FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 25
gennaio/marzo 2012

Grumi & Nodi

 

INVENTARIO DI LUCE
La poesia di Paolo Polvani

di Vera Lúcia de Oliveira



“Quanti compagni di viaggio invisibili /sulla strada, quanti fratelli.”: questi bei versi sono tratti dalla prima poesia di Compagni di viaggio, la raccolta con la quale Paolo Polvani ha vinto nel 2009 la terza edizione del Premio “Altri Segni”, organizzato da Art Farm Gaia e dalla Casa Editrice “Fonéma”, dirette da Pino Bonanno; indicano, già all’apertura del libretto, uscito per i tipi della Fonéma Edizioni, il nucleo più denso e profondo del suo percorso esistenziale e della sua ricerca poetica.
Conoscevamo Paolo Polvani per i libri Nuvole balene (1989), La via del pane (1998), Alfabeto delle pietre (Premio Spiaggia di Velluto di Senigalla, 1999) e Trasporti Urbani (2006). Da Barletta, dove vive, città balzata alla cronaca di recente, per la morte di cinque operaie che lavoravano in nero per quattro euro all’ora, ci arrivano, oltre che queste tragiche e inaccettabili notizie, anche i luminosi versi di Polvani, poeta intenso e concreto nelle immagini, dalla dizione chiara e priva di retorica, dal registro quotidiano, dallo sguardo sensibile e attento all’umanità che lo circonda. Già Raffaele Crovi aveva evidenziato, nell’introduzione del libro Alfabeto delle pietre, che le allegorie di Polvani “sono essenzialmente visive e visivo è ogni dettaglio della sua rappresentazione dei comportamenti individuali o di relazione.” A conferma di questo elemento, lo stesso poeta dichiara nella nota introduttiva alla raccolta Trasporti urbani: “Compito del poeta è modellare un linguaggio che sappia restituire l’eco del presente, il riverbero della realtà.”

Quelle di Polvani sono poesie epifaniche e dell’epifania della luce che sgorga ovunque: “C’è anche un sole molto violento, un sole di gennaio / che un po’ ci riscalda e un po’ ci ubriaca” (Polvani, Compagni di viaggio, 1999, p. 6). L’occhio vigile del poeta raccoglie e trasforma ogni cosa in parola, partecipe e innamorato della natura e della vita, rappresentate come un miracolo perenne anche là dove esse appaiono meno percettibili e, forse, per noi, meno plausibili: “la grammatica breve / degli insetti, le vite infinite e sconosciute, (…) / se potessi / essere la memoria di tutti i fili d’erba, essere io lo sguardo / il suono, il confine del vento.” (idem, p. 20) Ci verrebbe da dire che è lui a creare il miracolo della luce con la sua poesia, e non il contrario.
C’è nelle sue poesie, pur nella consapevolezza di affanni e dolori connaturati al vivere e al morire di ognuno e di tutti, una strana gioia che ricorda il “Cantico delle Creature” di Francesco d’Assisi, nonché i versi più belli di Sandro Penna, quando all’improvviso sorprendono strade, case e colline lambite dal vento o dalla pioggia, carezzate dal bagliore del sole. Questa comunanza con i due poeti umbri, il primo profeta dell’umiltà, del rispetto per la natura e della semplicità del vivere, il secondo attento a cogliere l’attimo di rivelazione del poetico e a renderlo con versi di una sintesi unica nel panorama italiano, spiega la familiare sensazione che provo nel leggere Polvani, che sento molto più vicino ai lirici brasiliani e alla poesia del quotidiano che a quelli italiani, tendenzialmente più aulici.

Quasi tutte le poesie di Compagni di viaggio raccontano di un viaggiare continuo, di un muoversi alla ricerca del fugace e miracoloso istante in cui l’uomo è in sintonia con l’universo circostante e, proprio per questo, capace di percepire l’essenza segreta di ogni cosa e di ogni essere:

      Com’è limpido il cielo e come sgorga.

      Sono qui per fare un inventario della luce,
      per dare alle pupille le case disseminate
      nel paesaggio dell’alba priva di vento.

      Sono qui per mietere a piene mani.

