorio” precisò l’appuntato.

“Lo so cos’è un TSO – rispose Marcello – M’infilo le scarpe e scendo.”

Marcello aveva appena compiuto diciotto anni e siccome i suoi erano ormai legalmente divorziati, adesso toccava a lui sbrigare quel tipo di rogne.

Durante il tragitto il carabiniere gli spiegò che lo avevano trovato ad Orvieto, immerso in una fontana che urlava dell’inferno, tutto nudo e con in mano un pacchetto di MS e l’accendino. Aveva deciso di regalare i suoi abiti ai poveri ma le sigarette se le era tenute per sé. E quanto ai vestiti, i poveri li avevano lasciati lì, limitandosi a svuotargli le tasche.

Arrivato in ospedale Marcello trovò suo padre intento a inveire contro un paio di infermiere. O almeno, a provarci, perché era così sedato dai farmaci che tutti i suoi insulti si squagliavano in un biascicare flaccido e innocuo. Tra le dita aveva una sigaretta completamente consumata, ridotta solo a un cilindro di cenere grigia che, chissà come, si era mantenuto intatto. Seduta accanto a lui c’era la cugina Assunta.

Marcello firmò i moduli. I dottori gli spiegarono che per una settimana l’avrebbero tenuto dentro e curato nella migliore maniera possibile, ma dopo sarebbe toccato a suo padre decidere se rimanere e completare la terapia oppure mettere un’altra firma e uscire. Era la nuova legge, aggiunsero, loro non potevano farci nulla. Gli consigliarono anche di non venire in reparto, dicendo che non era un posto per ragazzi della sua età, ma a lui sembrò una gran cazzata perché lì dentro c’era già stato prima e aveva visto ragazzi ancora più giovani di lui, pischelli che si strascicavano assonnati lungo i corridoi del reparto mugolando versi incomprensibili. Non disse nulla però, comunque rassicurato che ci fosse la cugina vedova a prendersi cura delle necessità minime, come la biancheria pulita e i due pacchetti di sigarette al giorno.

Come temuto dai dottori, dopo una settimana suo padre firmò i moduli e abbandonò l’ospedale, troncando la terapia molto prima della sua naturale scadenza. Dell’uscita Marcello fu informato da una telefonata di Assunta. E quando poi era andato a trovarlo a casa, si era rifiutato di farlo entrare. Ce l’aveva con lui perché aveva firmato il TSO. Diceva che non meritava di essere suo figlio se davvero lo voleva rinchiuso in manicomio.

“Ma non è un manicomio, papà, è un ospedale” – provò ad obiettare Marcello, ma per tutta risposta suo padre lo mandò a fare in culo e richiuse la porta a chiave.

Due giorni dopo, secondo il racconto di Assunta, suo padre era salito su un treno diretto a Fatima, in Portogallo, e non era più tornato. Scomparso. Mai più visto.

Con il passare del tempo Marcello iniziò a sperare che laggiù suo padre avesse trovato un po’ di pace e che prima o poi sarebbe tornato a casa di sua spontanea volontà, magari in condizioni migliori di quando era partito. Ma per un anno di lui non si ebbero più notizie.

Fino alla rivelazione di Armando Palombi.

Il terminale dei mezzi urbani era proprio davanti alla stazione: Marcello scartò subito l’ipotesi San Giovanni e decise di puntare all’Isola Tiberina, a poca distanza dal ponte. Quello di Castel Sant’Angelo. Voleva raggiungere la meta camminando lungo il Tevere, per osservare un po’ del mondo in cui suo padre aveva scelto di vivere.

Appena discese la scalinata in marmo che conduceva alle sponde del fiume, Marcello si ritrovò di colpo in un ecosistema completamente scollegato dal resto della città. I rumori della strada erano scomparsi, sostituiti dal cinguettio degli uccellini. Davanti a lui l’acqua fangosa del Tevere avanzava placida verso il mare.

