Geronimo ce l’aveva con i genitori per il nome che gli avevano dato. Come se non bastasse, la sua infanzia era stata angustiata dalla costante presenza di barriere di ogni genere, fisiche e mentali. Quando aveva cominciato a muovere a stare in piedi, si era trovato confinato nel box dal quale non riusciva mai a evadere, per quanti sforzi facesse. Divenuto padrone delle proprie gambette e in grado di muove i primi passi, erano stati cancelli e cancelletti di ogni materiale e dimensione a ostacolare la sua esplorazione del territorio: cancelletti di robusto legno accuratamente piallato a precludergli la salita o la discesa delle scale e a delimitare porzioni di giardino ritenute pericolose da praticare, grate di ferro a chiudere gli scaffali delle librerie per evitare che potesse raggiungere i libri, alti cancelli di ferro a isolarlo dal traffico della via e dal contatto con il consorzio umano.
Quando si era fatto troppo grande per poter essere trattenuto da un cancello e aveva faticosamente guadagnato la libertà di uscire per conto proprio per recarsi a scuola, aveva cominciato a fantasticare sul miglior modo di vendicarsi.
Sognava di realizzare enormi cancelli e barriere dai congegni complicatissimi e dedicava buona parte della notte a disegnare accuratissimi progetti che ammucchiava con diligente lungimiranza in un armadio della sua camera, certo che un giorno gli sarebbero serviti.
A parte questa fissazione, Geronimo era una persona piacevolissima, aveva molti amici che lo apprezzavano per la sua simpatia e lo stimavano per la sua intelligenza.
Dopo la scuola aveva trovato facilmente lavoro in banca, aiutato nella sua abilità con i calcoli e per l’innata precisione, ma vedeva il proprio sogno di gloria allontanarsi e affievolirsi sempre più. Facendo il bancario per tutta la vita come avrebbe potuto realizzare tutti i meravigliosi progetti che conservava in camera? Progetti che gli avrebbero fatto guadagnare fama e notorietà anche al di fuori della cerchia cittadina.
Un vero e proprio colpo di fortuna furono le elezioni cittadine. Amici e conoscenti lo spinsero a candidarsi e Geronimo lo fece con noncuranza, giusto per accontentarli, certo che nessuno l’avrebbe votato. Invece i risultati delle urne furono clamorosi: Geronimo ricevette moltissimi voti e la sindaca neo eletta gli propose di ricoprire la carica di assessore nel settore che riteneva più congeniale. A Geronimo si aprì un mondo davanti agli occhi… assessore all’urbanistica!
In ogni momento libero dal lavoro si dedicava alla revisione e al riordino dei progetti di barriere e di cancelli che avrebbe presentato per rendere la città un luogo ultra sicuro e inaccessibile tanto a chi volesse entrare quanto a chi volesse uscire.
Erano progetti avveniristici, basati sulla presenza di chip, di sensori, di onde elettroniche, di campi di forza magnetici, di cariche di neutrini e chi più ne ha, più ne metta. Progetti che vedevano la realizzazione di barriere di cancelli dall’apertura così complicata che avrebbero scoraggiato chiunque dal tentativo di superarli.
In principio la sindaca Esmeralda aveva preso sottogamba quella che considerava un’innocua mania di Geronimo, ma ben presto dovette ricredersi. Il suo assessore all’urbanistica era fermamente convinto a trasformare la città in un bunker. Prima che la faccenda prendesse una brutta piega o diventasse sempre più difficile da controllare, Esmeralda prese l’abitudine di invitare a casa Geronimo e di esaminare i progetti davanti a una tazza di tè, tentando pazientemente di scoraggiarlo prospettandogli l’insostenibilità dei costi e l’estrema difficoltà di trovare ditte capaci di realizzare opere tanto sofisticate.
Geronimo non demordeva e Esmeralda cominciava a disperare di trovare il modo per intaccare le sue granitiche certezze.
Un pomeriggio in cui come il solito Esmeralda stava tentando di convincere Geronimo dell’assurdità di quei progetti, sua madre giunse inaspettatamente a farle visita. Sedette su una poltrona accanto al caminetto acceso e prese a sferruzzare, apparentemente disinteressata all’accesa discussione tra la figlia e Geronimo.
All’improvviso, approfittando di un momento di pausa in cui i due tacevano, l’anziana signora si alzò e si avvicinò al tavolo, cominciando a esaminare con attenzione i progetti di Geronimo.
“Sono davvero belli come li rammentavo.” cominciò in tono sommesso. “Li trovavo dappertutto quando mettevo in ordine la tua stanza, erano la prova della tua vivace intelligenza. Ma anche del tuo dolore. Hai forse dimenticato quante volte sei venuto e insieme abbiamo aperto i cancelli, le barriere e le grate perché tu potessi muoverti e giocare e leggere? Piangevi sulle mie ginocchia e io ti consolavo, raccontandoti di un mondo meraviglioso che tu avresti un giorno creato, un mondo in cui le barriere sarebbero state sostituite da varchi luminosi e odorosi di fiori, varchi che avrebbero permesso a tutti di stare insieme in pace?”
Geronimo era rimasto ad ascoltare a bocca aperta, mentre un lontano ricordo affiorava nella sua mente, quella di una giovane donna slanciata e sorridente che si chinava su di lui ad asciugargli le lacrime.
“Tata Clotilde, come ho fatto a non riconoscerti?” sussurrò, stringendola tra le braccia.
“Non mi riconoscevi perché non mi guardavi, tutto preso in questo tuo frenetico sogno di isolamento e di controllo. Sii onesto con te stesso, vuoi davvero che i bambini e gli abitanti di questa città provino la triste sensazione di essere prigionieri proprio come successe a te? Credi veramente che rendendolo loro impossibile la vita sarai risarcito delle pene e dei dolori dell’infanzia? O non accadrebbe piuttosto che li rivivresti in loro e ne saresti ancora più angosciato?”
Geronimo non rispose, si vergognava troppo di aver nutrito per anni il sogno di vendicarsi ai danni degli ignari concittadini. Continuando a tacere, raccolse in un fascio i progetti e li gettò nel camino, restando a guardarli bruciare con Esmeralda e Clotilde.
“Credo che dovrei dimettermi dalla carica di assessore all’urbanistica, adesso che non ho più progetti da realizzare.” mormorò, scuotendo la testa.
“Io credo proprio di no.” gli rispose Esmeralda. “Ho in mente da tempo un parco per la nostra città, un posto in cui adulti e bambini si sentano liberi e sicuri al tempo stesso e non conosco persona più adatta di te a realizzare questo progetto.”
Geronimo annuì e stese sul tavolo un foglio bianco, Esmeralda andò in cucina a preparare ancora un po’ di tè e Clotilde riprese a sferruzzare nella poltrona accanto al caminetto.
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