FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 34
aprile/giugno 2014

Lavoro

 

EDGARDO DOBRY
Contratiempo

di Francesco Tarquini



L’ultima raccolta poetica di Edgardo Dobry nasce da un progetto in forma di poema lirico-drammatico, da svilupparsi con l’appoggio della Fondazione Guggenheim di New York. Avrebbe dovuto intitolarsi Dr. Jrest e prevedeva parti in versi e parti in prosa strutturate attorno a una paradossale situazione narrativa. Nella scrittura però quel perno narrativo si è andato sgretolando, e il libro ha preso la forma di un poema unitario, composto di tanti testi – privi di titolo – che possono essere comunque letti separatamente, momenti di una visione sulla contemporaneità espressa nel fondersi di registri alti e di fraseggio popolare in toni di straniante ermetismo. Della situazione che costituiva l’impianto drammatico del progetto, è rimasta traccia solo nel titolo definitivo della raccolta, Contratiempo.

Contratiempo, in spagnolo sta in prima istanza per “contrattempo”, una difficoltà inattesa. Ma della storia e dello sviluppo di quel banale contrattempo – un blocco nel traffico – nulla rimane nel libro, in cui la possibilità stessa di una narrazione è negata di fronte a un mondo che si propone in una frammentazione di oggetti e significati, epifanie sporadiche. Basta aprire il libro alla prima pagina: “Più di un anno da qualcosa è oggi / e saranno martedì cinquanta mesi / e più da un fatto non meno importante: / questo annuncia il giornale di domani / – mattina – e il notiziario / di ieri sera pure”.
In questo mondo, in questa Città Contemporanea evocata già nella copertina del libro, la città mercantile, tecnologica, postindustriale, il frammento, il rottame, il dettaglio infimo costituiscono oggetti privilegiati di osservazione: “Si vede un’antenna offesa con la luna / –l’edificio, una cartolina con troppi francobolli – / e alla finestra le tue camicie che si asciugano”.

Nella Città il poeta si muove con lo sguardo di un consumato flaneur, secondo una tradizione che nasce con Baudelaire e trova in Walter Benjamin il suo massimo interprete, e che Dobry ha bene in mente fin da El lago de los botes, pubblicato nel 2005. Ed è la natura di quello sguardo, splenetico, disincantato e ironico, sempre acuto e partecipe, quello sguardo che si spinge dietro le superfici, dietro le arbitrarie architetture del “reale", a garantire la possibilità stessa del fare poesia: nascente da una radicata coscienza linguistica, immersa nel panorama della contemporaneità e dei suoi mali incurabili come in un inesauribile magazzino di immagini, in una riserva di linguaggio rinnovabile per mezzo del quale parlare contemporaneamente contro il tempo e dentro il tempo.

È qui che la parola del titolo, “contratiempo”, si dilata oltre il primo significato: e diviene piuttosto “controtempo”, qualcosa che si oppone al tempo, sia come temporalità che come presente in cui ci è dato vivere. E, si può aggiungere, “controtempo” in senso musicale: l’inserirsi nel canto centrale di un’altra voce, che si scandisce incrociandosi in ritmico contrasto con le altre. Così come “nel cielo terso come un pdf / il viaggio del poeta e della storia / si sono incrociati nella zona / necrosizzata della lingua, / ciascuno rivelato dall’altro”. È in questo punto d’incrocio, a me sembra, proprio in questa zona necrosizzata, che si colloca il parlare poetico di Dobry: al di là di ogni contrattempo.




