Non è mai troppo tardi per inventarsi un’infanzia felice Chiara Gamberale
Lo chiamavo Sorsanzio, come tutti in famiglia, quando gli si rivolgevano. Parlandone fra noi, invece, dicevamo il padrone. La prima volta lo sentii nominare da mio padre: «È cavaliere, commendatore, grand’ufficiale. Scrive i libri, fa le statue. Fra il Fornetto e il Pinocchio, ha otto terreni. Ce n’è uno di pochi ettari, comodo, che si sta per liberare. Perché non ci facciamo avanti?». Babbo era convinto di portarci a star meglio: «Con un po’ di fortuna, potremo diventare contadini di Blasi», insisteva: «È un uomo perbene. Di agricoltura s’intende».
Le sue terre, alle porte di Ancona, erano piene di ogni ben di Dio. Le dominava la Villa, col balcone e la facciata traboccante di rose, in mezzo a un boschetto. Da lassù lo sguardo poteva spaziare fino al Cònero, se non si era distratti dalla bellezza del grande giardino. Vi erano aiuole, siepi di bosso, palme, un cervo di bronzo. E persino una fontana, con degli scalini da dove scendeva, esitante, come temesse il contatto con l’acqua, una giovane donna, coperta solo da un velo sul ventre. Poco lontano, col parasole e i cuscini intonati, c’era un dondolo bianco.
Mio padre aveva poco più di trent’anni, la metà del futuro padrone. Una bella mattina – o la va o la spacca – aveva inforcato la bicicletta e si era presentato al Fornetto, offrendosi come mezzadro.
Il proprietario non la mandò per le lunghe; gli fece un paio di domande e concluse: «Mi vai bene come persona. Mi va bene la famiglia che hai. La terra è tua». Babbo raccontò che sulla via del ritorno, pedalando, non sentiva più le gambe; gli sembrava di avere le ali.
Una mattina d’estate, Blasi comparve sull’aia: vestito di chiaro, alto ed elegante, cappello e scarpe di tela. Dalla loggia dove giocavo, mi accorsi di lui all’improvviso, quando il cane abbaiò. Nonna, sopraggiunta dalla cucina, lo salutò chiamandolo Sorsanzio. Nome inaudito, simile al sorso di una misteriosa bevanda. Anche a dividerlo in due, rimaneva un enigma. Ne venni a capo solo quando sul sussidiario incontrai il Sanzio vero, Raffaello, e rimasi ammirata.
Il padrone un po’ gli somigliava, specie negli occhi scuri, luccicanti di idee e sentimenti. La sua voce limpida, nonostante il respiro talvolta affaticato dall’asma, era in sintonia con la sua persona; come le mani, che muoveva in modo naturale, sia quando plasmava l’argilla o la cera, sia quando coglieva le rose o scriveva. Ma di più mi piacevano i suoi gesti di premura verso la Signora Rita, sua seconda moglie, dalla figura snella e slanciata, che non conobbe gravidanze.
Lei, nata contessa Calòri, era di Roma. Fiera dei seni marmorei e delle lunghe gambe nei pantaloni affusolati, o negli abiti al ginocchio, conservò un bell’aspetto fino ad età avanzata. Cipria e rossetto rosso erano l’unico trucco che concedeva al volto aristocratico, al sorriso un po’ irregolare, ma non freddo, valorizzato da cappellini che avevano sempre un tocco di grazia.
Sanzio Blasi – a trentacinque anni già vedovo, oltre che padre di Eugenio e Gustavo (caduto in guerra nel 1943, da alpino) – non aveva tardato a sposarla. Appassionata di lettere e arti, la contessa era una donna molto sofisticata: lei i diamanti, lei le pellicce, lei gli abiti da sera più favolosi. E i ritratti, in varie pose, disseminati per casa; in giardino, una scultura a grandezza naturale. Lui l’adorava: le offriva le rose più belle, le cercava cameriere esperte e pazienti. L’accompagnava da sarte e modiste, la portava ad Amalfi e Positano, in Spagna, a Bruxelles, Venezia, Parigi, in Svezia e Norvegia.
Quando i padroni venivano a cena da noi, per la Signora Rita bisognava preparare la seggiola migliore, con il cuscino. Era lei la protagonista. La sua conversazione suscitava continue sorprese: una volta, definì virgiliana la nostra polenta; un’altra, luculliano l’insieme delle portate. Se poi mostrava l’ultimo bracciale, realizzato dall’orafo più in voga in città, su suo originale disegno, sembrava di essere al cinema. Così pure quando usava espressioni francesi: foulard, boutique, élite, rouge et noir, frigidaire… Il Sorsanzio, in quelle occasioni, parlava in modo semplice, anche in dialetto. L’anconetano, d’altronde, era il tratto saliente dei libri che aveva pubblicato: Dolci ricordi di caccia, Tempi sereni, Da Capodemonte al Guasco. A volte arrivava con dei manoscritti e ci leggeva nuovi intrecci. Storie belle, condite di buonumore; tenevano alto il morale, divertivano tutti.
