FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 25
gennaio/marzo 2012

Grumi & Nodi

 

I LORO NODI

di Annelisa Alleva



Cercava freneticamente la stazione dove gli avevano detto avrebbero trasmesso la sua intervista, ma quella, fuori dalla sua città, si prendeva a stento. Su un’altra un’attrice stava leggendo un racconto di suo padre. L’emittente nazionale si sentiva benissimo, il racconto non era uno dei suoi migliori, “e poi, comunque, non se ne può più”, commentava lui con un sospiro che sembrava tirar fuori la sua insofferenza. Era un paradosso, quel padre addosso, sulle copertine, dentro i giornali, sui muri del caffè dei teatri, ma soprattutto in bocca alle signore. Il padre le aveva raffigurate così bene, le signore dei Parioli, perché abitavano nel suo stesso quartiere. Benestanti e inconcludenti, fumanti e ondulate, desiderose di evadere, di ammirare, di andare in visibilio per qualcosa, ma, di più, per qualcuno.

Il figlio diceva che gli faceva rabbia, che tutto questo arrivava a renderglielo antipatico, il padre, che pure amava, aveva amato, e poi rimpianto troppo presto, perché l’aveva perso a diciassette anni. Che aveva accolto lui, quando era venuto al mondo, con l’appellativo di principe. Che lo aveva amato e amorosamente incoraggiato nello stesso mestiere di pittore, tenuto accanto a sé, eletto molto presto a interlocutore. Le signore sembravano volersi accaparrare un poco del suo genio, quando lo osannavano a alta voce, con apprezzamenti appena dissimili l’una dall’altra. Lo portavano in palmo di mano come se fosse stato una scoperta di ognuna di loro. Intelligente, quanto era intelligente, acuto, geniale!

Il figlio diceva di star bene solo nel suo buco, perché lì, almeno, nessuno glielo avrebbe ricordato: il suo studio, il suo minuscolo cosmo dove la polvere che si respirava era la pelle dei suoi quadri; dove lo sporco, le incrostazioni, che rendevano illeggibili i numeri sul telefono, gli erano cari quanto i suoi disegni, i suoi libri, la sua musica, i suoi pennelli, la sua vecchia moquette in parte stracciata e arricciata, il tranquillo panorama dal suo terrazzo, alto al punto da superare la chioma vellutata dei pini. Solo lì poteva stare, indisturbato, il figlio. Aveva sposato la solitudine, l’introversione, al fine di esistere senza smarrirsi, di non soccombere, di non restare schiacciato.

Giù in casa teneva sempre appesi due soli quadri, in cui lui, il padre, lo aveva ritratto da ragazzo. Nel primo il figlio era raffigurato adolescente, quindicenne, con un viso intenso, febbricitante di malinconia, i folti, lucidi capelli neri arruffati, gli occhi resi quasi triangolari dal dolore, la camicia dal colletto bianco e a punta. Nell’altro il padre teneva un braccio appoggiato sulla spalla del figlio dall’alto della sua solidità e possanza di uomo maturo, in cravatta, mentre lui, il bambino, serrava le braccia conserte, muscolose, in una posa fiera, i calzini un po’ scesi, i pantaloni corti. I due coesistevano nello stesso quadro con tenacia affermativa e una forte interiorità. Il padre aveva imbrattato per capriccio le facce di entrambi, come se avesse voluto coprirle con una maschera, nascondendone l’elemento più umano. In questo impeto spazientito c’era qualcosa di violento, crudele, nonostante la posa protettiva e affettuosa. La foto che lo aveva ispirato era stata scattata tanti anni prima su un assolato terrazzo condominiale di Roma. Padre e figlio sembravano entrambi cercare ombra, protezione uno accanto all’altro, uno dall’altro. Ritti come due meridiane a misurare l’ora. Ma avevano anche un sigillo comune: le maschere di padre e figlio si somigliavano. I segnacci volevano forse costituire una cifra di riconoscimento, così come nell’antichità venivano segnate le porte. Un voto. Il padre aveva desiderato un figlio per trasmettergli gli stessi valori di cui si era nutrito, e il figlio gli aveva obbedito quando era vivo, e poi anche dopo. Una signora ora morta aveva detto la sera in cui festeggiava uno dei suoi ultimi compleanni, nell’atto di presentarlo ai numerosi ospiti assiepati nel suo appartamento: “Ha i pregi del padre”.

Aveva coltivato le sue stesse passioni, solo a modo suo. Usava con generosità i colori, li lasciava colare, amava le loro ingrommature, i loro nodi. I quadri del figlio erano arruffati come la sua capigliatura da ragazzo. Ne avevano le stesse vertigini. Le sue mani somigliavano a quelle del padre: non grandi ma perfettamente proporzionate, forti, virili, scure, nervose. Anche il viso somigliava a quello del padre, soprattutto in vecchiaia. Riprodotto su una fotografia attaccata da anni alla parete sopra il divano, il viso del padre se ne stava appoggiato - come una trave alla parete - alla testa di sua moglie, appoggiata a sua volta, con le braccia conserte, al davanzale di una finestra della casa al mare.

Il figlio continuava a cercare la stazione della sua intervista, ma questa gli sfuggiva, come sfugge un treno se si capita su un binario sbagliato. Girava la manopola, e voci estranee alla sua gli sferragliavano rapide accanto, a destra e a sinistra. Capitò nuovamente sulla stazione nazionale dove si stava leggendo il racconto del padre. Per un istante pensò a una sostituzione di persona; pensò che la sua intervista non dovesse andare in onda, perché era stata sostituita, sovrapposta dalla lettura del racconto paterno. Ma fu solo un istante irrazionale, un pensiero che passò di volata, senza sostare in stazione. Sedeva su una poltroncina nera di pelle, che ne aveva un’altra identica di fronte, sul cui bracciolo aveva l’abitudine di poggiare i piedi. Teneva la radio in braccio in posa obliqua, e aveva un aspetto vagamente rassegnato. Dio mio, dov’era quella stazione? E il tempo scorreva, scivolava via.


Il racconto è inedito

annelisa.alleva@gmail.com