POESIE DI EDGARDO DOBRY
da Contratiempo, 2014


*

Un año largo de algo hoy hace
y el martes hará cincuenta meses
y pico de otra cosa no menos importante:
eso anuncia el diario de mañana
-a la mañana- y el noticiero

también de anoche. Lo que apila
la línea de la vista hace estela
encendida, incandescente,

pila anunciada ya obsoleta:
el pino tangible, el áspero
pino mental no menos,
la cuarteada de pícea corteza
entre los dientes, menos,

y en las uñas mentoladas,
los dientes o al revés:
la aspiración metalizada

del mar que irrita el ojo.
El mar, sí –máquina perpleja-,
la playa abrillanta en su jabón
y hacia adentro virutas de plata sobre plomo
con más melifluas flores
-nombre vulgar: erizos y algas en forma
de escarola- que cualquier

fantasía de todos los poetas
que inventaron las lenguas de hoy
y las muertas porque no sabemos cuánto

duraban sus diptongos largos
(no sabemos ni qué
cosa fuera ya indecible,

no deseable). Llegando a la ciudad
los carteles verdes de la ruta
anuncian “las palabras todas
antiguas aún deben decirlo”.


*

Più di un anno da qualcosa è oggi
e saranno martedì cinquanta mesi
e più da un fatto non meno importante:
questo annuncia il giornale di domani
– mattina – e il notiziario

di ieri sera pure. E quanto va ammucchiando
la linea dello sguardo una scìa lascia
accesa, incandescente,

mucchio annunciato e già obsoleto:
il pino concreto, il ruvido
pino mentale non meno,
il brandello di pìnica corteccia
fra i denti, meno ancora,

e nelle unghie al mentolo
i denti o al contrario:
l’inspirazione metallica

del mare che irrita l’occhio.
Il mare, sì – macchina perplessa –,
la spiaggia brillanta nel suo sapone
e per di dentro trucioli d’argento su piombo
con più melliflui fiori
– nome volgare: ricci e alghe in forma
d’insalata riccia – che qualunque

fantasia di qualunque poeta tra quelli
che hanno inventato le lingue di oggidì
e quelle morte perché ignoriamo quanto

duravano i loro dittonghi lunghi
(non sappiamo neppure che
cosa fosse già indicibile,

indesiderabile). Arrivando in città
i cartelli verdi della strada
annunciano “le parole tutte
antiche ancora devono dirlo”.


*

Hoy otra vez el sol de nosotros
se harta, de nuestras vaguedades,
pasa la tarde lustrando el arcoiris

de nafta grabado en la cuneta.
Prueba mañana pero no te garantizo

que estas supersticiones sean
caducifolias como el almanaque.
Más bien al contrario. Mirá:

adentro del congelador las cubeteras
se evaporan, lo que no debería
dejar de aleccionarte, sólido Sol,

a vos que sos latencia activa.
Y ahora, sentado en tres baldosas

de la cocina, los talones
contra las nalgas como si fueran
parte de una misma entidad, con cuchara
sopera comiéndote un yogur

cuajado de ojos verdinegros de kiwi,
sabés, ya en la noche,
otra noche ya perdida,

que un foso de agua turbia
te divide de

todas las
cosas que pudieran suceder.

Los muertos tendrían acá
-los pobres muertos-
algo más que decir.


*

Oggi di nuovo il sole di noi
è stufo, delle nostre vaghezze,
passa il pomeriggio a lustrare l’arcobaleno

di benzina stampato nella cunetta.
Prova domani ma non ti garantisco

che siano queste superstizioni
caducifoglie come il calendario.
Al contrario, piuttosto. Guarda:

dentro il congelatore le vaschette del ghiaccio
si svaporano, il che non dovrebbe
mancare di darti una lezione, solido Sole,

a te che sei latenza attiva.
E adesso, seduto su tre piastrelle

del pavimento di cucina, i talloni
contro le natiche come fossero
parte di una stessa entità, mentre con un cucchiaio
da minestra mangi il tuo yoghurt

costellato di verdescuri occhi di kiwi,
sai, quando la notte è scesa,
altra notte perduta,

che un fosso d’acqua torbida
ti separa da

tutte le
cose che potrebbero accadere.

I morti avrebbero su questo
– i poveri morti –
qualcosa in più da dire.


*

La ciudad, de noche,
plantación abandonada.
Bronceado de mitología
vuelve de la biblioteca

y ahora sabe que se puede
caer al cielo como a un pozo.

Un poema no tiene nada que ver
-se dice pero nada que ver con-

el espíritu, un poema es una plusvalía,
aspiración que no prescribe.

