LO SPECCHIO HYERUSCH
Appena fece scattare l’interruttore, il fuoco serpeggiò su per i fili elettrici, si slanciò crepitando lungo il muro, verso il soffitto. Spense subito, e il fuoco si ritirò, scomparve. Provò a premere ancora l’interruttore, e il fuoco di nuovo scaturì dai fili, come una cresta svettante, sventolante, e cresceva, si torceva e gonfiava...
Non poteva far luce, doveva restare al buio, in quella vecchia casa dove, dopo anni e anni che non vi metteva più piede e mai più avrebbe voluto rimettervelo nella sua vita, quella notte si trovava chiuso dentro, al buio, e senza la possibilità di accendere la luce se non a rischio d’un fuoco distruttore.
Ma si accorse di un fulgore fievole, ondeggiante, che a tratti invadeva l’ingresso, vi si diffondeva tremulo. Era una luce inspiegabile: subito aveva pensato all’illuminazione della strada, riversantesi per gli oscuri meandri della casa da una finestra; ma poi scartò quell’idea: era infatti come un riverbero di fuoco, o come se qualcuno, pensò di colpo, tenesse candele accese in un’altra stanza. In casa però, in quel momento, non c’era nessuno. Ritornò dunque all’ingresso e scoprì che la strana luce proveniva dalla camera attigua, adoperata un tempo come sala da pranzo e divenuta ormai un deposito, un luogo di accumulo di oggetti caduti in disuso – vecchi utensili, abiti smessi, mobili sconquassati: tutto era lì stipato in un disordine polveroso. E proprio lì, nell’angolo più remoto, a fianco della finestra da tempo serrata e inchiavardata, si annidava il bagliore ardente, quella luce di fiamma: ma era, almeno così gli parve scrutando nell’oscurità dalla soglia, solo il riflesso di un fuoco, un fuoco riflesso da un grande specchio rettangolare che riempiva e infiammava con la sua luce quel canto profondo della stanza.
Cercò allora con gli occhi la fonte, il fuoco o la luce reali; prima nelle direzioni più probabili, cui rimandava l’immagine riflessa accampata quasi al centro dello specchio – e finivano tutte non troppo lontano dal suo punto di osservazione –; poi fin nei posti più inverosimili, troppo obliqui e ardui per la riflessione: ma per quanto si guardasse attorno non riuscì a scorgere altra luce o fiamma. Così s’inoltrò nella stanza, cauto, guardingo, ma deciso a scovare quel fuoco nascosto che avrebbe potuto presto propagarsi rovinosamente e che certo, ormai concludeva, qualcuno dei grossi mobili scuri, coi loro profili massicci e sporgenti, gli sottraeva alla vista. Era un pensiero logico, ma appunto perciò parziale, cieco, al quale si affidava perché non ne trovò un altro accettabile o che non lo spaventasse. Eppure tutto il resto della stanza era tenebra fonda, la sola luce, il solo bagliore ardeva in quell’angolo, e di lì s’irraggiava intorno. Finché non lo ebbe davanti – irrefutabile: il fuoco avvampava sulla superficie dello specchio: non uno specchio ustorio, ma uno specchio urente, fiammeggiante... Era, non poteva essere altro che lo Hyerusch.
In quella casa dunque, chissà da quanto, era conservato. La scoperta infine non lo sorprendeva, gli metteva dentro piuttosto un ardente subbuglio, non timore propriamente ma un eccitato tremore, come se sentisse che poteva cedere, abbandonarsi a quel fuoco candente come a un abbagliamento, e volesse resistere, ma senza ritirarsi. Che cosa sapeva dello specchio Hyerusch? Cosa incendiava la sua superficie lucente? Quello specchio ardeva per virtù propria, era l’alto fulgore della sua luce che si faceva fuoco; o a farlo fiammeggiare era ciò che oscuramente vi si rispecchiava, il raggio tenebroso di un oggetto o di un essere in cui covasse un fuoco segreto? O il fuoco si sprigionava da dietro, e trapassava il gelido argento dello specchio, come dall’acqua l’eruzione d’un vulcano marino: il fuoco dell’immagine virtuale, costretta nel suo gelo?
Non sapeva, non ricordava. Sentiva liquefarsi la memoria come cera a quel calore rovente. Non sapeva neppure se aveva dimenticato o se non aveva mai saputo nulla di più oltre il nome e il mistero e il misterioso potere di quello specchio prodigioso. Doveva allontanarsi, ma trovava in sé solo il tremore e la beatitudine di un nativo di fronte al primo fuoco. Davanti ai suoi occhi abbacinati lo specchio Hyerusch seguitava a bruciare: ardeva e crepitava come un braciere, un bacile di metallo fuso e ribollente – era ormai tutto in fiamme.
