Il mondo proposto da Angela Donna nel suo libro di racconti brevi Paese dell’anima (2009, Ed. Giancarlo Zedde) è quello rurale per forza di cose in via di estinzione, messo in luce in una stagione – quella dell’infanzia – ricca di meraviglia e affetti, di orologi nel panciotto, di salumieri che tengono aperto la domenica mattina.
La narratrice ci apre la porta di “una infanzia ripopolata nella saga di un cortile di paese, tra botteghe e negozianti, montagne di salumi, uva passa, nonni, zii, cugini, frotte di bambini”.
I personaggi hanno nomi che al lettore diventano presto familiari come Tòta (Zia) Elda, monsù Pin, la signora Pèsca gelosa del suo segreto dei cappelletti, la Gelotti lavandaia coi geloni… senza dimenticare il nonno dell’autrice che voleva figli maschi affinché continuassero a macellare i maiali per la premiata Salumeria Enrietta.
E poi, mette in scena tutta quella gioventù di paese che secondo le sorelle Pastor «A ghigna par an fi sèc e na mangris an cavagnèt» (letteralmente: «ride per un fico secco e ne mangerebbe un piccolo cestino»). Abbiamo il sospetto che, con altri nomi, altre sembianze, un tempo popolassero i paesi di ogni luogo del mondo. Talvolta ci ispirano gioia e nostalgia, altre volte danno l’idea di un quadro dipinto dalla memoria che scalpita per farli uscire dalla cornice.
Ma a ripensarli, i personaggi, a reinventarli – ad uso e consumo di chi vive nel frastuono, di chi passa la vita a mantenere le distanze generando una solitudine mortale –, ci salvano. Perché a leggere questi brevi racconti, nell’epifania di un dettaglio, nelle loro feste e miserie, nell’ironia che fa spesso capolino, la nostalgia si trasforma in flusso d’energia che scalda l’anima. E si scorge in filigrana che dietro la voce della narratrice permane quella di Angela Donna poeta di autentico respiro, con parole fatte di passi leggeri, d’odor di cipria, di mandorle e vaniglia, di formaggini bebè, d’appretto azur per dare ai panni il color azzurrognolo.
Che cosa accade poi all’infanzia? Accade che si sfalda e non è più l’infanzia. La narratrice lo sa. Lascia il paese nell’età «in cui non ci si può più guardare indietro». Ma tant’è, ha sete, la memoria. A richiamarla sale e scende come la marea e pare rallentare il passo del tempo.
barba Tonin (da Paese dell’anima)
anche le pietre sono in amore
E invece lui continuava a fare sòcule.
Caparbio. Lento. Tranquillo. Indossava il grembiule di pelle marrone. L’ampia tasca raccoglieva il fazzoletto da naso insieme a minimi attrezzi e qualche truciolo che per caso vi si era infilato. La barba era sempre un po’ lunga come se non avesse mai tempo di farla - lui che di tempo ne aveva tanto. Senza più Caterina.
Si lustra gli occhialini rotondi con la montatura in metallo e una lente rappezzata dal cerotto. Poi si avvicina ai vetri della porta-finestra trascinando con sé sgabello e deschetto da lavoro. Prende una sgorbia. Prima di cominciare si attarda a guardare fuori. Lungamente con gli occhi appena socchiusi in controluce. Passava in rivista l’orto ancora umido di rugiada davanti al locale al pian terreno - che gli serviva da laboratorio - mentre la bottega antistante si affacciava sulla strada principale. A san Grato lo conoscevano tutti: Tonin. Il ciabattino. Apriva i battenti delle persiane del negozio e – a grossi chiodi – appendeva fuori le paia di zoccoli accoppiati con un laccetto di cuoio. Esposti in bella vista. Perché Tonin aveva il senso estetico che regala la lentezza. Che poi – forse – è la stessa cosa della saggezza e non si elogia mai abbastanza.
Gli avevano fatto pressione – i figli – perché ormai gli zoccoli di legno fatti da lui a mano non li comprava più nessuno e che smettesse. Faccia qualcosa di più redditizio. Compri direttamente dal calzaturificio le scarpe superga e gli stivali di gomma. Ma lui – che era diventato un po’ sordo con l’età – forse da quell’orecchio davvero non sentiva. E non risponde. Lascia dire. Che si sbraccino pure. Lui continua a fare sòcule. Lentamente. Tranquillamente. Soddisfatto.
Palpava ogni singolo pezzo di legno con deferenza. Lo percuoteva leggermente. In ascolto di ogni minimo scricchiolio che potesse rivelargli l’anima segreta delle venature e dei nodi. Il cuore del tronco. Forse il cuore stesso dei boschi da cui proveniva. Era ispirato. Intorno non esisteva altro.
