FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 54
gennaio/aprile 2020

Fiabe & Follia

 

AFFETTI FEROCI, AMATI RANCORI

di Emanuela Chiriacò
(con un disegno dell'autrice)




Ogni mattina alle otto Clelia Malaciana allunga la mano per disattivare la sveglia facendo attenzione a non rovesciare il bicchiere che protegge il suo sorriso finto. Con i gomiti si punta per alzare la schiena e resta seduta qualche minuto prima di infilare i piedi nelle pantofole.

In cucina accende la prima sigaretta della giornata, spalanca la finestra e loro sono già lì che la aspettano tra l’aiuola e il marciapiede. Li saluta e opera il primo lancio: una pioggia di minuzzoli che procura uno scompiglio di ali, qualche picchiettio a vuoto prima della cattura della midolla assegnata dal caso; così si disegna il suo drappello di piccioni sbandati.

Ogni sera gira le molliche ripetutamente tra le dita mentre guarda il telegiornale, poi le ripone in una busta della spesa, la chiude con un fiocco e passa a occuparsi delle monete antiche di suo padre; le mette a mollo in una bacinella con l’alcol, le lucida con il ritaglio di un indumento appartenuto a sua madre e appena finito lo brucia nello scaldaletto di rame.

La fiamma vacua che stacca faville sugli sbuffi del bracino le ricorda il ragù della domenica, di ogni domenica della sua adolescenza, quando il computo delle bolle liberate dal sugo la aiutava a sgomberare la testa dalle parole corrosive di sua madre. La volta che gliene scoppiò una in faccia a distrarla fu un rumore che proveniva dalla camera dei suoi genitori; la finestra era aperta e dietro la tenda spessa c’era un piccione che batteva le ali, le spiegava sul tessuto indugiando come la miniatura di un umano che annaspa prima di annegare. Urlò così forte che quello rimase in croce per qualche secondo, poi perdendo quota, batté la testa sul davanzale e si afflosciò come un palloncino che si sgonfia. Prima di pencolare in terra, Clelia ebbe il tempo di scorgere il sei delle zampe rugose fuoriuscire dall’orlo delle calate aperte.

Adelaide e Fernando Malaciana li trovarono così: lunghi uno di fronte all’altra. La Cardelli del quarto accorse e quando la cosa fu sminuita e derubricata come una stupida crisi isterica, quella con prepotenza e un gesto di stizza delusa, s’introdusse senza chiedere il permesso, strappò la pezza di cotone imbevuta di aceto dalle mani della signora Malaciana e raggiunta la scena del crimine, infilò una mano sotto la nuca di Clelia e con l’altra premette quel cencio zuppo sulla sua faccia con una tale forza e persistenza da fargliene colare un buon quantitativo nel naso. Clelia si rianimò tossendo per il graffio agro che si era incastrato in gola tra lo sguardo di disgusto di sua madre e l’indifferenza di suo padre che si accingeva a estrarre la testa del piccione dagli elementi del calorifero in ghisa.

Per via dell’accaduto, la reputazione di Clelia Malaciana toccò il fondo. La Cardelli le aveva regalato la prima contumelia rionale: la figlia della Malaciana è fulminata, ha urlato come se la stessero scannando invece è svenuta per un piccione che era entrato in casa, l’ho dovuta rianimare io quella matta. Il colombo è morto stecchito.

Una mattina di qualche mese dopo, mentre Clelia andava a scuola, un signore piccolo e sdentato la inseguì con insistenza.

«Se vieni con me ti faccio divertire, ti faccio!»

«Vergognati! Non vedi che sei vecchio!»

«Te la metterei comunque, te la metterei!»

«Vattene o urlo!»

L’agitazione le procurò un singhiozzo così ostinato che cacciò l’intera colazione sul marciapiede: una composizione di pappina avana con i margini irregolari e scontornati da caglio di latte, succhi gastrici e bollicine di aria. Il tempo piccolo di ispezionare il vomito che un gruppetto di piccioni lo accerchiò e iniziò a mangiare. Perse i sensi e la realtà; al risveglio, nel dehors del bar di fronte, l’uomo che l’aveva soccorsa la invitò a bere il tè caldo che le aveva fatto preparare.

Quella broda simile a un decotto di radici amare si unì al sapore del rigetto. Riuscì a berne solo qualche sorso, e al primo accenno di conato, lo ringraziò e andò via. A casa non disse una parola.

Il barista invece raccontò tutto al marito della Cardelli e lei allargò la sua stramberia a tutto il quartiere.

