LE ALI IN OMBRA
La penombra inizia lentamente a riempirle gli occhi ancora pesanti di sonno. La penombra della stanza assomiglia alla tenebra del sonno ma non è uguale. Luisa spalanca gli occhi e vede le ombre aprirsi come le ali del tordo, e attraverso le imposte semichiuse della porta finestra che dà sul cortile, intravede la luce accesa della soffitta. A poco a poco, molto lontano, il mormorio delle voci lassù. E si copre con la mano l’orecchio destro, per paura che il dolore ricominci ancora. Quel dolore lancinante, come un dito feroce, piantato nel buco dell’orecchio per attraversarle pure la gola. Mamma le ha messo le gocce calde che inondavano e assordavano i timpani e Luisa l’ha lasciata fare, seppure urlando in lacrime, perché sapeva che dopo sarebbe arrivata la pace del dolore. Non era la prima volta che le facevano male le orecchie e le mettevano la medicina e poi la sdraiavano sul letto della mamma, per farla più contenta, poverina la piccola è malata.
- Mamma. Maaammaaaa.
In mezzo alle ombre sembra che la voce faccia fatica a sollevarsi. Dietro le tende il dolore fugge o resta in agguato, chi lo sa.
Però pace del dolore non si dice, Luisa, pace dei sensi, che quando sono in guerra fanno male. I sensi sono cinque: la vista, l’udito, l’olfatto e il gusto, che sono nella testa, e il tatto che è dappertutto. Beh, in realtà la faccenda del tatto è un casino. Michela disse l’altro giorno che il tatto si sente con le mani e che le mani non sono uguali: una è la destra e l’altra è la sinistra, e non importa che ora la tua destra rimanga di fronte alla mia sinistra e la tua sinistra di fronte alla mia destra. Invece Serena le spiegò che il tatto era quel saporino che lei sentiva sulla pelle quando la zia l’accarezzava. Luisa dopo l’ha voluto domandare a tutti, perfino a Elena, dimmi Elena, tu non senti come un saporino diverso sulla faccia o sulla schiena a seconda di chi ti accarezza, la mamma o Serena o Michela o io? Elena disse di sì, che erano tutti sapori diversi, che le piaceva più di tutti quello della mamma, dopo quello di Serena, mentre le piaceva meno quello di Luisa. Ma che vuoi fare, non bisogna farci troppo caso, lei è piccola e molte cose non le capisce.
- Mamma. Maaammaaaa.
La voce vorrebbe attraversare il patio e salire verso la luce; ma rimbalza contro i vetri della porta e si diffonde come il profumo di una bottiglia rotta in mezzo ai fantomatici corpi della stanza in ombra.
Carezza, tatto, sapore, gemito della pelle. Ogni pezzo del corpo si riconosce nei limiti imposti dal dito che lo tocca, e sotto le dita pazienti di Serena canta “Sono la tua fronte, Luisa”, “Sono la tua spalla, la tua scapola, il tuo braccio destro e il tuo avambraccio”.
È un senso curioso questo, che ha un po’ dell’udito, un po’ del gusto e, certamente, un po’ del tatto; perché inoltre tu ti puoi toccare con le tue stesse mani, ma non è così piacevole, perché allora si sente, sì, ogni pezzo di pelle che si risveglia, ma non si sente il sapore dell’altra pelle, quello della mano che ti tocca, e che cambia da una persona all’altra. Magari i sensi non sono cinque ma sei, e questo sesto senso nessuno lo nomina perché non si sa come chiamarlo, perché dimmi un po’, se quando tu vuoi parlare di quello, l’altro ti dice “Ah, il tatto”, tu dici “Sì, il tatto”, perché pensi che ti abbia capito, e non ti rendi conto che state parlando di due cose diverse. Sarebbe come quando la mamma dice “La pancia ti fa male ma come, bruciore di stomaco, o nausea, o senti una fitta?” e io le dico “Nausea”, che mica so esattamente cosa sia, ma suona tanto bene che mi piacerebbe averla: Nausea assomiglia a Nave e a Ninfa e a Nausicaa, che era una principessa e si era innamorata di Ulisse. Le parole si assomigliano alle persone e alcune sono più belle e altre sono più brutte, ma se una che è più brutta si assomiglia a un’altra che è più bella, ci piace lo stesso. Per esempio, Iolanda assomiglia moltissimo a Marisa Allasio, e Claudia a Amelita Vargas, che è la quarta dei tre moschettieri, e la cugina di Rachele assomiglia parecchio a Shelley Winters. Sobborgo assomiglia a Ingorgo ed Eloisa assomiglia a Luisa, anche se Eloisa è più bello, ma in fondo preferisco Luisa.
- Mamma. Mammina.
Con il polpastrello del dito anulare sente la fibra leggera e aspra del cotone che le hanno messo nell’udito e sembra che il dolore sia passato quasi completamente. È passato durante il sonno, perché prima di dormire le faceva molto male. E aveva dormito un bel po’ perché prima di venire a letto era ancora giorno e attraverso le imposte semichiuse della porta finestra che dà al patio entrava un filo di luce nel quale non si distinguevano più i puntini di polvere dell’aria, ma si vedevano sì il grande naso dell’armadio e il gomito della poltrona. Adesso invece non si vede nulla. Soltanto il punto di luce della soffitta. Là sopra ci saranno senz’altro Elena, a leggere l’ultimo "Billiken", Serena a cucire, Michela che prepara il mate, la mamma che fuma e il Toby sdraiato sul tappeto, aspettando che venga Luisa a fargli un mare di coccole. Nessun altro passa così tanto tempo a coccolare il Toby. Soltanto Luisa. Perché se al Toby piace tanto essere toccato e rimane lì fermo fermo, a fare il morto, soltanto sospirando ogni tanto, sarà perché anche lui sta imparando la forma delle sue orecchie, e della sua pancia, e della sua zampa, sotto le dita pazienti di Luisa. In quello il Toby le assomiglia. Corpicino, cagnolino, piccolino, piccolina, bimbina. Crescono scoprendo l’aria che li delimita. Oltre quella linea divisoria finisce il paradiso.