      (Polvani, Alfabeto delle pietre, 1999, p. 7)

La passione per la vita, sempre presente, non cancella la dimensione e la consapevolezza del dolore e della morte, ma esse rientrano, come tutto il resto, nell’ordine naturale delle cose, nell’ordine di “pura necessità” che porta Francesco d’Assisi a definire la morte “sorella”. Il bisogno di sintonia con l’universo è alla radice delle forme e immagini che Polvani predilige, visive, tattili e concrete, sensuali e sinestesiche, rese senza retorica, come si è detto, con una musica propria e interiore e la capacità di arrivare dirette al cuore del lettore.




POESIE DI PAOLO POLVANI

Proponiamo ai lettori di Fili d’aquilone una selezione di poesie di Paolo Polvani, le prime tratte dalla raccolta Compagni di viaggio e le ultime tre inedite.



COMPAGNI DI VIAGGIO

Lungo la spiaggia di Ansedonia ci accompagnano,
allegre e un po’ insolenti, le orme di una piccola volpe.

Forse adesso ci scruta dalla macchia con lo sguardo fisso.
Forse stanotte annuserà le nostre orme,
così disordinate e tracotanti.

Quanti compagni di viaggio invisibili
sulla strada, quanti fratelli.


UNA PENNA VERDE

Semplicemente sento scorrere la vita
mentre l’uomo solo in treno
accanto a me è intento alle parole crociate
e pensa forse a un gatto che l’aspetta a casa
grigio e prepotente, e ha solo lui, e un cappotto
dimesso, stanco di portarlo in giro sui treni,
solo e con quell’idea del gatto nella testa.

C’è anche un sole molto violento, un sole di gennaio
che un po’ ci riscalda e un po’ ci ubriaca
e io ho una penna verde e aspettiamo la partenza per Matera.


UN INVENTARIO DELLA LUCE

Com’è limpido il cielo e come sgorga.

Sono qui per fare un inventario della luce,
per dare alle pupille le case disseminate
nel paesaggio dell’alba priva di vento.

Sono qui per mietere a piene mani.


IL CONFINE DEL VENTO

Questa campagna esatta e laboriosa tenere tra le braccia,
masticarla piano, assaporare tra i denti una gioia
assoluta e senza credi, diventare lo sguardo fisso delle vigne,
essere i sentieri che corrono a perdifiato tra gli ulivi, vene
che ingurgitano i verbi della luce, la grammatica breve
degli insetti, le vite infinite e sconosciute, le chiome
nebulose dove si frange il volo della gazza, le aperte
geometrie, se potessi questa terra ingoiarla, digerirne
le masserie lucide di calce e di silenzi, essere il brusio
delle finestre, il richiamo misterioso dei pozzi, se potessi
essere la memoria di tutti i fili d’erba, essere io lo sguardo
il suono, il confine del vento.


FATTI SENTIRE

Te ne sei andata senza spiccioli, senza
passaporto, ti lasceranno entrare ? Aprile
ti prenderà in consegna?
Allora tornerai? il sorriso e il pianto
bussano alla tua porta ma tu non vai ad aprire.

Altri traguardi premono. Te ne vai con i segni
di una lotta di radici e d’aria, di terra
e di pura necessità. Non ci domandiamo nemmeno
chi siano gli sconfitti. E gli orecchini?
E adesso le tue bambole? le fotografie?

Sei semplicemente salita sul convoglio della morte.
Ora aspettiamo la pioggia e il tuo ritorno.
Ma tu non tornerai. Il traffico
non ti riguarda più, il sole
non picchierà alla tua finestra.
Hai orizzonti indecifrabili per noi.

Di tangibile c’è tutto il nostro disappunto.
Non vuoi preparare la lezione, non vuoi
mettere la torta in forno, o aprire il frigorifero.
Né guardare il mare.
Anche l’amore ti risulta estraneo.

Il cielo assedia la tua nuova casa
e non smetteremo di pensarti.

Ma tu fatti sentire.


COSA ACCADE ALLA CASA
QUANDO ESCO SBATTENDO LA PORTA

Ci sono parole che ancora volteggiano nell’aria
prima che i loro vuoti involucri si adagino
in un residuo di polvere lungo le pareti.

