Già il titolo di quest’ultimo elegante e acuto libro di Caterina Camporesi, Dove il vero si coagula (Raffaelli, 2011), è una “dichiarazione di poetica”, un’indicazione precisa di lettura. Percorso lungo quello della nostra poeta (siamo alla sua sesta raccolta) verso una piena maturità artistica e una ribadita ricerca di essenzialità e profondità. Parole alchemiche che fanno da battistrada e si portano dentro e dietro cento altre parole, coaguli di pensiero e corolle di senso sempre più ampie inversamente proporzionali alla assoluta povertà di orpelli, aggettivi, punteggiature, congiunzioni: «dimora si fa il mondo/ grembo di parole/ acque battesimali// rimargina nessi/ lungo ponti precari/ a tratti ospitali».
Camporesi è attenta osservatrice e ospite, in un continuo passaggio, del mondo dove l’unico porto è la parola creatrice, dove l’unico racconto e raccolto è una pietas che ci affratella tutti. Epitomi come specchi nei quali ci incontriamo, scontriamo e soprattutto ci scopriamo. Troviamo noi stessi e la “nostra” verità (i versi ermetici liberano ogni possibile ermeneutica...) in un gioco di domande sorelle, di evocazioni, di paure, e di speranze sebbene appollaiate su “scogli disperanti”, pur reduci da un quotidiano “tsunami”: «residui flutti di tsunami/ inaugurano frontiere/ suturano strappi/ inseguendo navi corsare// zattere di parole/ viatico salvifico/ sugli scogli disperanti».
Quando la Camporesi si è avventurata nella liquidità della poesia pensava di allontanarsi mille miglia dal suo “solido” lavoro di psicanalista, in realtà il poeta lavora sulle anime, esattamente come fa lo psicanalista. Il metodo è antitetico (la Camporesi non vuole schemi, non desidera scavare soltanto nel proprio sé, vuole essere piuttosto testimone, eco del mondo che si consuma in sé), ma il risultato nel lettore è simile, quello di scardinare false certezze, di far intravedere vie e varchi di possibile salvezza sempre guardando nel proprio (nostro) passato, in nuda e totale onestà: «tempo non scaduto per ore incolte/ cerchiate nelle arcate di ieri/ ai colori infedeli// di silenzio intrise/ nella notte come avventuriere/ scardinano serrature di mondi»
Anche il titolo della prima sezione, un porto ai sé nascenti, dalla quale questi ultimi versi sono tolti, sembra dire che il poeta dà accoglienza nell’assenza ai sé nascenti , e poi ci fa dono del suo “udito” sensibile da artista, obbligandoci a nostra volta alla “riflessione”: «se non ora…/ mai?/ nell’assenza nasce il senso// alle frontiere/ crepe/ fronteggiano emozioni».
Nella seconda sezione, per scelta oculata, il linguaggio è ancora più essenziale e asciutto, poesie come epigrafi, vaticini di sibilla: «la soglia un tempo senza grata/ ora non accoglie// intatta tra le pieghe resta la pietà». Versi di grande fascinazione, allitterazioni, assonanze, oracoli sui quali riflettere: «negli archivi del desiderio/ scivola il ricordo// salvando fiamme/ per lampi di domani».
La nostra Sibilla ha il dono della chiaroveggenza e gioca, manomettendo magistralmente le carte-parole, con la sorte di noi mortali, insinua che niente è dato, nulla è chiarito. Non c’è un punto, né una fine, ma un continuo peregrinare: «nell’istante ponte/ meridiani e paralleli si scompaginano/ prefigurando altre mappe// atlanti si aggiornano/ anime scovano verginali sentieri/ argilla verdazzurro rimodella forme». E noi mortali restiamo lì, presi da incantamento, incauti arriviamo al fondo della caverna dove ci aspettano questi ultimi testi illuminanti sul compito della parola che «apre la porta all’azione/ inonda il versodove di scintille/ la giusta soluzione/ aiuta l’essere ad esserci». La nostra temerarietà ci ha portato alla fine del viaggio.
È stupefacente che dall’altra parte del mondo, in tutt’altra lingua e molto pragmaticamente un messaggio simile ci lascia Mark Strand, che nel suo Nuovo manuale di poesia al punto 19 scrive: «Se un uomo ha paura della morte,/ verrà salvato dalle sue poesie». E al punto 21: «Se un uomo finisce una poesia,/ si immergerà nella scia bianca della propria passione/ e verrà baciato dalla pagina bianca».
Strand, proprio come Camporesi, ci suggerisce che la poesia è un’amante che ci bacia attraverso la pagina scritta. Non dobbiamo insistere troppo sul come e il perché: si fa poesia per necessità d’amore. Per conoscerla, per averla dobbiamo scriverla (leggerla), entrare in punta di piedi in quei grumi necessari di verità.
Caterina Camporesi, Dove il vero si coagula, Raffaelli Editore, Rimini 2011, pagg. 99, euro 10,00 – con prefazione di Anna Antolisei.
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