L’aria della scalinata del patio è fredda e il corrimano è umido. Più si sale più crescono le voci. Là sopra c’è la porta; dietro la porta, il calore della stufa accesa da un bel po’, l’olio zuccherato delle ultime focacce, sopra il vassoio di rame argentato, i disegni del “Billiken” già dipinti da Elena, il ditale ballando sotto il naso di Serena, il fumo della sigaretta formando incerte figure che si raddoppiano nello specchio del comò, e la coda del Toby che, inosservata, tace.
L’ESTATE DEI GATTI
Quella è stata certamente l’estate dei gatti. Incominciarono ad apparire sinuosamente verso la fioritura dei ciliegi. In uno di quei brevi pomeriggi, avendo potuto trattenermi dietro l’impressione di un bianco visitatore dall’impercettibile movimento sotto la mite brezza, improvvisamente lo vidi: la prima macchia ad attraversare silenziosa una delle alte gradinate dell’orto. Era il primo e non si accorse di me. O mi fece credere che non se ne accorgeva. Dopo vennero gli altri. Non si fermavano. Non si sdraiavano per dormire o per scaldarsi al sole. Soltanto passavano oltre: il seminato, la gradinata, la recinzione con le rose. Domandai a Federico se non sarebbe stato opportuno lasciare qualcosa da mangiare per loro, che forse giravano nelle vicinanze in cerca di cibo. Ma Federico, come era prevedibile, mi disse di no. Mi chiamò sciocca e fantasiosa e affermò che lasciare un piatto con avanzi sarebbe stato un vero invito a invadere la casa; e una volta fatto questo, non ci avrebbero mai più lasciato in pace. Aggiunse che sarebbe stato meglio per me dimenticare i gatti e mi consigliò di dedicarmi piuttosto a raccogliere le ciliegie prime che i merli le finissero tutte.
Io adoravo questo incontro quotidiano con i silenziosi esseri dell’orto che in cambio di un po’ d’acqua mi regalavano lo spettacolo della loro favolosa crescita. Ma la mia ancestrale vocazione per i recinti chiusi urtava contro questa esperienza di luce costante alla quale tuttavia mi sentivo in parte costretta per via dell’amore di Federico, che mi avvolgeva e mi spingeva, mi inteneriva e mi guidava.
L’amore di Federico era fatto di tanti abbracci e di pochi ordini taglienti, brevi, secchi, che non mi sono mai sentita in grado di discutere o meno ancora di disubbidire. Non rammentai più i gatti ma le loro figure magre, tigrate, a macchie, le loro teste sollevate, i loro muscoli tesi, il loro camminare incomprensibile, diventarono a poco a poco ossessive visioni, alle quali poco dopo si sarebbe aggiunta la sporadica percezione delle loro voci acute o stridenti, dei loro lamenti o suppliche o rimproveri.
Una notte sono riusciti a tenermi sveglia fino all’alba con strazianti richiami di passione e non soffocate urla di sofferta lussuria. Nei pomeriggi successivi si videro i loro profili dal chiarore diverso; e il loro passo elettrizzante impresse orme intraducibili nell’aria profumata dell’orto, in passato così sereno e consolante.
Questa mattina, mentre mi preparavo a riempire barattoli di marmellata fatta con le ultime ciliegie, quelle ormai troppo mature, il campanello insistente del postino mi ha richiamata verso la poco frequentata porta dell’ingresso.
È una lettera da Barcellona, di Cristina: mi dice che Cortázar l’ha invitata a conoscere Parigi portata per mano da lui stesso, a percorrere le strade di quella città di folli e di gatti.
Adesso lo so, l’invasione sarà inevitabile.
L’ULTIMO VOLTO
Comincia ogni giorno si ripete sotto diverse forme e io cammino sempre dietro alle sue orme domandando quale e domandando a te ma tu non vuoi e mi dici lascia perdere e il giorno comincia a diventare d’oro al di sopra dei colli e la nube toro comincia a essere foglia di pergolato quando a un tratto parli del sole nero della malinconia e uscendo c’è la gatta come un gomitolo nero sull’erba luminosa che ci guarda appena mentre ce ne andiamo attraverso un’aria carica di innominabili – dammi la mano lascia perdere – e mi pare di sentire profumo di giacinto o di narciso – dammi la mano non ci pensare – allora non faccio più domande ma senza rendermene conto aspetto aspetto e mi viene da pensare che volti tanto diversi dovranno pur confondersi prima o poi e giungerà il momento in cui tutto sarà uno e lo stesso e in cui non cammineremo più perché l’aria fra la tua bocca e la mia sarà tutta la musica e la terra fra il tuo piede e il mio tutte le strade dalla tua fronte alla mia nove cieli e poi l’ineffabile e questo amore di noi due che cresce come un pallone rapito dalle nubi perderà i nomi e i canti sarà adesso e dopo sarà frequenza e zero sarà radice e aria sarà uno e lo stesso a parte noi che non ci saremo noi che non conteremo più
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