Piccoli insetti diventano padroni del silenzio.
La poltrona trattiene il vuoto della forma, i quadri
mantengono un rigido riserbo.
Sul pavimento lucido un filo parla la lingua dell’esilio.
La finestra registra il profilo delle nuvole.
Il frigorifero senza preavviso si mette a borbottare.

Si assiste alla declinazione degli oggetti
durante la parabola del sole. Nella luce
si affaccia una pantofola, cerbiatta
timida prossima alla consunzione.

Il suono del postino irrompe nel vuoto della casa,
lo riempie di uno splendido interrogativo.
Il clamore del traffico accarezza le sedie in cucina.

Nei bagni le tubature se ne infischiano delle voci
dei vicini ed emettono brevi gorgoglii, guaiti
appena pronunciati, sospiri, soffi.

Forse risuonano dei passi, forse una vecchia paura
ancora aleggia nelle stanze.
Le tovaglie conservano i loro vividi colori.
Ci sono dita che si attorcigliano all’attesa.


DOMANDE

Dimmi papà, com’è morire?
sei ancora apprendista o veterano? in nove anni
hai sostenuto degli esami,
oppure non c’è molto da imparare?
m’insospettisce che nessuno si lamenti, forse è un bel posto,
si può passeggiare? organizzare gite? andare in barca?
servono le tabelline? e le carte geografiche?
la vita di società contempla le stesse disinvolture?
si può spettegolare?

E tu come stai? mi puoi parlare? Puoi
leggere il giornale, o ricordare?

Qui seguitiamo a fare quello che facevamo, che è
semplicemente sguazzare nella vita, starcene aggrappati
ai desideri, alle paure.

Io cerco uno spiraglio per spiarti di là, per controllare
se ancora fumi le super senza filtro, se vai talvolta
in bicicletta, se ti piacciono sempre i libri di fantascienza,
se sei triste e avverti nostalgia.

Ma ho la sensazione che sarà difficile parlarci.
E il trattamento? I cibi sono a scelta? Si può fare
la mezza pensione? C’è qualcosa che ancora somiglia
a questa vita?

Perché tanta paura, tutti ci passano, nessuno,
nessuno che abbia protestato, che sia tornato indietro
per dirci: attenzione! è uno schifo di posto.

Mai nessuno ci ha detto queste cose. E tu,
puoi dirmi tu qualcosa che m’illumini?

Forse morire è così dolce che non vuoi dividerlo con nessuno?
Ci si abitua di fretta?


LE CLARINETTISTE DELLA BANDA

Alle clarinettiste della banda aprile
porge nuovi alfabeti sulle labbra e avvolge
la scansione degli anni al ceppo della primavera.

Le clarinettiste costeggiano le occorrenze
del vento, l’impellenza dell’amore
e l’idea stessa di una geologia del corpo,
le mani frammentarie e il farneticare
luminoso dei capelli, le promesse di una fertilità
terrena, la continuità delle gambe.

Le precede il fiume di una musica rotonda
che si sgrana in forma d’acini d’uva,
polpa d’anguria, si dissipa nel segreto dei chicchi
di una melagrana, si allarga nel respiro
di un’erba invaghita della luce.


CARAMELLE

Verrò in via delle vigne quattordici a passarti
l’ultima delle mie caramelle, è lì che abita
in forma di zucchero l’orto di tua madre
e si gonfiano di rosso i pomodori nel cerchio
delle alpi e l’insalata
ha il suono familiare di una porta che sbatte.

Gli autunni vengono con passo leggero e io
mi arrampicherò sul tuo accento di montagna,
sulle gutturali che sono rocce aspre, su certe
consonanti che imitano il tumultuoso gorgoglio
dei torrenti. Le tue mani forse mi cercavano,
tentavano un approdo, ma tu lo sai
che il nostro sole è la solitudine
e la promessa di non vederci più
è già nei nostri passi.

L’ho visto il gatto, e quella lunga scia di tristezza.
Ho visto la fabbrica e la fretta dei viaggi.

Le mani si cercavano e ridevi di un riso
notturno e c’era la pioggia e il buio
e il momento era perfetto per perdersi,
per scivolare via come un addio.



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