Forse assomiglio alla volpe della favola di Esopo, ma mi sono sempre reputato fortunato per non essere nato ricco. Per natura sono pigro e fatalista, e credo che se avessi potuto contare su delle rendite, o su un qualche patrimonio, avrei fatto ancor meno di quel poco che sono riuscito a fare.
Inoltre, ho sempre pensato che vivere nel lusso possa diventare un fardello molto pesante da portare: sazietà, noia, vizi, sensi di colpa e accidenti del genere. No, meglio continuare a credere ai consigli di saggi e filosofi: la più grande ricchezza che possiamo sperimentare è una buona dose di amore donato e ricevuto, di serenità, di stima da parte degli altri.
All’alba del pensiero umano, i saggi greci e orientali si ponevano già quella cruciale domanda: quali sono le cose che rendono piacevole e positiva l’esistenza? I nostri intelligenti antenati non tardarono a capire che vivere in modo sereno e soddisfacente non richiede affatto il possesso di ricchezze. Se possediamo molti beni, ma non siamo capaci di relazioni empatiche, di contatti umani sinceri e profondi, non saremo mai felici. Al contrario, se abbiamo poco o niente, ma viviamo una vita di affetti, di libertà, di pace, non saremo mai infelici.
Molti ricchi (ma non solo loro) si befferebbero di queste conclusioni evangeliche. “È vero”, direbbero, “la ricchezza non dà la felicità, ma aiuta”; oppure “i soldi in sé non migliorano la vita, ma permettono di ottenere i mezzi per migliorarla”. Inoltre, diranno ai saggi i detrattori delle “verità” filosofiche, dovete ammettere che vivere circondati da stima, amore e serenità è spesso una pura dichiarazione di intenti, essendo arduo per chiunque riuscire a possedere tutti e tre questi beni preziosi.
Istintivamente, tutti noi proviamo sentimenti di invidia, sospetto, astio, per coloro che vivono nel lusso. Ma anche nella ricchezza c’è distinzione. Ci sono i nababbi che non perdono occasione per ostentare le loro illimitate possibilità economiche, e quelli che hanno una cultura della ricchezza, e che si tengono lontani da ogni ostentazione.
Sono i primi, tuttavia, a essere più inafferrabili: frequentano case, luoghi e ambienti sempre esclusivi, viaggiano in jet privati, elicotteri e yacht. Ma ci pensano le cronache mondane a svelare le loro esistenze: si scambiano informazioni sui “personal trainer” e sugli “house-hold manager”; indossano solo capi griffati; si incontrano al Four Season’s di New York, al Ritz-Carlton di Mosca, al Burj-al-Arab di Dubai, all’Atlantis delle Bahamas; i loro bambini paiono manichini addobbati dal miglior vetrinista della Fifth Avenue.
Dunque, i miliardari non sono tutti uguali; e forse non c’è argomento, più di quello della ricchezza, che debba indurci alla prudenza del giudizio. Per cominciare, sapevate che i neo-ricchi americani (e non solo americani) sono quasi tutti individui che non hanno ereditato il loro patrimonio, ma se lo sono guadagnato iniziando dal basso, rischiando in proprio e lavorando sodo all’idea che li ha portati al successo? E sapevate che molti dei paperoni del mondo (Bill Gates, Ted Turner, Warren Buffet, Carlos Slim, David Rockefeller) sono dei grandi benefattori dell’Umanità, e che alcuni di essi (come Charles Feeney, il re dei Duty Free Shops) hanno abbandonato il business e investito tutto il loro patrimonio in attività di beneficenza?
Ma ci sono altri punti di vista da considerare. Per esempio, gli schiavi dello shopping compulsivo, i ricchi dediti alla caccia incessante di oggetti esclusivi e costosi, lo fanno solo per vizio, per brama di possesso, per ostentare le loro possibilità finanziarie? Gli psicologi sostengono che le cose che vogliamo possedere a ogni costo sono spesso dei surrogati a bisogni che non riusciamo a interpretare. Vorremmo il miglior capo di cachemire perché in realtà abbiamo bisogno di calore umano, vorremmo vivere nell’agiatezza per poter allargare la nostra base sociale, vorremmo poter comprare oggetti costosi e appariscenti per essere ammirati e trattati da persone di rango.