Ancora oggi guida riunioni improvvisate con le inquiline del palazzo; se ne incontra una nell’androne, si punta sul treppiede e impettita attacca: Non ha marito, non ha figli, secondo me è pasolina! Cosa vuol dire signora Cardelli? Sì, insomma le piacciono le femmine! È sempre stata stramba, mi ricordo di quando… Sì, lo sappiamo signora, ogni volta racconta le stesse cose! Ma a lei non importa e prosegue Ne era terrorizzata e adesso fa la Biancaneve dei piccioni. Maledetta! È colpa sua se quelle bestie malate e infestanti ci cagano i davanzali.

L’odore di quel guano cremoso Clelia lo alitò per la prima volta dalla finestra di un albergo di Venezia. Un piccione ne sganciò una chiazza in volo e prima che potesse atterrare sul parapetto, lei abbassò la ghigliottina.

I suoi occhi e le biglie grigie del piccione indugiarono in un’osservazione reciproca; poi ignorandola prese a contrarre la testa e sincronizzarla con il movimento di una sola gamba: testa avanti, gamba destra avanti, testa indietro gamba destra indietro, testa avanti, gamba sinistra avanti, testa indietro, gamba sinistra indietro. Sembrava posseduto da un sistema di leve, ingranaggi e pulegge che collegavano i movimenti delle zampe con quelli del collo.

Rapita da quel movimento, Clelia pensò che se avesse avuto il coraggio di bloccarlo e di premergli la testa avanti e indietro, avrebbe camminato nel vuoto. Conosceva bene quella sensazione; la persistenza familiare del vacuo era il luogo del rimbombo sterile della voce stridula di sua madre: Sei un essere inutile, sei nata per sbaglio, non ti ho né cercata né voluta; avrei fatto meglio a non metterti al mondo.

Sospesa tra l’eco della mancata appartenenza e il frastuono sordo dei turisti in strada, sapeva che aver accettato la negazione dell’amore che le era stato negato fosse un pregio e non una disperazione senza limite, uno sconfinato sentimento asciutto che prima o poi avrebbe avuto modo di esibire.

Accadde una notte, qualche tempo dopo, fuori dal pronto soccorso; fumava una sigaretta dietro l’altra in attesa del responso del medico. Le venne incontro con un sorriso misurato dalla circostanza, sperava che le dicesse non c’è stato niente da fare, è morta, invece dovette ingoiare uno sconfortante è viva, è stato un ictus a provocarle la caduta. Il velamento della sua amarezza si consolidò in sfacciata indifferenza davanti al pianto infantile e disperato di suo padre. Non lo schiaffeggiò, né provò a consolarlo. Si concentrò sulla costruzione della preghiera malata che avrebbe potuto sussurrarle all’orecchio fino al lieto della fine: Sei sempre stata una vipera velenosa; da oggi posso ricambiare il tuo disprezzo con la mia indifferenza. Puoi solo soffrire in silenzio adesso, madre di merda! Aspetto di vederti morire per avere il mio risarcimento: sarà un infinito sollievo chiuderti gli occhi.

Se ne andò con calma il giorno dei morti che salutano i vivi; un congedo veloce accompagnato dal latrato di un cane.

Clelia non si scompose, si alzò, raggiunse suo padre in salotto e gli sussurrò a un orecchio: «Papà, mamma è morta ma sono riuscita a chiuderle solo un occhio, l'altro sembra bloccato.» Quell’occhiolino rigido fu l’ultima immagine di sua madre; di suo padre, invece, l’emiparesi che lo colse senza preavviso; un sorriso obliquo, e poi il silenzio dell’eterno.

La prima notte da sola la passò in cantina alla luce pallida e fredda di un neon scarico, rannicchiata come un feto senza placenta. Appena fatto giorno negli scatoli ritrovò la sua amica d’infanzia, e tenendola per le trecce rosse la portò a casa. L’osservazione del verde negli occhi, negazione di ogni attesa fiduciosa, la convinse a estrarre le due sfere con un cacciavite e mettersele in tasca.

Le muove spesso ripetendo la nenia dedicata a sua madre come una santa bestemmia.

La bambola invece se ne sta seduta tra la sveglia e il bicchiere. Ogni tanto le infila indice e medio nelle orbite e si trascinano insieme per casa, quando si accomodano sulla poltrona le scalfisce l’imbottitura gialla che fuoriesce dal bordo scucito; i pezzetti di gommapiuma che le restano nella cavità dei polpastrelli li appallottola a lungo tra le dita. È nella ripetizione ciclica dei gesti che trova la difesa dell’abitudine, un riparo dagli affetti feroci e dagli amati rancori.


emanuela.chiriaco@hotmail.com