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Discendo ora abissali precipizi, stregato al bombo di cicale, brigata ruvida che nell’aria s’allontana, onda, amore e sonda d’oltre i sogni. Poi m’alzo, e guardo il mare. Quell’orizzonte metallico già inchiodato dalle prime frecce del sole, la mia tentazione, la mia trappola, il mio penare. E penso al mio viaggiare, ma viaggiare per cosa? I deserti seguono ai deserti, le montagne a spazi aperti, le radure alle radure. È ora tempo di racchiudere una speranza lunga dentro spazi brevi. Dovunque ci sia sole, e mare e pesci in abbondanza da pescare tanto basterà per inchiodarmi a quei due pini come bestie antiche, a un muro a secco, e a quel molo dove si confondono partenze e ritorni, e dove tutto torna in discussione, e nulla esiste.
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Tra barche nelle vigne parcheggiate, case in affitto, e ritrovi per sub, vane suonano adesso quelle storie: una ricerca di miti che permane. Mutati da vento, sole, pioggia e spine le polveri dei morti stanno laggiù, sotterrate, a fluire dentro al mare, ad alzarsi con le nuvole di Kastelina, Kampor, Sant’Eufemia. Imploro perdono per aver taciuto, per non aver ricordato dopo aver saputo, per aver immerso il mio corpo nelle acque d’un battesimo incompiuto, mentre ancora spero che il nemico sia finalmente evaso da me quando la sera, tornando dalla pesca, con occhi assai provati e nelle braccia stanco, mai fu il vino così rosso e il pane così bianco.
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Non si fa che nuotare negli abissi d’una infanzia eterna. E mentre si scorre alla deriva non si può dimenticare nulla, affondando dentro l’acque del tempo. Pesci, pesci argentei come monete medievali che si spaiano o s’ammassano a formare uno scudo dentro l’acqua, concavo o convesso a seconda di correnti e increspature, un corpo unico, una sfera che reclama un grande amplesso, o assottigliato come un fila- mento in proces- sione, dove ogni pesce lì si mette a nudo sopra quel fondale che rulla col biancore delle spume, sfioccato movimento, sbattuto da correnti giù in profondità, specchio al cielo, con chiarità a mostrare l’avvicendarsi delle ere dentro cui mi perdo, brano a brano.
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Il silenzio laggiù è una porta sopra al cosmo, l’origine pre-umana d’un’epoca incolore quando si sogna tranquilli davanti ad acque tranquille. Il silenzio laggiù è una sfera, rotonda come il mondo, l’occhio complice delle tenebre, l’occhio indifeso del nostro essere conchiuso. L’udito qui è recluso per un’esistenza immemore, sulla terra, sulla sua profondità vivente; e se è vero che si sogna davanti a una sorgente, l’immaginazione scopre che l’acqua è il sangue di quell’essere terreno. E le maree il suo respiro.
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Sistole e diastole d’una sfera perfetta che inala ed esala l’eterno girovagare di mille galassie. Nuotare in un abisso d’acqua è ritornare all’acqua un corpo animale il cui elemento si riconosce tale dentro e fuori se stesso, sangue che pulsa dentro sangue, cuore che partecipa d’un cuore assai più grande quando batte ancora a tempo nelle rotazioni di luna e oscurità.
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