Personalmente, quando mi imbatto in scene di lusso sfrenato, due pensieri si affacciano alla mia mente; il primo corre verso l’opposta condizione di chi non ha niente, di chi dal banchetto del mondo è rimasto escluso, ed è un pensiero di rabbia, di impotenza, di pena. Il secondo, umanamente consolatorio, mi suggerisce che chi ha già tanto, e vuole sempre di più, sta solo cercando di colmare un vuoto dell’anima.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che quanto più ci distacchiamo dalle cose materiali tanto più cresciamo interiormente. Epitteto, vissuto nel I secolo d.C., ne fa una questione di libertà: l’uomo sarà tanto più libero quanto più saprà restare indifferente ai beni esteriori, interessandosi a quelli interiori. La storia dell’Umanità è piena di spiriti eletti che hanno disdegnato le cose materiali per coltivare un’esigenza assoluta.
Uno dei massimi esempi, in questo senso, è stato offerto da quella che personalmente considero, insieme a Emily Dickinson, la più grande poetessa di ogni tempo. Sto parlando della letterata russa Marina Cvetaeva, nata a Mosca nell’ottobre 1892, morta il 31 agosto 1941. Questa stella del firmamento poetico condusse quasi tutta la sua esistenza in condizioni di estrema indigenza e solitudine. Non solo; rifiutando di piegarsi alle tendenze politiche in atto nella Russia pre-comunista e poi nella Russia Sovietica, dovette sopportare l’ostracismo, le persecuzioni e i giudizi sprezzanti (e falsi) dell’intellighenzia schierata con il potere dominante. Non esiste, nella storia della letteratura mondiale, una parabola umana ed artistica paragonabile a quella di Marina, e un’immagine più tragica di quella di una poetessa di valore assoluto costretta a scrivere queste cose:
Alla sorella Anastasija Ivanovna Cvetaeva, da Mosca, il 17 dicembre russo 1920: “Io e Alja (la figlia - n.d.a.) viviamo sempre nella stessa casa, nella stanza da pranzo (le altre sono state occupate). La casa è saccheggiata e devastata. Un tugurio. Nella stufa mettiamo i mobili”.
All’amica Olga Eliseevna Cernova, dalla Boemia, il 3 dicembre 1924 (parlandole dell’imminente nascita del figlio, che chiamerà Georgij – n.d.a.): “L’evento avrà luogo tra due mesi e mezzo, e io non ho nulla, neanche il nome dell’ospedale. Non sono stata neppure una sola volta dal dottore – insomma è tutto nelle mani di Dio. C’è bisogno di talmente tante cose che mi gira la testa: oltre ai vestitini e panni vari – la carrozzella, la tinozza per il bagno – da dove le faccio saltar fuori? Siamo indebitati fino all’osso, io questo mese non ho guadagnato nulla”.
All’amico Nikolaj Pavlovic Gronskij, dalla Francia, nel febbraio 1931: “Non vi avanzano, per caso, un po’ di franchi? Stiamo morendo di fame. Tutte le risorse di denaro sono finite di colpo, e la Novaja Gazeta non ha preso il mio articolo”.
All’amica Anna Antonovna Teskovà, dalla Francia, il 27 gennaio 1932: “Siamo nella più nera miseria, non abbiamo pagato l’affitto (su 1300 franchi avevamo spedito un anticipo di 700, la padrona di casa ce li ha rimandati indietro perché li voleva tutti insieme), e noi, naturalmente abbiamo cominciato a spenderli perché non abbiamo di che vivere…”.
Al Soviet del Litfond (una volta tornata nell’Unione Sovietica), da Cistopol (Repubblica Tatara), il 26 agosto 1941: “Chiedo di essere assunta come sguattera nella mensa del Litfond di prossima apertura”. (Cinque giorni dopo, non essendo riuscita ad ottenere un lavoro, Marina Cvetaeva si impiccherà nella cittadina tatara di Elabuga).