Tonin era un semplice. Di quelli che ne trovi pochi e devi cercarli con il lanternino. Un guru. Un illuminato. Perché i toccati da dio sono grandi anime nascoste in uomini puri come colombe. Scendeva dalla montagna. Da giovane povero è emigrato nella bassa. Come contadino di pianura ha imparato ad arare giornate di campi di meliga e di girasoli. Ha sgravato vacche e allevato – per il padrone – i vitelli da ingrasso da vendere alla fiera del santo. Ha usato zoccoli di legno per non affondare nella pàuta. Contadini – che quando vanno in città gli gridano con disprezzo: ecco che arrivano gli zoccoloni. Scarpe grosse. Cervello fino. E lui il cervello non l’ha lasciato in montagna. L’ha portato con sé. In montagna ci ha lasciato il cuore. Ai boschi. Al silenzio. Alla chiesa sotto il monte dove è stato battezzato e dove ogni mattina andava a ricevere l’ostia… t’adoriam ostia d’amor… l’ostensorio raggiato e raggiante… il turibolo… l’incenso. È tutto così bello. E la bellezza è il segreto del mondo. La processione alla Madonna della Montagna. Si mangia e si beve. Cosa c’è di male a fare festa e a divertirsi dopo la messa. Siamo esseri umani e il sangue scorre nelle vene. La gente che arriva da tutte le parti. Caterina luminosa in mezzo al prato. È un uomo di fede Tonin.
Fu tra tutta quella folla colorata durante una di quelle ricorrenze – credo – che decise di lavorare il legno. Legno alberi alberi boschi boschi montagna. Montagna: tutta la sua vita. Stabilì che avrebbe fatto zoccoli perché li conosceva bene. Ne aveva sentito tutti i difetti indossandoli per lungo tempo. Le gibbosità sporgevano anche attraverso i calzettoni spessi. Di lana grezza con i talloni rinforzati da pezze di fodera da materasso.
Cominciò quasi per gioco. Stupito e anche timoroso di prendere tra le mani un ciocco vivo. Sì. Anche il legname ha la sua anima. Questo ho imparato da lui. È sacro. È un miracolo e va avvicinato con rispetto. Il divino è materia. Tutta la creazione. Dentro un pezzo di legno.
Ogni zoccolo era un pezzo a sé. Ogni paio un prodotto unico e irripetibile. Capolavori di fino. Come fina fina era l’ultima carta vetro per le rifiniture. Un segreto. Tecnica come poesia.
Tonin era un artista. Cos’è l’arte se non il mestiere totale? Vita immagine forma rinchiusa che si libera?
Amore.
Amore.
E ancora amore.
Amore del tutto.
Quella marcia in più che li aveva uniti fin dal primo guardarsi. Che aveva fatto di Tonin e Caterina un marito e una moglie. Che aveva generato i loro figli maschi e la piccola Maria ia ia come la canzonavano i fratelli maggiori per farla arrabbiare. I suoi figli che gli volevano bene anche se non lo capivano. Caparbio. Testone. Fuori dal mondo. E forse anche un po’ fuori di testa.
Quando andavo a trovarlo mi sedevo sul sofà di ferro battuto con le molle sgangherate. Cigolanti. E respiravo l’amore. Semplicemente. Dalle cose intorno. Dall’aria. Da un pulviscolo di ori dentro i raggi del sole tardivo - in ottobre - che si allunga sul pavimento di cotto inanellato di trucioli biondi.
Senza inutili parole. Sorridendo. Continuava tranquillo a intagliare gli zoccoli. Mio zio Tonin.
sòcule = zoccoli
bassa = pianura
pàuta = fango, mota
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L'immagine nel racconto è una foto di Lino Cannizzaro, scattata nel Museo dell'Olivo e della Civiltà Contadina di Arnasco (SV), e rappresenta un calzolaio dell'epoca.
Paese dell’anima – racconti brevi, Ed. Giancarlo Zedde, 2009, pagg. 53, euro 7,00.
Angela Donna è nata a Castellamonte, nel Canavese, nel 1953, attualmente vive e lavora a Torino. Ha partecipata e ottenuto premi in diversi concorsi letterari. Ha pubblicato i libri di poesia: La Malarecchia de la biribana (L’inquietudine di una birbante, Genesi, 1991); Farfalle di Dio (Genesi, 2004); Gatta donata e i suoi fratelli (Genesi, 2010) e Salmi della notte. Dio del Vero desiderio (Genesi, 2010).
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