FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 26
aprile/giugno 2012

Botteghe

 

LE PAROLE PER GLI ALTRI
Appunti su Dismenteant ogni burlaz di Nelvia Di Monte

di Anna Elisa De Gregorio



È “un’anima divisa in due” questo libro di poesie di Nelvia di Monte, scritto in una “ritrovata” lingua friulana dell’infanzia (trascorsa a Pampaluna in provincia di Udine) scandita in lucidi endecasillabi che danno il giusto ritmo meditativo al racconto. Un libro concepito in due sezioni, come l’interno di un medaglione. Nella prima, “Peraulis sfrisadis” (Parole scalfite), troviamo la parte “civile” del cuore di Nelvia Di Monte: poemetto in undici quadri numerati, fluidi, senza mai un punto fino alla fine, rivolto al fenomeno della globalizzazione, con toni dolenti e spesso drammatici (bene ci aiutano e ci chiariscono, circa i luoghi e i personaggi, le note finali dell’autrice).

Esistono ancora poeti, per nostra fortuna, che rivolgono la loro attenzione all’ “altro” da sé, ai nuovi, attualissimi fenomeni sociali che ci coinvolgono e alle responsabilità che ne conseguono, proprio questo accade in “Peraulis Sfisadis”. La poeta dà voce a un capitano di cargo su rotte internazionali (un emigrante d’élite perché può rientrare a casa, in Friuli, dopo ogni viaggio di lavoro) che racconta la “globalizzazione” in mezzo alla quale vive e combatte. Ma la sua, comunque, è stata una scelta di vita, i veri emigranti sono i clandestini che si imbarcano di nascosto sulla sua nave, dice Nelvia Di Monte. Queste due diverse dimensioni del continente emigrazione sono ben presenti e chiare nel poemetto: nel capitano la lontananza è vissuta come migrazione esistenziale, come consapevolezza che niente è mai fermo, è una riflessione sul fatto che tutto si trasforma troppo repentinamente e tutto rischia di perdersi (compreso il senso del tempo e della propria identità). Altra sostanza ha l’emigrazione reale di chi, da lontani paesi, arriva in condizioni disperate in Europa e particolarmente in quel Friuli, fino a pochi decenni fa terra di emigranti altrettanto disperati.

La “Global economy” nel pensiero del capitano del cargo prende a volte sembianze di un diabolico “essere” che ha la capacità di cambiare l’anima delle persone: «Global economy-mi à gambiât/ in tun barcjarul framiez doi infiârs:/ sence dignitât, dulà isal plui ben?» (Global economy mi ha trasformato/ in un traghettatore fra due inferni:/ senza dignità, dove è meglio?). Nei versi subito precedenti ci racconta il perché di queste sue parole: «Robis e omps spaurîts che cirin un gnûf/ destìn e s’imbarcjin d’ascôs e cuan che/ tu ju cjatis, tu puartis istès/ daûr- surîsche no tu viodis l’ore/ di parâ vie, jù dal to granâr» (Merci e uomini spaventati che cercano un nuovo/ destino e s’imbarcano di nascosto/ e quando li scopri, te li porti dietro/ comunque - topi che non vedi l’ora/ di cacciar via, giù dal tuo granaio).
Sono i clandestini per i quali «la tua carne non vale niente, se/ viaggi stoccato peggio dei sacchi di caffè/ di un casco di banane, che almeno/ da una carta viene accompagnato!».

Nelvia di Monte si è già interessata al tema dell’emigrazione in un precedente volume del 1996, Cjanz da la Meriche (Canti dall’America, Firenze, Gazebo), dove in forma epistolare dà voce agli emigranti friulani che nel secolo scorso partivano per l’Argentina in un esodo forzato per fame, dando forma al senso di straniamento e alla nostalgia di chi mai prima si era mosso dalla propria casa dove un distacco è sentito “per sempre”. Forse le stesse persone che oggi hanno dimenticato la loro esperienza e perciò non sono sempre umanamente accoglienti con i nuovi emigrati.
Racconta la Di Monte che a circa sei anni è andata via dal suo paese per andare in Lombardia. Il dialetto natale era considerato dalla famiglia lingua proibita e l’integrazione la necessità primaria. Dapprima, quindi, parole del dialetto sono state messe da parte “come i nomi di una vecchia agenda telefonica da cambiare”, allontanate, poi riascoltate durante le vacanze scolastiche, alla fine riscoperte dopo una perdita familiare importante in età adulta. “Parole intese un tempo, carezze, sogno, che entrano poi in una dimensione di senso”. Lingua dell’ascolto e lingua narrante per Nelvia Di Monte: difficilmente, infatti, parla in prima persona nella sua poesia, ma “fa raccontare” storie ai protagonisti. Accade in questa sua ultima fatica, nel già citato Cjanz da la Meriche, ma anche in Ombrenis (Ombre) del 2002, una “Spoon River gelida e fangosa come le acque del fiume che rotolano sulla voce narrante” (Anna De Simone in Poesia Italiana) tutta al femminile.

