FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 23
luglio/settembre 2011

Vulcani

 

L'ESTINZIONE DELLE BIGNONIE

di Mauro Maraschi



Sto vivendo giorni elettrizzanti. Al primo posto in classifica metterei Clelia, la bambina che abita oltre la muraglia. C’ha un nome bruttissimo, però le piace quando ci distendiamo sul suo letto a sfogliare il libro dei mestieri illustrati (che è tutta una scusa per sfiorarci). Al secondo posto il fatto che mercoledì, per la prima volta, sono riuscito a spingere la bicicletta fino al belvedere e da lì me la sono fatta tutta in velocità, in sella dico, fino a casa, e ho raggiunto 22 km/h: se lo sa papà mi ammazza, ma tanto come lo deve scoprire, se non mi viene mai a cercare? Al terzo posto una cosa che non ho capito ma che merita di essere riportata. È la cosa degli insetti giganti.

Per ben due volte Nonno Tano è riuscito a richiamare, con un fischio, a notte fonda (erano le dieci, mi pare) degli insetti giganti. La cosa è nata così: io gli ho chiesto perché le farfalle pelose (che si chiamano falene) non si fanno vedere di giorno. Lui ha risposto che le falene spuntano solo di notte perché qualcuno le richiama per saziare i gechi (che tutti chiamano “scorpioni”, ma io lo so che sbagliano). I gechi sono i guardiani notturni delle villette di campagna: si appostano alle lampade al neon e quando si accumulano troppi moscerini loro se li mangiano, per evitare che coprano la luce. Ora, dato che un geco non può sopravvivere solo coi moscerini (ne puoi mangiare a migliaia, ma sono proprio piccoli), c’è sempre qualcuno che con un fischio richiama le falene, a fine serata, per stare certo che il geco vada a dormire satollo. Allo stesso modo Nonno Tano ha fatto un fischio potente e peculiare (l’ha usata lui questa parola pelosa come le falene) e mi ha detto: “Dai, Vicè, vai a vedere dietro l’angolo, dovrebbe essere arrivato.” E io ci sono andato, dietro l’angolo, e sul selciato c’era ‘sto coso lungo quanto un braccio, giallo a chiazze rosse e con quattro zampacce verde pisello. La faccia non ho avuto manco il coraggio di capire dov’era. Sono tornato di corsa verso il patio, ho detto a Nonno Tano: “C’è, è arrivato, vieni, ti prego, io non so come catturarlo!”, ma quando lui si è deciso ad accompagnarmi quella bestia immonda era sparita. Anzi, quel “bestio”, al maschile, come direbbe Zio Paperone.

Io devo dire che la cosa che mi piace di più del Topolino è il lessico colto di Zio Paperone. Anche “lessico” l’ho imparata da lui. E anche “tapino”, “geco”, “muraglia”, “infausto”, “satollo” e tante altre parole che i parenti mi chiedono com’è che le so. Molto meglio Topolino che Moby Dick, che c’ha solo tre illustrazioni in quattrocento pagine. Molto meglio Disney che Melville, ecco.

Comunque, la quarta e penultima cosa elettrizzante è che ho scoperto come si fa il miele. Cioè, per il momento ho scoperto come si catturano le api, che comunque è un buon inizio. Praticamente alla fine della muraglia che parte da casa nostra e finisce nella discesa dove ho preso i 22 km/h, la muraglia oltre la quale abita Clelia, per capirci, alla fine di questa muraglia c’è un intrigo di bignonie. Le bignonie sono delle campanule arancioni, tipiche del Mediterraneo, dove dentro ci si infilano la api (quelle paffute e pelose come le falene e la parola “peculiare”) per prendere il polline. Ecco, insomma, io ho scoperto che se aspetti il momento propizio, quando le api hanno smesso di sculettare e si sono insinuate dentro la bignonia, ecco, puoi chiudere la bignonia con indice e pollice, con l’ape dentro!, perché le bignonie hanno la pelle tanto spessa che l’ape non ti può pungere. A quel punto fai attenzione a staccare il fiore senza romperlo, lo fai scivolare tra un barattolo e il suo coperchio e ci sigilli l’ape dentro. E il gioco è fatto. Come si estrae il miele dall’ape questo ancora non lo so, ma lo studierò presto.



