Così, scesa la sera con le fragranti ombre marzo
lilla avvisaglie della prossima trionfante primavera dietro il colle Vaticano tornati con sollievo il bel tempo e l’avvenente luce tardiva dell’ora legale, le reti di un altro giorno della vita passato con fatica nelle invernali e chiuse stanze con fili di storie riparo e mentre a rinarrarmi ore e freschi orizzonti tremuli d’ali e cirri nel precipite sereno vaganti io riprendo, sui chiari viali accecati di luce sui platani frementi di piume vive foglie e i brevi tornanti avvolgentisi in alto, dove pini e cipressi incoronano la vetta e luminoso l’Osservatorio al loro centro dominante con l’oro delle cupole sul basso mondo e le viventi sue stagioni ora si leva fermo e fatidico emblema di sé, già il crepuscolo si addensadopo cena – tornato il silenzio la casa tranquilla addormentandosi la città, bava di luci oltre le chiome al vento del Pineto notturno gementi, lontana preparata al riposo – le ragioni della resa ritrovo, premessa ai versi che l’io sentimentale secerne con ingenua vena (canto stremato) nell’adagio della fresca notte marzolina al compleanno imminente promessa d’acqua e fuoco che scaldi alla sua lingua il discorso fatuo d’amore e morte, e doloroso errore…
uno sperpero di luce alle finestre compleanno
aperte: l’alba, il chiarore nella stanza più interna della casa si fa ombra devota: ristoro al risveglio, prolunga il torpore dona calore i sensi già svegliandosi fervidi al risorto affanno della colpa del pensiero, pungolo al nuovo giorno poi che l’ora beata e casta di perdizione e perdono svanirà presto nel pigro e sensuale prolungarsi di raggi fra tagli di persiane scolorite, svolta rapida al mattino in cui forma diversa potrà avere forse la vita, non atteso e non temuto giorno in cui migliore sembrerà l’avvenire, svettante fiamma cremisi di speranza e rimpianto – pietà, pietà dell’ora, dèi generosi e famigliari protettori del compleanno, pietà del tempo e dei miei passi drogati di sonno, sia pace in questo giorno dell’anno in cui l’amore non è eccesso ma fiorito tabernacolo e vacanza se in tanta derelizione mattutina appiglio di fede non c’è, né pentimento che possa sacrificare ai quarantuno anni di passione e morte, né cuore o fiore da acquistare o conquistare col solo merito di sguardi innamorati, né giunto il tempo che su pascoli amari ci strina la passione, tormento dei sensi, potrò scegliere l’amore che l’illusa speranza del sole marzolino, estremo inganno, ai vetri impolverati regala, se domani aprile acqua sul fuoco getterà invernale tornerà l’aria o l’umor nero i freschi e nubilosi giorni opprimerà
quella lucente mattutina prima aprile
stella il nascente giorno annuncia mentre discendo e tralucente da vapori lattescenti di smog Santa Maria Maggiore sotto il cielo delle sette e mezzo si mostra, però dietro muri d’edera baluardi di siepi incolte come pensieri una diffusa bruma l’immagine occulta della città la sua grazia il pallore luminescente; dai belvedere – nell’aria celeste o ancora livida come in tempo di neve come aprile s’arrendesse a un tardivo ritorno d’inverno – dai belvedere ai Prati scendo mentre il giorno ascende insieme al volo che dall’oro di cupole e chiese spazia con volute eleganti sopra Monte Mario e le ville a mezza costa il fiume lentissimo dei padri e l’ocra (assorto dono di meraviglia, è un vascello fantasma la città un errante clipper spettrale nel biancore della bruma del sogno – anche noi morsi dal nostro desiderio siamo spettri destinati a un errare da ripetersi per sempre) sul mercato che colori e profumi elargisce al mattutino inganno, benessere e vita all’offuscato quartiere borghese alle sue vie squadrate ai vigorosi platani svettanti verde e foglie novelle ai miei otto lustri appena trascorsi all’avvenente tentazione di un amore ai suoi festini forse all’ansia controllata riconosciuta a ogni passo per queste vie chiare e dolenti dove la miope rima raccoglie luce, concorde l’ora l’andare tra questi nomi antichi di nemici del papa-re, nemico io di me
di un migliore avvenire fra loro pasqua