En el cielo nítido como un pdf
el viaje del poeta y de la historia
se cruzaron en la zona
necrosada de la lengua,
cada uno revelado por el otro.


*

La città, di notte,
piantagione abbandonata.
Abbronzato di mitologia
fa ritorno dalla biblioteca

e adesso sa che si può
cadere nel cielo come in un pozzo.

Una poesia non ha niente a che vedere
– si dice proprio niente a che vedere con

lo spirito, una poesia è un plusvalore,
aspirazione del tutto imprescrittiva.

Nel cielo terso come un pdf
il viaggio del poeta e della storia
si sono incrociati nella zona
necrosizzata della lingua,
ciascuno rivelato dall’altro.


*

Apretó, arrojado al ascensor,
el primer botón que había: “siglo XX”.
Después se fue la luz y la puerta
de la escalera era tapiada.

No le preguntes cómo logró subir un piso.
¿Ahora qué pasa?
¿Te dormiste de costado y una estrella

te entró por el oído y se destiñe
en sueños ralos como larvas?

Será que en la llanura el corazón carece
de escondite y la verdad sale a la luz.
O la glicina certifica el óbito
del día y lo tapa de sábana celeste.

Entonces a partir del puerto
el río ya se apura:
quiere contarle al delta de mañana
los nombres leídos en los cascos.


*

Ha premuto, spinto dentro l’ascensore,
il primo bottone che ha visto: “Ventesimo secolo”.
Poi è andata via la luce e la porta
delle scale era murata.

Non chiedergli come è riuscito a salire un piano.
E adesso che succede?
Ti sei addormentato su un fianco e una stella

ti è entrata dall’orecchio e si scolora
in sogni diafani come larve?

Sarà che in pianura il cuore non trova
nascondigli e la verità viene alla luce.
O il glicine certifica l’obito
del giorno e lo ricopre con un telo celeste.

In quell’attimo a partire dal porto
il fiume già s’affretta:
vuol raccontare al delta domattina
i nomi che ha letto sugli scafi.


*

Tentado baja del Brasil
por el olor de los asados,
se precipita ciego,
cenefa de islas enfiladas,

salmodia de lodo al pie del sauce y
del tiemblo plateando las escamas
del agua
-nuestras vidas no son ríos,

ríos son los ríos, la vida
no es dulce ni la muerte salada
ni la agonía solución salmuera
salvo en la existencia que barrena

la linde del presente y borra y traza
las crestas porque el agua
arrastrada va hacia el delta

y la que quisiera remontar remolinea
de atrás hacia delante,
de antes ahora hacia ahora

y pescadores de escollera lo desalman

de los peces crasos, comedores de barro
-Salminus brasiliensis- que ni en sueños
conocieron lo dorado y en cambio
relucen como ídolos aztecas

todavía.


*

Attirato scende dal Brasile
dall’odore di carni arrostite,
si affretta cieco,
bordura di isole in fila,

salmodia di fango ai piedi del salice e
dell’ontano che inargentano le squame
dell’acqua
– le nostre vite non sono fiumi,

fiumi sono i fiumi, la vita
non è dolce non è salata la morte
non è una salamoia l’agonia
tranne nell’esistenza che perfora

il bordo del presente e cancella e traccia
le creste perché l’acqua
trascinata scende al delta

e quella che vorrebbe risalire si scioglie in vortici
da indietro ad avanti
da prima d’ora ad ora

e pescatori di finte scogliere lo deprivano

dei rozzi pesci mangiatori di fango
Salminus brasiliensis – che neppure in sogno
conobbero mai il colore dell’oro e invece
risplendono come idoli aztechi

ancora.


*

Prefiere su bata de abrojos y vainas
la tierra: tiene apenas frío.
El tanque de agua sobre el patio
era un raro polifemo adormecido

y las islas se doraban en el óxido del agua.
Desde la orilla se ven los paraísos inquietos,
quién sabe la savia se les va subiendo a la cabeza.
Acá, bajo el asfalto, el olor del eucalipto

le recuerda a la calle el barranco en que nació.
Se ve una antena ofendida con la luna
-el edificio, una postal con demasiadas estampillas-
y, en la ventana, tus camisas secándose:

son mariposas puro alas, su sola carne
una pinza de madera. Dirás que son de siempre
soñaciones mías pero mirálas ahora: ¡aletean!
Al fin tenemos tiempo para cosas así.