Si sentì invadere da una calma insolita e rallentò il passo per gustarsi quel momento. Incrociò una coppia che faceva jogging, un gruppetto di ragazzi che rollavano canne seduti all’ombra di un albero e una vecchietta che tirava al guinzaglio uno yorkshire riluttante.

Ma, superato un secondo ponte, il paesaggio cambiava e si faceva più brusco, quasi selvaggio: erba alta e nessuno in vista. A ridosso dei muraglioni fioriva una siepe di materassi sfatti, capanne di cartone e bottiglie vuote. Sembrava un minivillaggio residenziale per clochard e senzatetto.

Marcello si fece più vigile, quasi guardingo, finché vide qualcosa che spuntava dall’erba alta e si arrestò di colpo. Un angelo con le ali spiegate agitava una spada in aria. O almeno, l’avrebbe agitata se il suo braccio non fosse stato reciso di netto, lasciandolo monco e impotente. Era una statua in gesso, alta circa mezzo metro, simile a quelle dei nanetti che si trovano nei giardini delle ville di campagna. Solo che invece di essere colorata era tutta bianca.

“Aho ma che te voi ruba’ l’angioletto del Santo?”

Marcello si voltò di scatto e si ritrovò davanti una tossica sulla trentina, con i denti marci e lo sguardo liquefatto. Indossava una tuta nera, ai piedi aveva un paio di scarpe sfondate e il naso era ricoperto di croste, come chi è raffreddato e ha usato troppi fazzolettini di carta.

“Chi è il Santo?” le chiese Marcello.

“Una brava persona, ecco chi è il Santo. Uno che sa fare un sacco di cose e che qui je volemo tutti bene. Per cui se provi a tocca’ l’angioletto suo chiamo all’amici mia e te faccio gonfia’ de mazzate.”

Marcello non riusciva a credere che quel fossile di donna lo avesse scambiato per un ladro.

“Non voglio rubare niente, dimmi solo chi è il Santo. Forse lo conosco.”

Forse.

La tossica lo squadrò diffidente per qualche secondo, prima di rispondere.

“È un tipo che abita qui, insieme a noi. Un signore gentile, sempre sorridente… nun je se po’ dì proprio gnente. Con la testa nun ce sta tutto, però ha studiato ed è capace di aggiustare un sacco di cose: scarpe, radioline…”

Marcello cercava di guardarla negli occhi, ma lei aveva uno sguardo impossibile da afferrare.

“Sta in fissa con un angelo, il Santo - continuò la tossica - Dice che prima o poi arriverà a cercare proprio lui.”

“E dov’è adesso il Santo?” chiese Marcello.

“È laggiù, dietro quella fratta, che insegna ad Alì come se fanno i bucatini ajo, ojo e peperoncino.”

Salutò la tossica e fece per voltarsi, ma lei lo bloccò tirandolo per un braccio.

“A bello, che me lo fai un favore?”

Marcello la fissò senza dire nulla.

“Ce l’hai venti sacchi, amore mio?”

Era abituato ad essere avvicinato da persone che elemosinavano qualche spicciolo, ma una richiesta di ventimila lire Marcello non l’aveva mai sentita. La tossica si accorse della sua confusione e si affrettò a precisare.

“Te faccio un pompino. Qui sotto, che nun ce vede nessuno. Tu te ne stai sdraiato nell’erba e ascolti gli uccellini sull’alberi, al resto ci penso io.”

Marcello si sentì per un attimo paralizzato dallo squallore della proposta e lei ne approfittò per continuare.

“Dai amore mio, nun te preoccupà che so’ brava a succhià…”

Marcello si scrollò la tossica dal braccio e riprese a camminare. Sotto il ponte già intravedeva la sagoma di un giovane africano dalla pelle lucida che armeggiava con un fornello a gas. Accanto a c’era un uomo sulla cinquantina, con i capelli bianchi legati a coda di cavallo e una maglietta nera su cui spiccava una gran croce viola e una scritta in caratteri gotici. Paranoid. Una maglietta dei Black Sabbath, heavy metal rock band.