ora parlano sirene, di un’ostia d’amore sciolta in bocca (o palma benedetta come in chiesa vedevi da bambino la domenica delle palme e non sapevi il mistero terribile che il verde rametto d’olivo rinnovava) un’emozione antica spezzata degustata in piccoli bocconi di un amore da mangiare, amore-cibo tre volte rinnegato – il sole sul quartiere della Vittoria e le ferventi arterie dove regna indolente la nostra quotidiana sconfitta (ma accanita fa quadrato e si difende la voglia di vivere armata solo di sogni o speranze di futura fortuna, sfuggente e capricciosa, mai ferma come si crede ad aspettarci dietro l’angolo), il sole sparge oro, su Monte Mario ha riflessi lancinanti aculei di luce e gelo fitti tra folte cime sempreverdi – e il tempo scorre come l’acqua come il traffico stordito e lento mattutino come la mia vita ogni giorno più grave e il dolore pungente la nuca pensiero dominante come l’amorosa sofferenza e lo sguardo sui capelli neri o le nere pupille come l’ansia e i suoi lievi sospiri presagi di fosca sibilla come i versi – io tutto che scorre amo tutto che vola: candide nubi e bruni uccelli nei cieli del Lazio migranti fuggenti sui colli immortali, ragione e cuore guidati da una remota o neo- nata passione, poi che passando con passo leggero l’ampia soglia scendendo scale mobili e gente alla gran riva acherontea appressarsi con smarrito sguardo guardando, da lei divisi la cercano i miei occhi, minuta figura tra la folla ignava delle otto, martedì della mia settimana – e Pasqua senza resurrezione passa, passaggio annunciato da un volo di pallidi uccelli albanelle minori del mattino
a un approdo sereno nella sera di maggio maggio
le rondini – ascolto i loro gridi vedo i voli rapidi virare oltre finestre e gronde tra una selva d’antenne ai digradanti attici verso via di Donna Olimpia dal terrazzo di Sandro, mio solitario ricovero porto di brume all’anima o luce morente al cuore: come ieri un pensiero nella mente mi ragiona e si smarrisce, pensiero offuscato in cui il mondo quattro piani più in basso è una calma tentante attrattiva, un invito al riposo – nella tiepida sera di maggio le rondini in estri e facili correnti svolgendosi all’approdo del sonno fanno ressa fanno piena, vespertina prece tesa a svanire fino a perdersi come i gerani amicali nel trascolorare lento delle prime ombre notturne oltre i vetri della porta-finestra, e confuso nel pensiero di un mortale intenerirsi sedimenta solitario il ricordo che affanna, frana senza pudore né morale civiltà un matto orgoglio nel pianto del cuore quando torna leggerezza, figlia pallida e frale di quest’amoroso fantasticare, e il volto lo sguardo accigliato scruta e chiede e non sa né forse vuole sapere, che aguzza e dolente come spino di rovo è l’ansia nell’elegia d’ogni sera, un simulacro vuoto divorante il sogno e se stesso, come un tarlo nel pensiero nel legno cavo che è, mentre cova e incombe il temporale: nel notturno transito d’acqua puerilmente anche il giorno avrà lacrime e pena; malinconica speranza d’amore, il fuoco dell’assenza con cieca illusione riaccende e domani il quotidiano affanno spegnerà come la pioggia violenta stanotte schianta i rami tenerelli degli allori, vanagloria di un ritorno nel grembo materno protettivo della nostra comune ingloriosa abitudine a volerci amare
del mattutino dolo stella, maligna anniversario
e sola ancora brilli quando il primo raggio invade la penombra e nella stanza alligna come la vite che nell’imo suolo alla nemica sua cugina edera viva acqua d’amore e luce di speranza contende o rade tardive rose nell’aiuola e nel giardino al sole appena tiepido aperte proclive alla passione dei sereni ultimi giorni di maggio: nel maggiore anniversario chiara la beltà ne godranno le tue assorte pupille e arse lo sguardo l’interna pena che prepara la loro vespertina pudica morte avvertirà nel raggio che le avvolge e dora, vita che si arrende all’amore e alla realtà della sua santa consumazione
col primo sole (dall’arco del nuovo giugno
giorno dardeggia con rinnovata asprezza i giardini la strada la cortina grigio- perla dei palazzi) nasce l’ultimo seme di giugno e il calore è un invito a vivere la rinata passione con coraggio e dedizione, a goderla senza il falso pudore che l’osteggia, come luce mattutina vincente brume e nebbie sul parco e le sue valli già scorrendo oltre il Pineto vita nelle arterie cittadine schiarendo l’aria sui verdi declivi maculati di trionfanti ori e inoltrandosi la strada nel chiuso quartiere sui colori dei balconi e il viola dei glicini – al volgere pigro del tempo va perdendosi il giorno nell’alacre transito meridiano dopo la sosta e il loquace intervallo del pranzo il veloce rianimarsi dei viali nell’usuale ansietà del ritorno e della cadente luce, coi raggi di un amore prossimo alla sua consunzione o redento dal nuovo peso di minuti e uguali ore di pena di piccole e incoscienti felicità ma quieto nel presente stato di colpa e di castigo: non amara la sorte benigna lo preservi e salvi per gli anni futuri o solo per l’ora tranquilla quando l’ombra serale sul parco abbandonato scenderà e il vento teso fra i tralci e le foglie della vite americana la serale luce spegnerà, quando nel buio luci di muti sguardi aprono varchi al desiderio carnale alle doglie dell’alterna brama, fiamma di perdizione e di lasciva dolcezza – e tu sul mondo solitaria dal cielo ancora pace adduci ignara serena imago mattutina, morte