La seconda sezione del libro (eponima), “Dismenteant ogni burlaz” (Dimenticando ogni temporale), raccoglie in otto quadri, segnati da brevi titoli, quasi asterischi, un cantare più intimo, ci riporta al qui e ora del quotidiano, a piccole esperienze, minime illuminazioni personali, che fanno da spunto per considerazioni più ampie, a volte sapienziali, temi presenti anche nel precedente volume Cun pàs lizêr del 2005. Poesie che danno ascolto “all’urgenza di comprendere più che di narrare”(Achille Serrao in Periferie). Anche al bisogno (esplicitato nei “condizionali”) di andare verso un tempo più sereno, una natura “buona” e salvifica. Parole che suonano un po’ come una preghiera: «Propi di aghis o vorès contâ ma no/ dal fons: de lôr inmagade serenitât/ che rive sence inacuargisi// dismenteant ogni burlaz traviarsât,/ monsons ch’a messeri fôs e mâr, burascjis ch’a rivochin ondadis/ di pôre a torzeon dentri oceanis» (Proprio di acque vorrei raccontare ma non/ del fondo: della loro trasognata serenità/ che giunge senza accorgersi// dimenticando ogni temporale attraversato,/ monsoni che rimescolano delta e mare/ tempeste che eruttano ondate/ di paura a zonzo dentro oceani), oppure in Rifles: «Nol treme il spieli di aghe basse/ ch’al siare intôr palûts e vencjârs,/ dut fêr il rifles dal cjanêt…» (Non trema lo specchio di acqua bassa/ che abbraccia giunchi e salici,/ immobile il riflesso del canneto). Ma nell’ultima strofe struggente e bellissima della medesima poesia si dice anche «Dentri un voli lontan il rifles/ di noialtri: nuje plui di curtis/ ingrispaduris tal timp? Il svual/ une olme tal blanc, rimarginade» (Dentro un occhio lontano il riflesso di noi: nulla più di brevi/ increspature nel tempo? Il volo/ una traccia nel bianco, rimarginata).

C’è un “riflettersi”, un guardarsi dentro: la natura fa intuire a tutti noi la condizione umana, ma il poeta la “dice” sulla carta, diventa nostro “portavoce”. C’è sempre in Nelvia Di Monte un rivolgersi al “noi”, la necessità di condividere con i compagni di avventura: ancora una volta è come se facesse “raccontare” e desse voce al mondo.
Nella chiusa finale del libro, colta e profonda, il poeta ci ricorda, novello Qoelet alla rovescio, che certamente tutto è vanità, ma anche possibilità di riscatto, attraverso la memoria, attraverso la delicata speranza della poesia: «A saràn altris musis ancjemò/ par lèi alc di nô – chês forsi piardudis/ oin spiete dentri critai di zilugne// “al è timp par vivi” e peraulis par rivivi…» (Ci saranno altri visi ancora/ per leggervi di noi-quelli forse perduti/ o in attesa dentro cristalli di brina// “c’è un tempo per vivere” e parole/ per rivivere…)


Nelvia Di Monte, Dismenteant ogni burlaz (Dimenticando ogni temporale), Edizioni Cofine, Roma 2010, Premio Città di Ischitella – Pietro Giannone, pagg. 32, euro 6,00.




Nelvia Di Monte
è nata a Pampaluna (Udine) nel 1952 e risiede in provincia di Milano, dove insegna lettere.
Ha pubblicato Cjanz da la Meriche (1996), Ombrenis (2002), Cun pàs lizêr (2005), Dismenteant ogni burlaz (2010), Nelle stanze del tempo (2011).
Sui testi poetici in friulano sono stati pubblicati da varie riviste, anche all’estero, e in antologie.


 


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