*

Preferisce la sua vestaglia di pruni e baccelli
la terra: ha quasi freddo.
Il serbatoio dell’acqua sopra il patio
era uno strano polifemo addormentato

e le isole si doravano nell’ossido dell’acqua.
Si vedono dalla sponda gli ailanti agitati,
forse la linfa gli sta dando alla testa.
Qui, sotto l’asfalto, l’odore dell’eucalipto

ricorda alla strada il dirupo in cui è nata.
Si vede un’antenna offesa con la luna
– l’edificio, una cartolina con troppi francobolli –
e alla finestra le tue camicie che si asciugano:

farfalle tutte ali, sola carne
una molletta di legno. Dirai che sono i soliti
vaneggiamenti miei, però guardale adesso: stanno svolazzando!
Finalmente abbiamo tempo per cose così.


*

Desde entonces paulatinamente progresamos,
desde aquella Nochebuena en que colgaba,
a modo de estrella, una naranja
y como estela un puerro largo.
Encontrábamos alivio en cosas como

volver al faro sabiendo que el farero
ahí ya no vivía, ahora se controla
desde alguna oficina indecidible.
O como ver en el patio a la mañana

con una suma de sobresalto y regocijo
unas brasas alentando. Las cosas
escuchan, cuántas veces lo habré dicho.
Pero ya que has llamado te declaro

un ítem solamente: del todo no me explico
esta resignación sin resistencia,
como si creyéramos que nos lo merecemos.


*

Da allora facciamo progressi a poco a poco,
da quella Santa Notte in cui era appesa
a mo’ di stella un’arancia
e per cometa un lungo porro.
Trovavamo sollievo in cose come

tornare al faro sapendo che il guardiano
non viveva più lì, adesso lo controllano
da qualche ufficio chissà dove.
O come vedere nel patio al mattino

con un insieme di soprassalto e allegria
qualche brace alitante. Le cose
ascoltano, quante volte l’ho detto.
Ma visto che hai chiamato ti dichiaro

un item solamente: non mi spiego del tutto
questa rassegnazione senza resistenza,
come credessimo che ce lo meritiamo.


Traduzione dallo spagnolo di Francesco Tarquini




Edgardo Dobry
è nato a Rosario, in Argentina, nel 1962, e dal 1987 vive in Spagna, a Barcellona. Ha pubblicato i libri di poesia Cinética (Buenos Aires, ed. Tierra Firme, 1999; edizione rivista e aumentata, Madrid, ed. Dilema, 2004), El lago de los botes (Barcellona, ed. Lumen, 2005), Cosas (Barcellona, ed. Lumen, 2008), l’antologia Pizza margarita (Città del Messico, ed. Mango de Hacha, 2011), Contratiempo (Buenos Aires, ed. Adriana Hidalgo, 2014).
Il volume Orfeo en el quiosco de diarios; ensayos sobre poesía (Buenos Aires, ed. Adriana Hidalgo, 2007), raccoglie, tra gli altri, saggi su Mallarmè, Apollinaire, Kavafis, Luis Cernuda e Alejandra Pizarnik.
Fa parte del comitato direttivo della rivista Diario de Poesía di Buenos Aires, ed è collaboratore abituale di Babelia, supplemento culturale del quotidiano El País di Madrid, e di ADN Cultura, supplemento de La Nación di Buenos Aires. Collabora alla rivista Letras Libres, pubblicata a Madrid e in Messico.
Insegna all’Università di Barcellona letteratura ispanoamericana, e poesia contemporanea presso il Master di Teoria della Letteratura della stessa Università.
Appassionato cultore della poesia italiana del Novecento, ha tradotto opere di Giorgio Caproni e Sandro Penna, oltre a diversi saggi di Giorgio Agamben, Luciano Canfora e Roberto Calasso.


tarquini.francesco@fastwebnet.it