Alcuni ricordi spariscono
fanno in fretta
usano una combinazione chimica
chiamata dimenticanza.
Prima lettera
Come riuscirebbe il mare a dire come mi sento e sento l’averti conosciuto e amato? Come dirti la lama bianca che mi ha sventrato il torace e poi il filo che ha ricucito, aperto, richiuso a strati, cellula dopo cellula, pazientemente, portando dentro i fiori, i pesci, il tuo cuore vivo? Un trapianto, un’anima indifesa nella mia: eri un braccio d’edera, un cespuglio, una collina intera. Vieni a vedere chi sono diventata, inavvertitamente, apparsa sul mio volto, mentre da lontano, da lontanissimo albeggi gli attimi mutilati ai miei. Pulso attonita ogni debolezza che ti appartiene e resta vivo il moncone della mia scellerata grazia: ecco chi sono per genealogia compiuta. Una prodezza che il possesso e l’innesto della fibra può rendere vivo, possibile.
Sono una razza nuova. Sono vecchia, per questo posso partorire nascite straordinarie e cuori sacri, l’aria degli anni infiniti e andati, l’infanzia, i rami vivi poggiati sulle spalle, tutti i segreti degli andirivieni, della fatica, del tremendo amore battuti a zig-zag in un crescendo verticale,
un soprassalto a trama stretta. Un’altitudine, un traliccio in cui passa la filovia, il tram, il circuito di esperienze e storie, gli schiamazzi, le parole fioche, le abitudini che avevamo. Sono io la storia. Sembri lo scialle di mia madre sul collo freddo e bianco, come la barca arrivata sulla riva, sul litorale più vicino agli sciacalli, adesso sei sul mio collo, tra il cervello e le spalle, sei pensiero. Tu non tornare se pensi che qui puoi annegare, impantanarti centimetro dopo centimetro nella sabbia, nella mia vita che hai abbandonato. La mia età è sabbia appiccicosa e liscia, sono quel rimedio irrimediabile, infaticabile e chiaro che si attacca alla pelle, alla camicia, al resto dell’orgoglio, del midollo che scommettiamo quando ti lasciavo e ti riprendevo
senza consolarti. Sono pentita di non averti sorriso abbastanza, ma, non procedere nella mente con tutto il peso minaccioso. Torna indietro nell’acqua limpida e lunare, in quel manto turchese e rotondo in cui resti immortale. Proteggiti dal tempo che passa e ti rende incerto ai miei occhi. Resta vivo e sii brezza. Vorrei custodirti nel palmo della mano, dove annoto lo scambio dei significati. Non perderti, vorrei non perderti nuovamente, questa volta per colpa mia, del mio andare avanti inesorabile nella dimenticanza, ma se ti ho smarrito, amore, devi accostarti con prepotenza alla mia assenza e piangere con me. Sì, ti sto dimenticando e stai andando lontano alla svelta. Queste mattine, in cui scrivo come bisogno naturale, mi abbandono alla consapevolezza della radice che siamo stati, che sei, che eri. Quando mantengo le distanze dalla fine procedo in uno stato di ingegnosa eccitazione e mi sforzo di apparire un’altra, di sembrare un risentimento intatto, per niente scusabile. Per questo devo ripetere il tuo nome, il mio nome, la storia che ci ha chiamati.
Tornando a casa
ho infilato i piedi nella borsetta mentre una parte
di scontentezza ha fatto comunella
con le gobbe delle strade, coi ciclamini
e la lingua dei formichieri
dove i rami ventosi hanno trattenuto
un po’ di asfalto nero, i fischi degli uccelli.
La felicità non capisce niente delle dee incollate
alla sottana boscosa. A volte si esprime in forma
appartata, di lato sbavaglia drammi
poi si trascina contusa nella notte pesante
a gesti energici.
(Non ho potuto fare a meno di essere un’altra).
*
«Minuscola parte di un niente» dicevi
«siamo l’illusione dentro questa vita infinitesima»
– un’incognita, un’equazione o una frazione
un rovesciamento materico –
Si filosofeggiava sugli uccelli
sul suono che si perpetua da secoli
nella bocca dei tordi.
Sei stato gigante bianco di nevischio
casa vuota, allagata di parole sensali
grandi occhi camaleonti e turbinii
eri presenza profetica, fattucchiera.
Inspiegabile e cavo nel freddo perturbato
hai fatto il bello e il cattivo tempo
mentre balzavamo l’uno nell’altra.
*
Capiterà a tutti di essere una boa
in mezzo al mare, una boa
dalla forma di pesce supino
dalla voce umana con braccia di violino
al posto delle branchie l’anima
spugna polposa e fili d’erba i capelli.
Si diventa così quando si va via
un nome senza nome
rimasto tra le palpebre e la mente
giovinezze disperse in un altro viaggio.
Quando anche le viscere svuoteranno
residui della traversata
resteranno bucce vuote
involucri rancidi, mezzi sorrisi,
il seno ormeggiato.
Questo siamo quando lasciamo
una casa, un fiore, chi abbiamo amato.
Capiterà a tutti di essere una boa
in mezzo al mare, pesci, uccelli dal ventre tremante.
*
Quando sono qui non ho parole
lascio fuori il mio uragano
incustodito, lascio a casa
la rabbia di cenere e carbone,
la tua bestemmia
pronunciata in basso, fino allo scorno
persuadendo il vizio dell’amore.
Le ore e i giorni ci portano contro
ci scontentano la vita, il letto,
questa miserabile ombra che scende
prima del tramonto, prima dell’inedia.
Certo non lo fai apposta ad andare via
fanno così le persone anziane, senza
speranza, fanno come te quando ti bagni
gli occhi e poi scompaiono naturalmente.
*
L’ombra della gente si arresta disperata
quasi sempre è triste, frenetica
senza sorriso, né faccia
sprofonda nel movimento della corsa
divide in tante parti i battiti, i cieli,
addosso porta fretta distratta,
si muove con sospetto
sembra un rapace zoppo e pure cieco
abbandona vergogne, fiducia, nomi,
sfugge all’impegno chiudendo gli occhi
svincolando nell’abisso con un tonfo.
La gente non si interroga
recita il compito, la busta della spesa,
rapida nelle stagioni lascia
crepe per le vie.