FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 19
luglio/settembre 2010

Eros

 

QUANDO L’OPERA FA A MENO DEI LUOGHI COMUNI

UN RECENTE STUDIO DI DANIELA CARMOSINO SULLA ATTUALE NARRATIVA DEL SUD CI AIUTA A FARE PIAZZA PULITA DI STEREOTIPI, IL PRIMO DEL QUALE È CHE SOLE E MARE SIANO STEREOTIPI.

di Marco Testi



Sono diverse le riflessioni che scaturiscono dalla lettura di Uccidiamo la luna a Marechiaro. Il sud nella nuova narrativa italiana di Daniela Carmosino (Donzelli, 2009). Alcune direttamente interessate al discorso della letteratura meridionale, altre più generali. Tutte ovviamente legate alla dimensione della scrittura del nostro Mezzogiorno, e quindi comunicanti tra di loro senza soluzione di continuità.

Iniziamo dalle prime pagine. Vi si parla di convegni, tavole rotonde, conferenze e quant’altro, ovviamente sul tema del sud nella scrittura. Convegni, tavole rotonde, conferenze in cui si spacca il capello in quattro, in cui si attacca un tale scrittore perché da alcune sue pagine si evince l’immagine di un sud stereotipo e convenzionale, in cui si spara a zero su di un altro perché la sua scrittura è devastante e nichilista, anch’essa perciò colpevole di dare un’immagine non vera del meridione. Non va bene nulla, e nulla sfugge al fiuto del solerte critico.
Speravamo che il buon gusto avesse suggerito non dico l’abolizione, che sarebbe un atto totalitario, ma la lateralizzazione di questi tediosi incontri in cui si attende stancamente il momento della propria relazione, ripassandola di tanto in tanto con finta noncuranza. Occasioni di incontro per fare un po’ di ruota, per mostrare quante e quali acutezze sono scaturite dalla propria abilità, per dimostrare di esistere accademicamente o criticamente. Raramente la letteratura è stata così lontana come in queste occasioni. Con la realtà a galleggiare da un’altra parte. Con la gente a frequentare qualche altra parte. È necessario precisare che chi scrive è convinto che tra gli annessi e connessi del termine realtà si debba compendiare anche l’opera.

Esiste un libro, o, se vogliamo essere moderni, un testo messo a disposizione nella rete.
Lo si legge. Può piacere. Può non piacere.
Può piacere talmente tanto da volerlo regalare a un amico, o segnalarglielo.
Ci sono libri che hanno salvato vite, alla faccia di chi ha proclamato la morte della letteratura. La letteratura come creazione è utile quanto una azione materiale, quanto e più di un oggetto, come aveva giustamente notato, ignorato ovviamente dai più, il buon Bachelard.
Un’opera può piacere talmente che la si recensisce subito, chiedendo al caporedattore di togliere il pezzo inviato solo la sera prima. E se è un libro di antica età, si propone, sempre al povero caporedattore vittima dei capricci e delle insane trovate del “critico” (sarebbe il caso di buttare alle ortiche questo termine) una piccola rubrica di libri smarriti e ritrovati, da tutti i punti di vista. Si legge, si scrive. Non si spacca il capello in quattro cercando il limite demagogico o/o populista di quello scrittore che ha avuto la sventura di riempire prime e terze pagine attirandosi non tanto l’attenzione della malavita organizzata, ma, ahilui, quella di accigliati censori che sorvegliano quanto e quando egli devii dai loro principi critici.

