Quando Irene uscì dall'appartamento del suo amante e cominciò a scendere le scale, tutto d'un tratto quella paura insensata tornò a impadronirsi di lei. All'improvviso una spirale nera prese a mulinarle davanti agli occhi, le gambe erano bloccate da una morsa di ghiaccio, ed ella dovette aggrapparsi in fretta alla ringhiera per non cadere bruscamente in avanti.
Così inizia Paura, di Stefan Zweig, pubblicato di recente da Adelphi.
Dopo qualche secondo la "morsa di ghiaccio" sembra sciogliersi, Irene si scuote e riesce a proseguire la discesa, ma nell'androne incontrerà una donna che le sconvolgerà la vita, trasformando quella paura insensata in un nodo intricato fatto di sensi di colpa, di timore di essere scoperta, di consapevolezza che potrebbe perdere tutto ciò che ha.
Il percorso del racconto è tutto nella testa della protagonista, i pochi fatti che accadono si trasformano in incubi notturni ma anche, e soprattutto, in una stretta progressiva e implacabile nella sua vita reale, che sembra portarla ineluttabilmente alla scelta finale, sciolta da un "coup de théâtre" sorprendente.
Mentre ci accompagna in questo viaggio nella mente della protagonista, Zweig ci descrive la vita di una signora dell'alta borghesia viennese del tempo (il racconto è del 1925), mediata da suggestioni freudiane che non travalicano mai la sfera della narrazione, e in cui il luogo e il tempo precisi dell'azione sfumano ben presto in sentimenti che potrebbero albergare in qualsiasi mente femminile (o anche maschile, se è per questo):
La sazietà non è meno tormentosa della fame, e quella vita protetta, priva di pericoli, suscitava in lei la curiosità dell'avventura. Mai alcunché finora le aveva opposto resistenza.
Ma in questo caso, come avviene spesso anche in altri, la curiosità dell'avventura con l'amante musicista era svanita quasi subito:
... anche questo misterioso eccitamento fu davvero emozionante solo nei primi tempi. D'istinto ella si ribellava in cuor suo a quell'uomo e soprattutto a quanto di nuovo scopriva in lui, quella diversità che l'aveva per l'appunto incuriosita. I suoi abiti eccentrici, il suo tenore di vita bohémien, le sue finanze sregolate, di continuo oscillanti fra dissipazione e ristrettezze, irritavano in lei la sensibilità borghese. Come la maggior parte delle donne voleva che l'artista fosse molto romantico da lontano e molto educato nei rapporti personali: una fiera superba, ma dietro le sbarre delle buone maniere.
E così la povera Irene non ha nemmeno la consolazione di un amore romantico da salvare, non ha la possibilità di scegliere, ma solo il peso tremendo di una catastrofe che non sa assolutamente come fronteggiare, se non guadagnando un'illusoria dilazione ogni volta che esaudisce le pretese della ricattatrice.
Leggendo il racconto, l'immagine che viene in mente è quella di una giostra, in cui la mente della protagonista è il perno centrale, attorno al quale girano sempre più vorticosamente gli altri attori: il marito, la ricattatrice, l'amante, i figli, la servitù, la casa della tranquillità e quella del peccato, con la differenza che qui il perno centrale non ha il controllo della rotazione, ma ne è schiacciato:
Adesso il terrore si era insediato in casa sua e non ne abbandonava le stanze. In tutte quelle ore vuote che, a ondate successive, le riportavano alla memoria le immagini dello spaventoso incontro, ella acquistò piena consapevolezza di quanto disperata fosse ormai la sua situazione. [...] Ineluttabile era dunque la catastrofe, lo avvertiva adesso con angosciosa certezza, impossibile sfuggirne.
Ma accanto a questa scena di tregenda affiorano consapevolezze che probabilmente sarebbero rimaste ignote, se quell'improvviso avvenimento non avesse terremotato le apparentemente granitiche certezze della vita di Irene. I brani più belli in questa parte del racconto sono quelli dedicati al rapporto con il marito, a quel flusso tranquillo fatto di agio e abitudine, durato per otto anni e ora interrotto da una diga che ne stravolge il corso e ne mette a nudo la sostanziale pochezza:
... ma solo adesso, mentre si chiedeva quale sarebbe stata la sua reazione, capiva quanto lui le fosse ancora estraneo e sconosciuto. Volgendo febbrilmente lo sguardo all'indietro, quasi a scandagliare gli ultimi anni alla luce di fantomatici riflettori, scopriva di non aver mai indagato la vera natura del consorte e adesso, dopo tanto tempo, di non sapere nemmeno se fosse rigoroso o conciliante, severo o capace d'affetto. [...] Senza volerlo si mise alla ricerca di piccoli particolari e indizi per ricordarsi come avesse giudicato questioni analoghe, conversando con lei, e con amara sorpresa fu costretta a riconoscere che il marito non le aveva quasi mai parlato delle sue opinioni personali, così come, dal canto suo, lei non gli aveva mai posto domande di tale profondità. [...] Quasi fosse quello di uno sconosciuto, Irene ne guardava adesso il volto, cercando di indovinare in quei tratti familiari, tornati di colpo ad apparirle estranei, il carattere che otto anni di vita in comune avevano celato alla sua noncuranza.
Il nodo che attanaglia la vita di Irene alla fine si scioglierà, con il colpo di scena ricordato all'inizio, lasciandola libera di dedicarsi alla dolcezza del ricordo e poi dell'oblio:
Dentro di sé provava un leggero dolore, ma era una sofferenza piena di promesse, ardente e dolce al tempo stesso, come le ferite che bruciano prima di cicatrizzarsi per sempre.
La scrittura è netta, fatta quasi sempre di frasi brevi; il discorso diretto è limitato a poche frasi che scandiscono l'azione, come se l'impotenza della protagonista emergesse da questa impossibilità di comunicarla se non a se stessa. La storia è narrata esclusivamente dal punto di vista di Irene, e il narratore si limita a scandagliarne l'animo, come se fosse solo un tramite per farla parlare con il lettore. Per la traduzione, basti dire che è di Ada Vigliani.
Stefan Zweig, Paura, trad. di Ada Vigliani, Adelphi, Milano, 2011, pagg. 113, €10
ierolli@hotmail.com
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