Un’intera vita di miseria, sofferenza, delusioni, per la grande anima russa che scrisse: “Della poesia hanno bisogno soltanto le cose di cui nessuno ha bisogno. È il luogo più povero di tutta la Terra. E il più sacro”.
Rabbia, incredulità, dolore, accompagnano la lettura dell’epistolario di Marina Cvetaeva, dove le lettere di questo tenore superano nel numero quelle, di grande valenza letteraria, dove parla di arte, di poesia, di letteratura. Ma il mondo delle lettere, fortunatamente, ama accogliere gli individui che nella vita non sono riusciti. La povertà, la solitudine e il dolore, che immiseriscono l’uomo comune, sono dei formidabili alleati dei grandi spiriti.
“Gli anni felici”, scrive Proust nella Recherche, “sono anni perduti, si aspetta una sofferenza per lavorare. E’ il dolore a sviluppare le forze dello spirito”.
Distacco dalle cose materiali, solitudine e sofferenza sopportate con eroica abnegazione, assoluta dedizione alla poesia: ci sono indizi più sicuri per farci capire che Marina ha posseduto la massima ricchezza spirituale, la fusione totale fra vocazione ed esistenza?
“Non amo la vita come tale”, scriveva il 30 dicembre 1925 all’amica Anna Antonovna Teskovà, “la vita per me comincia ad avere senso – cioè ad acquistare significato e peso – solo trasfigurata, e cioè nell’arte. Se mi prendessero al di là dell’oceano – in paradiso – e m’impedissero di scrivere, io rinuncerei all’oceano e al paradiso”.
E all’amica Vera Nikolaevna Bunina, dalla Francia, il 20 marzo 1928: “Detto questo, con vergogna, come sempre quando si tratta di denaro – che io disprezzo, e che con la stessa moneta mi ricambia (chi riuscirà a odiare di più: io i soldi o i soldi me??) – accludo la mia domanda”.
Ci sono persone che hanno trascorso l’intera esistenza negli agi e nelle ricchezze, soddisfacendo ogni voglia, ogni capriccio. Altre hanno vissuto di valori diversi, più intimi e profondi. Un’altra donna nata povera, Françoise d’Aubigné, ma dotata di tale fascino e intelligenza da diventare la moglie morganatica del Re Sole, e passare alla storia col nome di Madame de Maintenon, diceva: “Non davo alcun peso alle ricchezze, ero infinitamente al di sopra dell’interesse, ma volevo l’onore”.
Come e più di lei, Marina Cvetaeva non dava alcuna importanza ai beni esteriori. Spesso chi vive una vita accontentandosi di godere delle ricchezze materiali scompare per sempre dalla scena del mondo. Marina, che ha perseguito l’unico lusso di credere nella propria grandezza, vi resterà in eterno. Coraggio, indipendenza di giudizio, amore per la libertà e per la bellezza del Creato: Marina Cvetaeva ha estratto questo dal mondo, trasfondendolo in poesia e facendone l’essenza di ogni giorno, di ogni attimo della sua vita.
Marina Cvetaeva (1892-1941), nata a Mosca, crebbe in anni di prodigiosa fioritura della poesia russa. Esordì, ancora studentessa liceale, con i versi di Album serale (1910) e già prima della Rivoluzione aveva pubblicato altre due raccolte poetiche. Esule a partire dal 1922, prima in Boemia e poi a Parigi, decise di tornare in Russia nel 1939. Dopo due anni, povera e smarrita, muore suicida a Elabuga. La riabilitazione della sua opera poetica avvenne solo a partire dagli anni sessanta.
In Italia sono uscite le Poesie (a cura di Pietro A. Zveteremich) presso Feltrinelli e presso Adelphi i carteggi Il paese dell’anima. Lettere (1909-1925), Deserti luoghi. Lettere (1925-1941) e la raccolta di saggi Il poeta e il tempo.
armando.santarelli@inwind.it
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