Altre volte, egli interrogava mia madre su certe leggende di terra e di mare. Lei citava il buco della paura, che si apriva vicino al Monte Cònero. Oppure il telaio d’oro, con annessi chioccia e pulcini, rinchiusi in una grotta insieme alla tessitrice, presso la spiaggia delle Due Sorelle. Il Sorsanzio l’ascoltava con attenzione anche quando parlava di Don Antonio Gioia, il santo di Ancona. Un giorno, mentre lo descriveva, egli ne delineò la fisionomia con rapidità, su un foglio già pieno di appunti, deciso a celebrarlo con una medaglia. Di lì a poco, vedendo l’opera realizzata, mamma si commosse.
A Villa Blasi entrai la prima volta a sei anni, portando una canestrella di pesche profumate, a forma di limone. Davanti al grande cancello chiuso, rimasi interdetta finché non vidi un filo di ferro che terminava con una maniglia. Allungandomi sulla punta dei piedi, l’afferrai. A una certa distanza, risuonò una campana, raggiunta dal movimento da me provocato. Attesi un po’ prima di udire dei passi sul viale d’ingresso e vedere una donna in abito azzurro e sinale bianco, di pizzo. Pensai fosse qualcosa a metà tra una signora e un’infermiera e la seguii sul breccino del viale, a passetti veloci.
I padroni erano in giardino, con larghi cappelli e l’aria serena. «Come si chiamano queste pesche?» mi domandò il Sorsanzio. «Slappi», risposi senza esitare. Fu così che passai sotto il portico e poi nella bellissima stanza adiacente: una cucina americana molto grande, divisa in due da una parete a vetri, sorretta da una intelaiatura rossa. Bianco, a piastrelle rettangolari – qualcuna nera, qua e là – era invece il pavimento, che splendeva di perfezione. Come i rubinetti, la cappa, i fornelli, intravisti in lontananza. Nel primo ambiente, il tavolo da pranzo e le seggiole erano di lucente fòrmica rossa. Un frigo Bosch, panciuto, borbottava di fianco a una mensola, dove troneggiava un maestoso telefono. Ero ancora in contemplazione quando fui riscossa dalla domestica, che mi guidò fuori, a salutare i Signori. Vidi che sedevano vicini, sul dondolo.
Il laboratorio di Sanzio Blasi si apriva accanto all’autorimessa, sul lato lungo del portico, che aveva il pavimento di ceramica azzurra e, tutt’intorno, dei sedili in muratura, completati da grandi cuscini gialli. Le pareti erano rallegrate da piastrelle multicolori, alcune con soggetti marini: un granchio, un ippocampo, un delfino. La Signora Rita diceva di essersi ispirata a un patio spagnolo. «L’atelier, invece, è il regno di Sanzio» amava sottolineare.
L’atelier era un luogo affollato, ma sembrava che l’ospite fissa fosse l’assenza. Più forte quando dalle finestre e dai lucernai entravano certi raggi di luce, quasi extraterrestri, che s’intersecavano sul pavimento. Da una parte, in penombra, col mantello sopra una spalla e in mano una lunga asta inclinata, c’era un uomo di legno, snodato. In fondo si ergeva un angelo bianco, con seni di donna e capelli arruffati. Sembrava andasse controvento, con la lunga veste aderente al corpo, leggera come un velo di pioggia. Teste di donne, bambini, ragazzi, busti di uomini, profili di Madonne stavano arrampicati su vari ripiani. Un parapetto a mattoncini, dove alloggiavano altre creazioni, circondava quasi tutto il laboratorio, occupato anche da scaffali, cavalletti, basi, piedistalli, tavoli a più scomparti. Vi erano squadre e righe appese alle pareti, mentre attrezzi, utensili, materiali, stavano sparsi qua e là, o addossati fra loro.
«Con l’armonia della natura non si può tirare a indovinare», disse il Sorsanzio, mentre mi prendeva le misure, prima di iniziare a modellare la mia testa. Nonna mi aveva raccolto i capelli in due trecce tiratissime e, ora, conciata in quel modo, mi vedevo rinascere grigia, di malta. Dovevo accennare un sorriso, invece mi incantavo sui gesti dello scultore. Vedevo l’attenzione con cui dava vita alla fronte, allo sguardo, la cura con cui torniva il collo. Avrei voluto fletterlo un poco di lato, ma trattenevo perfino il respiro. Stavo ferma, immobile come una statua.