SACRAE PORTAE
È all’altezza di Ponte Vittorio, ma non dalla parte del Corso; è al di là del fiume, nel punto in cui si divaricano le due direzioni, una verso il Lungotevere in Sassia, l’altra verso la Conciliazione; ma non proprio in quel punto: forse, è dietro l’Ospedale di Santo Spirito, o piuttosto, ecco, verso lo slargo che porta a Castel Sant’Angelo: ma è così diffìcile da definire.
Questo è certamente il luogo – e tuttavia, mi sento come un rabdomante la cui bacchetta d’un tratto impazzita si pieghi in ogni verso e non riveli più niente – è qui, è lì, e ancora lì, e lì: quel che insegue è mutevole come un ricordo infantile, ingannevole e intermittente come la memoria d’un sogno.
Ora so dov’è: è oltre l’ospedale, dove le due strade si partono a forcella verso Trastevere e verso il Gianicolo, su in salita inseguendo la gloria del sole e del verde la seconda, mentre la prima s’incanala nell’ombra lugubre e fradicia della Lungara.
No, non è neppure lì: forse perché – mi diventa chiaro adesso – questo lascia fuori il fiume e l’altra riva, e il fiume – certo, l’ho sempre sentito – è il cuore e l’asse di questa oscura mappa che non mi riesce di disegnare, che per quanto incalzi e abbracci, come per una sua virtù mercuriale, mi sfugge da tutte le parti. Ma è qui: la bacchetta si piega e si piega – e anche qui, anche qui: è tutto un immenso giacimento dai confini labili, indefinibili, una miniera labirintica ricca di vene e caverne che si diramano in ogni senso: sì, è qui che si apre, qui dove si cela uno sprofondo, una tenebrosa cavità che il selciato e gli edifìci nascondono – è questo l’ingresso degli Inferi.
RISVEGLIO
Al mattino si svegliò con i capelli intoccabili.
I suoi capelli formano una intricata, rattorta aureola sul suo capo di colpo ferino. Restano fermi, ferrei, un ciuffo qua uno là, ravvolti, contorti, alcuni tesi, altri arricciati, arcuati e crespi, con un complessivo effetto di risibile asimmetria. Li aveva inariditi, durante la notte, il soffio ardente della strega, la stessa che trent’anni prima era passata al suo lettino – doveva essere certo una notte senza luna – e gli aveva gettato il sortilegio, l’incanto che aveva incatenato la sua vita. Perché è tornata la versiera? È venuta a portare i suoi ritocchi, ha aggiunto un tocco di ormai innascondibile perfidia finale alla sua opera... Non volteggiava già in casa, da qualche tempo, un odore disgustoso e illocalizzabile – l’odore del maleficio?
Giovanni pesca ancora nel vecchio arsenale dei capricci e delle diavolerie e ne rileva di questi fantastici arnesi – che per lui non sono però rutilanti mascheroni, barbarici decori di cartapesta: arrivano in volo invece dai cieli azzurrini e tenebrosi dell’infanzia, lievi o inveleniti, ma sempre vivi, di una vita infantile e superstiziosa. Egli crede nei malefici e nei sortilegi; quanto spesso ha sentito intorno a sé alitare, aleggiare forze oscure ostili che intrecciavano sarabande sardoniche, intralciavano i suoi passi... Dèmoni, streghe, spiriti dell’aria e del fuoco, che gli si sarebbero voluti sottomettere, avendo riconosciuto in lui il loro signore, e gemevano per il desiderio canino di servirlo e schiumavano per la superbia infernale di lui che glielo impediva e li scatenava, canea accanita contro la sua solitudine sdegnosa e riluttante ad ogni ruolo, ad ogni complicità.
Egli puerilmente si dispera e pensa: e adesso? Si guarda allo specchio, ha provato a toccarsi, ma subito ritrae le mani con orrore. Vorrebbe ancora, ma non può più sperare che arrivino le sue Fate a dirgli: i tuoi occhi allucinati sono stati lo zimbello dei nostri piani. Né occhi allucinati, né mani stregate, né specchio incantato – l’incantesimo è lì, operante, sulla sua persona e lo espone alla vergogna e allo scherno. Né riconosce altri piani che quelli della diavolesca compagnia che gli spalanca trabocchetti sotto i piedi per averlo ad ogni costo tra i suoi. Si nasconderà, si ritirerà dal mondo, ma per precipitare comunque, lo vede bene, sta già precipitando, nell’abisso fondo dell’accidia e della desolazione.
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