Per fortuna l’autrice presto abbandona le Scilla e Cariddi dei dibattiti e delle tavole rotonde e passa al corpo vivo della questione.
Ecco allora uscire fuori l’importanza di un volume che è il solo a presentarci gli elementi fondamentali della nuova narrativa meridionale. Ci fa nomi, ci indica i romanzi e i racconti, e allora ci si apre un panorama nuovo. Certo, Daniela Carmosino individua fonti di fascinazione, diretta o indiretta, dei vari Pascale, Alajmo, Dezio, De Silva, Soriga, Romano, e sono soli pochi nomi. E giustamente nota come i fantasmi di Verga, De Roberto, Capuana, Tomasi di Lampedusa aleggino oggi più di anni fa, e talvolta oscurino quelli di Sciascia, tanto per fare un esempio conosciuto ai più.
Non è tanto un problema di maggiore o minore presa o durata, ma semmai di temperie culturali, per cui negli anni dell’egemonia marxista erano privilegiati alcuni, mentre un certo strutturalismo meno legato a remore ideologiche privilegiava altri. Si pensi alla attuale eclisse di Moravia, rispetto agli anni Cinquanta-Settanta e alla intermittente apparizione della Morante, tanto per restare in famiglia, che essendo una delle più grandi scrittrici, non solo del Novecento, dà fastidio a tutti, perché libera da remore ideologiche. Il genio non ha tessere politiche: la sinistra stessa ha assolto Pirandello per averne chiesta una in tempi infausti e inopportuni.

La Carmosino si confronta con molte tendenze critiche, una delle quali merita una certa attenzione: c’è stato, c’è ancora oggi, anche se -per alcuni fortunatamente in estinzione-, un filone oleografico tutto sole, mare e sorrisi, immagine “reazionaria” e banalizzante di un sud che non sarebbe mai esistito o non esisterebbe più. Anche qui c’è da andare con i piedi di piombo. La letteratura è l’espressione di una libertà creativa, a meno che non si sia condizionati da meccanismi editoriali particolarmente coercitivi e legati unicamente a istanze di mercato.
Uno dei decani della psicoanalisi italiana, Vincenzo Loriga, preferisce essere presentato e ricordato come poeta, sostenendo che mentre ormai la terapia è diventata una forma di potere e di denaro, la creazione artistica è totalmente libera. Se è vero questo, è vero anche che l’opera non può essere giudicata solo per la presenza di luce, sorrisi, inserti dialettali, Vesuvio, mare, pescatori e magari anche Posillipo, crepi l’avarizia.
Se l’opera narrativa è fatta solo di questo, probabilmente sarà gettata nell’apposito contenitore neanche a metà lettura. Se c’è altro, se c’è la libertà dell’invenzione in grado di creare miti, come giustamente nota Giulio Mozzi, altrettanto giustamente e appropriatamente ripreso dalla Carmosino (assai attenta a tutte le sfumature interpretative, anche quelle apparentemente più distanti e “laterali”), ma allora che cosa interessa la presenza del cielo limpido e del mare pulito?

Se a qualcuno dovesse venire il sospetto che queste due cose non esistano più, si potrebbe obiettare che comunque il mare e il cielo di alcune zone del meridione sono sicuramente meno inquinate e più luminose di altre, e che purtroppo la civiltà della polluzione ci sta costringendo a calcolare con il misurino il livello di maggior o minore inquinamento del Belpaese, in attesa che un governo degno di questo nome affronti alla radice il problema e inizi a prendere qualche misura.
Qualcuno ritiene che lasciarsi andare alla memoria sia una sorta di operazione reazionaria. Per cui Elsa Morante è da iscrivere a questo albo. Non parliamo poi di Ernst Jünger, si guardi bene lo Jünger delle Scogliere di marmo, quello che prendeva definitive distanze dal nazismo. Alla fine ci accorgiamo che il novantacinque per cento degli scrittori sarebbe (il condizionale è d’obbligo) reazionario o ha avuto qualche episodio “macchiato” da questa colpa.