Marcello rallentò il passo, cercando di far meno rumore possibile, ma giunto a una ventina di metri dai due non riuscì più a trattenersi.

“Santo!” urlò con una voce più ferma delle sue stesse intenzioni.

I due clochard si voltarono. Marcello lo riconobbe subito, nonostante la barba e i capelli bianchi: aveva un’espressione affaticata ma piena di fiducia. La maglietta dei Sabbath gli foderava un ventre appuntito lasciando scoperta la parte inferiore dello stomaco, un effetto reso ancora più evidente dai pantaloni troppo stretti.

Marcello si rese conto che nel corso di quella giornata, da quando aveva deciso di andare a cercarlo, non aveva mai pensato a cosa gli avrebbe detto. A dire il vero, anzi, non ci aveva mai pensato prima. Ma evidentemente la stessa cosa si poteva dire di suo padre, poiché rimasero tutti e due a fissarsi in silenzio, avvolti nella stessa confusione.

A Marcello tornarono in mente quei documentari dove si vedono i lupi annusarsi a vicenda per riconoscersi, e si sentì selvatico anche lui.

Poi d’improvviso il volto del Santo iniziò a deformarsi. Il sorriso si sciolse in una smorfia straziata e tutta la tristezza del suo sguardo si condensò in lacrime sottili, che iniziarono a scivolare tra le pieghe della barba. Marcello lo vide avvicinarsi con le movenze di un astronauta dopato, carico di cautela e di speranza. S’inginocchiò davanti a lui, gli afferrò la mano e se la strinse tra le dita ingiallite di nicotina.

La fede nuziale era ancora al suo posto. L’unica cosa che in tanti anni non era cambiata.

E poi suo padre scoppiò a piangere. Un pianto nudo, senza paura né desiderio, ma così angoscioso da spaventare anche il povero Alì, che fuggì via lasciando la pentola a bollire incustodita sul fornelletto a gas. Impaurito da tutti quei rumori, un enorme topo di fogna schizzò fuori da un cespuglio e attraversò l’intero marciapiede puntando verso il fiume. Un attimo prima di gettarsi in acqua si fermò a osservare i due umani: aveva un muso appuntito, peloso e spaventato.

Marcello rimase ipnotizzato dalla vista dell’uomo che gli aveva dato la vita e che adesso se ne stava prostrato ai suoi piedi, balbettando in modo incomprensibile. Spasmi e singhiozzi gli squassavano il torace e facevano sussultare il ventre appuntito. Era come se non dovesse finire mai, come se tutto quel dolore fosse il naturale traguardo di una vita. Di quella vita.

Ci volle qualche minuto prima che riuscisse a fermarsi, ad alzare la mano, asciugarsi il muco e tirare su con il naso. E finalmente a parlare.

“Ti ho aspettato per anni! Ti ho cercato ovunque! Ma non ho mai perso la speranza… sapevo che saresti arrivato!”

Suo padre gli stringeva la mano così forte da fargli male.

“Io cercavo te e tu cercavi me – continuava a dire tra le lacrime – e il Signore mi è testimone che non ho mai dubitato che mi avresti trovato. Mai.”

Le dita di Marcello erano ormai color sangue pesto quando finalmente capì.

Suo padre non lo aveva riconosciuto, e lo aveva scambiato per l’angelo.

Marcello sentì qualcosa scavargli via ogni cosa da dentro il corpo, lasciando solo una bolla vuota al posto di vene, muscoli e sentimenti. Una bolla vuota che non era più lui, ma qualcos’altro.

Strappò via la mano dalla stretta di suo padre e fece un passo indietro. Vaffanculo – pensò in quel momento. Caricò la gamba destra come prima di un calcio di rigore, mirando ai denti. Ma poi si fermò.

Iniziò a piangere anche lui, invece. Piangere e correre. Correre verso la prima scalinata, lontano da quel cazzo di ponte di merda, tra la folla che piangeva il compagno Berlinguer e che non avrebbe trovato niente di strano nelle sue, di lacrime.


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