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Il tempo che ci separa scorgete sulle pagine ingiallite delle fiabe, contate i suoi reperti nei timbri incerti che noi grandi abbiamo sulle braccia. Uno la madre, due il padre e la maestra.
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È arrivata la signora, ma la chiave le sfugge due volte giù dal muro, e cadendo produce un tintinnio sonoro. Come nella fiaba di Perrault, a te, Isabella Morra, era proibito usare solo una chiave, penetrare solo in una certa stanza, pena: il sangue. Invece schiudesti l’amore. Lei, nella fiaba, fu salvata dai fratelli; tu in loro, dai nomi shakespeariani, trovasti i tuoi guardiani efferati. Invocavi il padre, il suo cavallo o battello, ma lui non ti rispose. Non accorse, non usò da messo il polverone degli zoccoli ferrati. Mai capisti che era lui il tuo Barbablù.
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Allo stesso modo in cui mi raccontavi la fiaba dei sette cigni fratelli avvolti in maglie d’ortica, adesso, attraverso la tua voce, la morte della nonna acquista sfumature di cronaca, di tragedia antica, di leggenda secolare. Spezzato il filo da cucire con i denti, per la prima volta seduta a capotavola, rievochi le ultime battute balbettate prima della caduta del sipario, l’alternarsi degli spettatori al capezzale, i fiori al funerale. E il tuo debutto inaspettato sulla scena, il tuo salto da spalla a primadonna, è un pianto sommesso, un canto sconsolato.
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Non capisco perché la fatina che ti prenota i biglietti d’aereo nella sotterranea agenzia di un grattacielo non sia capace di trasformarmi in un oggetto tascabile, ridurmi al punto da annullare la tariffa. Entrerei nelle fodere strappate, mi confonderei coi resti di filtro e di tabacco. In business class bisbiglieremmo di nascosto; le mie frasi somiglierebbero a uno scalpiccio di passi sulle scale, che t’inseguono veloci. E se a un tratto ti sembrassi impertinente e mi prendessi in mano, sentiresti fra due dita il palpito di un cuore.
CAPPUCCETTO ROSSO
- Nonna, dov’è il sacchetto delle provviste? - Per la notte, Cappuccetto, l’ho calzato in testa. - Nonna, dov’è l’amato cacciatore? - Dentro la mia pancia, che vuole farmi fuori. - Nonna, che parole senza per favore! - È per sentirmi meglio imperatore. - Nonna, che lamenti lunghi! - Ho ingoiato velenosi funghi. - Nonna, che sonno leggero! - Di controllare tutto spero. - Nonna, non mi chiami più nipote! - Sono il lupo, da quando non ho più salute. - Nonna, chi ha mangiato il pranzo? - Non te ne ho lasciato neppure un avanzo. - Nonna, non eri tu che mi preparavi le torte? - Sì, ma adesso penso solo alla mia morte.
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Hanno impacchettato le statue nel giardino d’Estate, le pozzanghere si son fatte di vetro, e gli alberi del viale se ne stanno in fila con le punte intrecciate come carte da mischiare divise in due mazzetti. La nonna porta a spasso Cappuccetto Rosso. Le segue un lupo infreddolito.
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Il fiume s’impiglia, il biancospino buca le calze, il filo spinato – le dita, come se qualcuno cercasse dappertutto una Bella da addormentare. E tu, Signora, che ci hai preparato questo castello. Le lampade che pendono un po’ troppo, pronte a cadere, una certa sproporzione fra il tavolo e le sedie, che riempiamo coi cuscini sottratti a letti troppo alti, e quei piccoli bicchieri, piccoli coltelli, cucchiai, quelle piccole forchette con cui hai apparecchiato la nostra tavola, come se volessi ricordarci ogni momento che questa, la vita del castello, sarà corta per noi come una favola.
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Corrono verso il palco per l’ultima volta, prendendosi per mano con il sorriso in volto: lei, Stella, le mani tornate ai polsi mostra per intervento dell’Avvocata nostra, e l’altra, la gelosa, perfida matrigna, si sfila la corona – torna lucida castagna senza riccio intorno, l’arrosto della penitenza – e con questa il suo ruolo di plumbea eminenza. Corrono, corrono avanti e indietro gli attori, mentre applaudono caldamente gli spettatori non l’antica storia, ma la sua fine liberatoria.
RAPERONZOLA
La strega ti piantò su, in cima alla torre. E le tue radici crebbero solitarie, lunghe fino a toccare il suolo in trecce. Il principe, con la formula della strega, te le fece calare giù dalla finestrella. Si trasformò in piacere il dolore del tiro. Ma la strega scoprì l’intrigo, e te le recise. Le afferrò come redini e le srotolò posticce. Il principe cadde a precipizio nel tranello. I rovi bucarono i suoi occhi innamorati. Le tue lacrime gli restituirono la vista.
LA PERINA
Nascosta in un sacco insieme con le pere, e offerta al Re dal padre, che aveva altre bocche da sfamare, usciva ogni notte nella ricca dispensa e si dava al libero mangiare e al bere. Il dispensiere, spiando dal buco della serratura, la colse sul fatto e la portò dritta dal Re. Crebbe lavando e stirando da guardarobiera, ma le compagne gelose l’accusarono di darsi arie. Il Re volle metterla alla prova, e il Principe in segreto le affidò una bacchetta magica per sbrigare il daffare. Bastava batterla, perché allo scadere di una notte tutta la biancheria di Corte fosse sistemata, una notte per lucidare tutti i pavimenti, una notte per rubare il tesoro della Fata Morgana, che invano si era gettata al suo inseguimento. La Perina vinse e perdonò le compagne gelose dopo aver sposato il Principe e fatto un mese di festa.
CENERENTOLA
Cenerentola, Cenerentola, su, dacci il pettine e il profumo; su, lucida le scarpe, e fa’ diventare d’oro le fibbie: andiamo al ballo del Re! Tu al ballo? Con tutta quella cenere addosso? Con quegli zoccoli, stracci? Potrai venire solo se fra due ore avrai raccolto il sacchetto di lenticchie, che ho buttato or ora nella cenere! Colombi, tortorelle, uccelli cari, presto, accorrete! E tutti assentirono col capino: pic pic, pic pic, pic pic, e le ammucchiarono nella scodella, e lei tornò dalla matrigna per il ballo. Quella disse che non aveva un vestito, e allora Cenerentola scongiurò il nocciolo cresciuto presso la tomba della mamma, e ebbe ai suoi piedi un abito d’argento e d’oro. Cenerentola si presentò a corte, ballò tutta la sera, e il principe le riportò la piccola scarpa che aveva smarrito sulle scale, stretta come una cruna, dentro la quale le sorellastre non erano riuscite a passare, neppure tagliandosi l’alluce col coltello.
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