Grazie a lui e alla Signora Rita, passavo ore in altri mondi e poi riemergevo, portandone schegge in spazi di immaginazione: un volume piccolo, antico, la copertina impressa a lettere d’oro – Giacomo Leopardi / Canti. Il diario con chiusura a scatto e chiavetta, dove lei scriveva per diletto le romantiche e sincere poesie che mi leggeva. Un libro di Trilussa, con dentro un biglietto scritto dal poeta in segno di “schietta amicizia e viva ammirazione” per il caro Blasi, autore del suo ritratto. Ecco i libri di Fabio Tombari, le sue lettere a Sanzio, che gli aveva fatto il busto di bronzo.
Ecco il busto di Luigi Bartolini, in lavorazione. E lui in persona, sotto il portico con i padroni, un pomeriggio che arrivai portando ciliegie. «Brillano come rubini», commentò quel signore stempiato, e ne prese una manciata che avvicinò al grosso naso. La Signora Rita, in quel mentre, mi porse una bella moneta – cinquecento lire d’argento! – chiedendo cosa ne avrei fatto. «La metterò da parte per comprare la dote», risposi. Bartolini sbottò divertito: «Mia nipote, invece, sarebbe subito corsa a spendere tutto in… caramelle!».
Villa Blasi era più grande di quanto non sembrasse da fuori, trattandosi di due corpi paralleli, divisi da un cortile e collegati, al piano superiore, da un camminamento simile a un ponte. L’edificio posto sul retro, occupato da cantine e magazzini aveva un’aria dimessa e insieme austera. Il lato esterno dava su via del Fornetto che, in quel punto, si allargava anche di fianco al cancello, formando un vasto piazzale. Qui, sullo sfondo di pini, lauri, lecci, viburni, stava issato un enorme masso di pietra di forma isoscele, simile a un dolmen. L’aveva trovato mio padre, arando il campo profondamente. Il Sorsanzio si era così appassionato alla scoperta che, con l’aiuto di contadini e tregge aggiogate a vacche possenti, aveva fatto trasportare il reperto dove ancora si trova.
Una volta ripulito, egli l’aveva inciso lungo il perimetro con una misteriosa iscrizione. Caratteri mai visti prima, allegri, ripassati in rosso come i bordi della striscia che li conteneva. «Ma che scrittura è?» chiesi al padrone, un giorno che mi sorprese ferma, con lo sguardo bloccato, davanti a quel rompicapo. «Scrivevano così i Vichinghi. Sono caratteri runici. Li ho scoperti in Norvegia», disse. Poi, iniziò a scandire consonanti e vocali, fino a svelarmi il messaggio: un sigillo, con nomi e cognomi annodati, che mi fece pensare alla bellezza del legame amoroso.
«Il padrone? Il padrone soffre», diceva al telefono mia madre, fra una scossa di terremoto e l’altra, nell’estate del 1972. Raccontava di averlo visto stanco, mentre allontanava la preoccupazione della moglie con un gesto rassicurante: «Sto bene, Rita».
Il 22 di agosto non c’era più. Il suo cuore si era fermato in città, all’Ospedale Cardiologico Lancisi, un centro all’avanguardia, che proprio lui aveva contribuito a creare. La notizia mi raggiunse a Urbino, che il Signor Sanzio stimava luogo straordinario: sapeva a memoria colori e dettagli dei quadri di Piero, era innamorato dello Studiolo di Federico.
Quando un uomo se ne va, i suoi ricordi si legano fra loro come cristalli. Chissà quali frammenti della vita lo avranno accompagnato? Forse i nomi delle cose, le angolazioni della luce. Le due guerre: la parte marcia di un frutto che non si può tagliare via. Il figlio Gustavo, il suo sacrificio al fronte. La grandiosa Pietà della Chiesa di San Domenico, scolpita per onorarlo. I pasti caldi fatti portare, durante i bombardamenti su Ancona, ai malati e al personale dell’Ospedale Civile. Non importa quanto tempo è passato. L’amore è sempre una cosa buona. Il cuore è un lago.
Il cuore è un pugno di terra che trema. Sanzio ricordava le rose, il loro profumo, le sfumature dei petali. E le mani di Rita che tenevano le sue. In giardino, vicini sul dondolo. Loro stessi che restavano, pur scomparendo. Proprio come le parole restano sulla pagina, o le statue sui piedistalli, anche se il buio le cancella.
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