La grande enciclopedia dei folletti (illustrazioni di Claudine & Roland Sabatier), Mondadori 1992
INTERVISTA A PIERRE DUBOIS
Come è nata l’elficologia, di cui lei è l’inventore e che sta prendendo campo non solo in Francia?
Da parecchio studiavo questi temi ma l’idea di essere “elficologo”, in realtà, è sorta durante una conversazione nella trasmissione televisiva Apostrophe di Bernard Pivot. Ero un po’ stanco di dover spiegare che ero sì, uno scrittore, ma uno scrittore che andava in giro nelle biblioteche del mondo in cerca di elfi e di fate ponendo domande ad anziani sulle leggende dei luoghi.
Quindi tutto ha inizio con una boutade?
Lì per lì, si trattò di una boutade. In seguito, molti giovani cominciarono a scrivermi per chiedermi «voglio anch’io fare l’elficologo, mi dia un consiglio» e così è entrata nell’usanza l’elficologia (da elfo e da logos), lo studio degli elfi e per estensione di tutto il “Piccolo Popolo” uscito dal folclore e dalle mitologie del mondo di cui mi occupo da quando ero studente. Mi diverte, a ritroso, pensare che se qualcuno cerca “elficologia” su Internet, trova in modo ufficiale questa parola su molti siti.
Da bambino avrà praticato la rêverie, il sogno ad occhi aperti.
La regione dove sono nato è quella delle Ardennes che è una immensa foresta molto selvaggia dove ci sono un’infinità di credenze popolari, di leggende. Si dice che gli ardennesi siano dei cinghiali in quanto selvatici come la loro foresta. Io credo molto allo spirito dei luoghi. Ognuno di noi ha l’impronta della regione dove è nato, dove è vissuto per molto. In seguito, i miei genitori traslocarono per trasferirsi nel Nord e mi ritrovai d’improvviso in una regione molto scura con pochissime foreste, poca natura, ma nello stesso tempo mi accorsi che in quel luogo regnava un’atmosfera bizzarra: tutti i canti d’uccelli, i fiori che si possono trovare ovunque in abbondanza mi vennero a mancare.
Non esistevano fiori e uccelli in quella zona?
Esistevano ma, abituato com’ero all’abbondanza, mi toccò porre un’attenzione diversa per reperirli. Dovevo, in qualche modo, faticare per accedervi. La natura, la luce, non si offrivano così facilmente come nelle Ardennes. Un altro mondo si presentava al bambino solitario che ero. Per fortuna avevo un giardino e lì ricostituii la foresta. Il giardino diventò così la foresta delle fate di Brocéliande, di Sherwood, e detti libero sfogo all’immaginario.
In casa c’era una soffitta per ritrovare la magia?
La casa era piccola ma il luogo dove fantasticare era la buanderie, lo stanzone dove si lavano e asciugano i panni. Quel luogo intermediario tra la cucina e il giardino era saturo di vapore, e il fuoco sotto i pentoloni disegnava di fiamme il soffitto e scricchiolava di mille rumori inquietanti che m’impaurivano e insieme mi riempivano di meraviglia. Seguivo le crepe del muro che mi portavano come un lungo sentiero in luoghi misteriosi. Avevo l’impressione di essere circondato di mille piccoli esseri attorno a me di cui non conoscevo i nomi. In genere tutto nasce nell’infanzia e la mia assomigliava in tutto e per tutto a quella de L'enfant et les sortilèges di Ravel.
Anche i libri furono importanti nella sua formazione, immagino.
Sì, ma venivo da un’epoca in cui i genitori non vedevano di buon occhio che si leggesse troppo perché lo ritenevano un modo per non far niente, per non studiare. Oppure i nonni ammonivano: “ti sciuperai la vista”. Quindi per me il libro è diventato magico in quanto in un certo senso proibito. Così ho cominciato non solo a leggere ma poiché nessuno mi raccontava storie, addirittura a scriverle per me stesso. Quindi ho passato il resto della mia vita a cercare racconti e leggende fiabeschi di cui avevo bisogno per nutrirmi lo spirito, come da voi in Italia fecero Giambattista Basile e Italo Calvino e poi le riscrissero a modo loro.
Lei è un lettore del filosofo Bachelard, c’è per caso qualche nesso con l’elficologia?
Bachelard scrisse una cosa che non ho mai scordato: «I piccoli esseri fuggenti e nascosti dimenticano di fuggire quando li si chiama con il loro vero nome». Questi piccoli esseri sono gli elfi che hanno paura degli uomini e ci lanciano messaggi ecologici.