Foto di Francesco Ciabattini
macronatura.it


Stasera però succede l’ultima cosa elettrizzante, ma in un senso tutto negativo. Il vulcano alle pendici del quale è costruita la mia casa di villeggiatura si è riattivato. E in questa notte senza luna i suoi tentacoli gialli accesi e furibondi sgorgano dalla bocca del vulcano divorando tutto ciò che incontrano.

Io sono solo, davanti all’intrigo delle bignonie (disabitate nottetempo), in bicicletta. Non riesco a muovermi, sono pietrificato dalla paura. E al contempo ne sono attratto. A guardare le fiammate e le colate del vulcano, da questa distanza, sembra quasi che sono immobili. Probabilmente abbiamo tutto il tempo per salire in macchina e scappare e lasciare la Sicilia. Ma poi penso al tempo che gli è voluto a Nonno Tano per accompagnarmi a vedere l’insetto gigante, tanto di quel tempo che l’ha fatto scappare. Ecco, il mondo finirà perché non si presta abbastanza attenzione ai bambini. Se solo sapessi guidare li lascerei tutti qui ad ardere.

Fisso l’incandescenza di ghiaccio e mi rendo conto che non abbiamo scampo. La famiglia è di là a giocare a carte e a guardare la TV, nessuno mi ascolterà o crederà, dicono che ho la testa tra le nuvole, che ho troppa fantasia, che vivo in un mondo a parte. E nel frattempo la lava stritolerà il belvedere, e poi la discesa dove ho preso i 22 km/h, e poi Clelia e la sua famiglia, e poi l’intrigo di bignonie, e poi casa mia, Nonno Tano, i miei genitori, i gechi, le falene, i moscerini, gli insetti giganti e tutte le nostre coltivazioni. E poi, per ultimo, me. Eppure, l’unica cosa che riesco a pensare è che devo distruggere i miei collage nascosti sotto il letto, tutte quelle donne nude, quelle delle pubblicità delle creme depilatorie, le attrici in topless spiate dai paparazzi, le scollature di Mara Venier e persino il pezzo forte, Samantha Fox con la maglietta bagnata. Ho il terrore che questa cose oscene possano essere ritrovate dopo la mia morte. Cosa penserebbero di me i miei nipoti?

E allora mi metto a pedalare più forte che posso, raggiungo casa, appoggio la bici al muro, corro nella nostra stanza, e metto tutto nello zaino, per istinto anche la collezione di Topolino. Passo dal bagno, rubo l’alcool denaturato e lo metto nello zaino. Passo dalla cucina, afferro i fiammiferi, li metto in tasca. Torno fuori, nessuno bada a me o mi chiede perché corro, a quest’ora, dove vado con lo zaino. Mi rifugio nella nicchia dietro la “capanna degli attrezzi”, riverso il tutto, Zio Paperone compreso (il mio mentore), in un largo secchio di metallo. Lo innaffio con l’alcool. Gli do fuoco e osservo quello che succederà anche a me quando la lava sarà alle porte. Ed è bellissimo, non vedo l’ora.

Poi, dalla veranda, sento Nonno Tano che impreca, in siciliano, ma io il siciliano non lo so scrivere, quindi traduco: “Questi figli di cane. Hanno dato di nuovo fuoco a Montagna Longa! Delinquenti! Dovrebbero buttare sangue dal...”

Ma io, che delle pratiche illegali di deforestazione ancora non ne so nulla, non capisco proprio di cosa stia parlando e continuo a guardare bruciare tutto ciò che della vita ho imparato finora.


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