Una buona parte degli addetti ai lavori non ha capito che la memoria non è cancellabile, e che essa non funziona solo da benda che impedisce di vedere il presente, ma da impulso primario teso alla ricostruzione della bellezza, che fonda la percezione del bello inteso come unità naturale delle cose. È una funzione positiva quella che ci spinge a ricordare. Altrimenti dovremmo buttare un romanzo edito oggi solo perché parla degli anni Settanta. Sarebbe invece il caso di leggerlo per capire se può darci stimoli per capire il presente.
Il buon Francesco di trecentesca memoria non ha fatto altro che declinare in tutte le salse la dolce memoria di quel giorno. Per molti reazionario, fissato, soverchiato dall’ipertrofia del suo io che gli ha impedito di vedere la realtà per tutta la sua vita, dedicata ad una sola donna. Però è stato imitato apertamente per tre secoli e di nascosto per i rimanenti. Però si è scoperto, magari un po’ tardino, che aveva scritto opere perfettamente ancorate al suo tempo, come quelle legate alla questione avignonese o alla difesa del buon nome dell’Italia contro un francese che l’aveva diffamata. Opera quest’ultima che la nostra attuale classe politica dovrebbe tenere presente di fronte a certe posizioni leghiste.
La nostalgia della bellezza del creato non è reazionaria, è una testimonianza utile pragmaticamente per combattere il brutto mascherato da bello e per fare un paragone con l’oggi. Se uno vuol convincere un ragazzo nato nei novanta che il mare non è stato sempre così, come qualcuno gli ha raccontato, deve fargli vedere una foto che mostra quello stesso mare com’era prima. Allora quel ragazzo potrà battersi per la salvezza della natura, grazie anche alla nostalgia di quella bellezza perduta.

Merito indubbio di Uccidiamo la luna a Marechiaro è di stimolare queste e tante altre riflessioni e di offrirci un quadro davvero completo, delle tematiche affrontate dalle nuove generazioni di autori. Si fanno i conti con l’emigrazione al nord, con la disoccupazione anche in età non precisamente giovanile, con il precariato, con l’alienazione della fabbrica, con i nuovi miti mediatici che impediscono di vedere la realtà perché si sono sovrapposti ad essa. Mettiamoci poi la malavita, le raccomandazioni, una politica che continua a (non) funzionare solo perché nessuno ha più la voglia non dico di contestarla, ma di seguirla, perché ormai si è trasferita in un luogo magico che non è più neanche un luogo, ma un’immagine anch’essa (in questo libro si parla anche di Matrix…), una Bisanzio virtuale. Mettiamoci i rapporti con i “vecchi”, cui costringe la disoccupazione (ma d’altronde un “reazionario” come Pound esecrava le famiglie in cui convivevano vecchi e giovani), gli amori destinati a misere fini anche perché su di essi incombe la spada di Damocle della assenza di lavoro o della sua programmata precarietà. Il che propone, soprattutto ai politici legati ad una ideologia popolare e attenta alle classi meno abbienti, domande del tipo: come si fa a parlare di aiuto alle famiglie se queste famiglie non possono neanche essere progettate perché neanche Einstein potrebbe risolvere l’equazione Formazione di famiglia=Programmata precarietà del lavoro? Come si fa a parlarle di emergenza demografica e lamentarsi dell’invecchiamento della popolazione se la gente non può neanche pensare a mettere su famiglia?

Come si vede, la Carmosino affonda, bene in profondità, il dito nella piaga. Parlando di letteratura. Senza prendere posizione, ma presentando le realtà sia a livello di dibattito (dei cui limiti – del dibattito, non del lavoro dell’autrice – abbiamo detto all’inizio) sia soprattutto a livello finalmente operativo, con una esaustiva panoramica sulle giovani leve che si sono prese in carico il sud e i suoi problemi. Parlando soprattutto dei veri protagonisti, gli artefici di opere che comunque le si veda, hanno nel dna l’appartenenza alla terra. Autori che non hanno bisogno di dibattere per esprimersi, perché la loro espressione è l’arte: e, lo sappiamo bene, una zona dell’arte non è razionalizzabile, e neanche spiegabile. È se stessa, e in questo suo essere se stessa è anche realtà, terra, mare, quando c’è.


Daniela Carmosino, Uccidiamo la luna a Marechiaro. Il sud nella nuova narrativa italiana, Donzelli, Roma 2009, 194 pagine, euro 17,50.


Daniela Carmosino è nata a Roma, dove vive. Docente presso l’Università del Molise, editor e consulente editoriale. Ha pubblicato saggi e articoli sulla letteratura italiana del primo Novecento e interventi di critica militare sulla narrativa contemporanea. Da anni si occupa di cultura meridionale.


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