Ha ancora senso, in un’epoca di videogiochi, di effetti speciali e di tutto ciò che viene offerto ai bambini raccontare, trasmettere le leggende, la fiaba…
Il racconto fiabesco, il conte, sono essenziali nella formazione dei bambini, in quanto la mitologia è universale e grandi autori come Andersen, i Grimm o Tolkien vi hanno attinto a piene mani. Gli effetti speciali non devono sostituire la magia, il “meraviglioso” che ognuno porta dentro di sé. Si devono raccontare quindi le leggende, anche ai maschietti. Perché sono racconti iniziatici dove l’essenziale viene detto. Se si analizzano gli elementi del racconto si scopre che il bambino si troverà nella foresta, che corrisponde alla foresta della vita. Incontrerà i draghi, gli orchi i folletti e sarà in armonia con la natura. Se il bambino della fiaba si comporterà bene, se saprà pian piano traversare le varie difficoltà, accederà alla saggezza, alla conoscenza grazie alle donne.
E come finirà?
Molto spesso il bambino, il nostro eroe sposerà la figlia del re, grazie all’aiuto delle fate e sposando la figlia del re avrà accesso alle cose della vita, a tutto ciò che è vicino alla natura, al fatto emozionale e soprattutto alla dolcezza di ciò che è femminile.
Il racconto fiabesco ci aiuta a stare in armonia con la natura.
È una delle sue qualità principali. Ci racconta anche che dobbiamo creare un’alleanza con gli animali. Come al tempo delle fiabe in cui le bestie parlavano. Se siamo in equilibrio con la natura e la parte di animalità, il racconto fiabesco ci porterà a ciò che chiamo “l’ecologia dell’anima”. Ma non riusciremo mai a salvare nostra madre Terra, se non sapremo ritrovare l’incanto, il gusto del meraviglioso.
Che cosa ci insegnano le fate in fatto di natura?
Ci dicono tra le altre cose: «attenti, se buttate immondizie nell’acqua, ucciderete le sirene, le fate dell’acqua; se tagliate a sproposito gli alberi ammazzerete le driadi, le amadriadi, le ninfe che vivono nel tronco delle querce». È un vero e proprio suicidio quello di non rispettare gli alberi perché sono i polmoni della natura. Purtroppo c’è stato un momento in cui gli anziani non hanno più raccontato queste cose ai bambini. Inoltre la chiesa ha rigettato le fate e gli elfi perché erano faccende pagane ma nel contempo, facendole diventare streghe ne confermavano l’esistenza. Dopo i materialisti, sono arrivati gli ussari neri e non si doveva più parlare il patois, il dialetto, le credenze popolari sono state uccise. Volendo essere gli unici padroni della natura se ne uccide lo spirito.
Potrebbero scomparire le leggende, i racconti popolari.
Purtroppo, si calcola che in cinquant’anni la tradizione orale potrebbe scomparire completamente. Mi sono accorto che i bambini, invece, ne hanno bisogno. Hanno cominciato a interessarsi ai manga, ai giochi di ruolo ma in modo artificiale. Allora mi sono detto che era ora di riappropriarsi del folclore, quello leggendario che ci appartiene ed è così ricco.
E ha dedicato tutta la vita a questa riappropriazione. Ci è riuscito?
Credo di sì, perché si assiste a un ritrovato desiderio di leggende. All’epoca Vittoriana quando la gente cominciò ad abbandonare le campagne per far “girare” la macchina londoniana nacque l’entusiasmo per il libro Peter Pan di Barrie. Quando fu rappresentato per la prima volta, vi era la scena in cui Peter Pan si gira verso la folla e annuncia che la fata Campanellina sta morendo. Chiede «Ma voi credete alle fate? Perché ogni volta che qualcuno dice di non credere alle fate è una fata che muore. Ora Campanellina sta morendo davanti a voi. Dite che a lei credete, battete le mani così non morirà». Beh, dalla folla si alzò un’ovazione. Si ebbe allora l’impressione che i vittoriani prendessero coscienza che qualcosa stava morendo in loro. Ed era il loro immaginario, il sogno, la loro stessa anima. Ho l’impressione che oggi, per fortuna, si ritrovi il desiderio di tornare alla leggenda, alle radici popolari.
Traduzione dal francese di Viviane Ciampi
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