ma né il morire né l’io – come martire luglio
solo affidando alla sua malinconia la povertà di caldi giorni sempre uguali a se stessi e puerili al pensarli ogni sera morti, prodigo solo nello sperpero e nel vanto della pena, nell’opprimente calore che scalda il cittadino teatro il mattutino proscenio dove il sole il corso del suo passaggio con infantile entusiasmo inizia e amore per la vita per l’oscena sua commedia – né l’io sentimentale né il suo corpo mortale al mondo e ai venturi giorni sottrarre potrò finché l’ora a mia immagine ascenda e in me vita e poesia imperituro amore saldi e confonda e mia emotiva amante impudica sorella morte si libri e liberi:
nell’aria azzurrina, la città come dietro una lucida vetrina fa brillare (è per la vita nelle strade come i suoi fiumi corrente rumorosa e concreta a un quotidiano approdo di miserie inconsolabile che – frattura insanabile tra sogno e verità – una delusa grazia si anima al sole nell’incerta certezza del presente) e fra svettanti rami di platani respira mentre nel puro vuoto della realtà io m’abbandono e al soffio leggero m’affido, diabolica- mente colpevole di amare e non volere amare
confuso – agosto
come questo mattino, quattro agosto, tutto oltre l’ocra dei più prossimi palazzi e profili fantasmatici di chiese e cupole oltre il Centro in una nebbiolina velenosa celando, orizzonte immateriale come la passata gioventù, come la prossima derelizione – io confuso nel cuore e nella mente mentre ancora addormentata è silenziosa la coscienza e con puerile estro all’ariosa vista l’anima esulta, elusa l’ancora viva ingenuità che speranza nel mondo nuovo sa ispirare, deluso di me guardo questa città smisurata che sotto la volatile coltre nel torbido mattino più piccola e raccolta si mostra e m’appare, immergendomi anch’io particella minuta nel suo bruno ventre – fino a sera fino all’ora dolce del ritorno a casa
(con te nella mente mia offuscata musa ferragosto
gli stessi viali nell’ombra dei platani nel fraterno quartiere d’ogni mattutina discesa nelle viscere urbane e serale resurrezione e fiorite d’oleandri e allori a schiera le vie che le ferie di agosto fanno salve dal traffico vitali ripercorro nel caldo che si stempera e placa coi freschi estri del ponentino sotto un terso cielo guidando assorto a un’elezione di parole nuove)
nelle sere tranquille, quando l’ultima settembre
cicala s’è spenta e l’aria si addolcisce nei minuti precedenti le prime finestre accese e l’insonnia di chi l’afa della città non può fuggire, le linee tormentate dei miei versi come nere colonne di formiche in marcia o solchi arati con lavoro paziente vedo brillare: in pace con me stesso scendo in giardino e aperta l’acqua innaffio la rada siepe di lauro che cerchiamo da tre anni di crescere, mia poesia
livida acqua trascorrente vita ottobre
nel limpido mattino e nell’ora al mio sguardo assonnato destina la duplice visione: a pelo d’acqua un armo a due, voganti cuore e ragione, e sulla lenta corrente a galla un grosso topo morto scivola verso la sinistra riva dove un vecchio barcone all’ormeggio dondolandosi culla chi ancora in queste prime ore di luce dorme e non sa che desolati segni con la sua cupa acqua il fiume rechi al giorno: fatica e pena nuove, sirene senza canto risorte al tardivo appena tiepido sole d’inizio autunno sulla piazza dove Tritone si erge a sfidarne lo sguardo mentre assistono al volo degli storni (forse solo avanguardia del grande stormo che al primo freddo i nostri cieli oscurerà), dei pochi che sui platani del Centro hanno dormito: verso l’assolata campagna romana li spinge l’istinto, ma ancora indugianti sui viali e le ormai spoglie vette intrecciano voli striduli richiami –
«non guardarli, non sperare che anche per te s’aprano le gelide ma terse vie del cielo!» per altra via dovrò salire ad altri approdi conviene che mi porti, san Nicola da Tolentino, più terreni e riparati muti di luce in cui passare il giorno e assenti gli affanni non sentire non sapere mi sia grande ventura, ma prima permettimi una sosta da Pietro che sulla sua pietra tintinni il prezzo della prima tazzina di caffè, nel tepore del bar nel suo brusio bevendo e parlando lasciami preparare all’ascesa del giorno…
|