FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 10 aprile/giugno 2008 Identità & Conflitto |
FEDERICO PLATANIA di Alessio Brandolini |
È risaputo, i soldi fanno gola a tutti, ad alcuni (in rapido aumento) in modo ossessivo, angoscioso. Viviamo in una società globalizzata eppure sempre più chiusa e divisa: ognuno fa la sua vita dentro il proprio opaco e ristretto orizzonte. Il romanzo di Federico Platania, Il primo sangue (Fernandel 2008), che fa seguito ai racconti pubblicati nel 2006: Buon lavoro. Dodici storie a temo indeterminato, apre con la considerazione che "Ci sono sempre più insetti al mondo". A dichiararlo è il protagonista e tutto il libro è narrato in prima persona. Il modo di parlare, i pensieri, sono sempre quelli di Andrea, mentre il narratore se ne sta in disparte, non commenta né giudica. Poi ecco come prosegue:
Con questo soliloquio ha inizio il romanzo che narra le vicende di Andrea, un giovane che si sta avvicinando ai trent'anni e che, dalla nascita, vive in un piccolo appartamento di un'anonima periferia romana. Con i suoi genitori, visto che con quel che guadagna (900 euro al mese) lavorando come inserviente in una mensa aziendale, non potrebbe certo permettersi il lusso di vivere in una casa tutta sua, indipendente. In affitto, né, tantomeno, accedere a un prestito per comprarsela, come ha fatto il suo collega di lavoro Fabio che pensa sempre alla casa, alle rate da pagare per estinguere il mutuo e non fa che ripetere a tutti "la casa è la prima cosa". Il protagonista non odia i genitori, né la periferia dove vive, anche se vorrebbe andarsene: lì è nato, lì è cresciuto. Eppure Andrea si sente estraneo a tutto e circondato da estranei: «a volte la gente mi fa paura. Hanno facce strane, anche le persone che uno potrebbe dire "normali", anche quelle a volte non sono normali per niente.»
Ha delle visioni ricorrenti, probabilmente originate dalla paura, dall'insicurezza esplicitata fin dalla prima pagina del libro, e allora può capitargli di sognare, anche a occhi aperti, nuvole di soldi che gli volano sulla testa. Quella paura che poi esploderà negli incontri/scontri con un grosso cane che lo terrorizza quando è costretto a passargli davanti, di ritorno a casa. Eppure di quel cane ammira la forza e la cattiveria, la stessa capacità di incutere terrore.
Lui sogna di possedere una montagna di soldi, non tanto per comprarci delle cose particolari. Andrea non ha delle passioni da alimentare con fiumi di denaro. Tipo: frequentare i più bei posti del pianeta, possedere macchine superpotenti e costose, donne a volontà, magari una barca... No, lui è un semplice, non vuole "fare" il ricco ma, più concretamente, vuole "possedere" i soldi. E non tanto per non affogare (in fondo ha una famiglia alle spalle più o meno solida, un casa, sebbene piccola, un lavoro fisso, sebbene non il meglio che possa offrire il mercato) ma per non "sentirsi" affogare, per non vivere più con questo terrore addosso. Vuole i soldi per distanziarsi di più da chi sta sotto di lui nella gerarchia economica e sociale della sua squallida periferia urbana. Per non correre il rischio d'essere risucchiato verso il basso, da quelli che vivono per strada e poi essere scambiato per uno zingaro, un rumeno, un vagabondo. Allora sarebbe la fine, la follia, la morte.
La disgregazione sociale genera mostri, le ingiuste ed eccessive disuguaglianze sociali alimentano il male. Il vuoto riempie la teste anche delle persone normali e tranquille, magari che hanno persino un lavoro, una casa, dei genitori perbene, che frequentano la parrocchia, talvolta si prestano ad aiutare qualcuno in difficoltà, provano a sedare una rissa tra derelitti... Persone come Andrea, appunto, nemmeno assuefatte dalla televisione.
Il sangue non scorre solo alla fine del romanzo, quando Andrea deciderà di accettare l'offerta del cinico Francesco, "il cattivo maestro", sebbene della sua stessa età, l'amico ricco che vive nel suo stesso quartiere, però in una grande e moderna villa. Conosciuto per caso, per via di quel suo cane che lo terrorizzava, anche Francesco è infelice per via dei soldi: ne ha in abbondanza, sì, però non tutti quelli che potrebbe avere se il padre non gli rompesse le scatole. Così Andrea si vedrà piovere addosso un'inattesa offerta di morte, un patto faustiano, ma che, a lui, porterà la vita. La nuova vita tanto agognata, quella con i soldi. Fin dalla prima parte del romanzo la rabbia comincia a far sprizzare il rosso, ovvero il sangue, quello che fuoriesce dalle mani di Andrea quando si scortica le nocche strofinandole sui muri. Come se il dolore fisico potesse distoglierlo dai brutti pensieri, dal disagio, dalla rabbia, dalle ossessioni. Un'insoddisfazione profonda quella di Andrea, che potrebbe imboccare una direzione opposta a quella che poi sceglierà. A un certo punto infatti, durante una funzione religiosa, sembra come attratto, ipnotizzato da un cammino spirituale, di fede, dall'accettazione della rinuncia e della sofferenza. Andrea non è cattivo, infatti, anzi sa essere gentile, ed è come attratto dai miserabili. Eppure è risucchiato da un buco nero, da quel desiderio morboso di denaro che poi è anche il rifiuto di condurre una vita di stenti e sacrifici, di duro e alienante lavoro per chissà quanti anni, per poi godersi un po' di tranquillità al raggiungimento della pensione. Se uno ci arriva.
Nella società occidentale la prosperità la si è raggiunta da tempo, si è diffusa parecchio, e chi non ne gode ne soffre la mancanza in modo spaventoso, di più che in passato. Invidia chi sta meglio e chi sta meglio, normalmente, ostenta il proprio benessere, sembra quasi godere della rabbia e dell'invidia altrui, di chi sta sotto. Inoltre la bella vita, la vita facile con i soldi, sembra così a portato di mano: basta gettare uno sguardo in giro, ai negozi di lusso in Centro, o alla pubblicità in televisione, nelle riviste patinate, nei grossi cartelloni lungo le strade, issati sui palazzi.
Andrea, dicevo, non è cattivo. Dentro di sé, come tutti, ha il bene e il male ma, a un certo punto, e quasi casualmente, il male avrà in lui il sopravvento e traccerà, forse per sempre, la sua strada. Si convince, nella sua logica abbacinata e ingenua, che solo la violenza (quel "primo sangue" del titolo) potrà salvarlo, cioè fargli scorgere quel sole che, da quasi povero com'è, non riesce a vedere.
Il primo sangue è un romanzo breve ma complesso, ben costruito. Lo si legge dall'inizio alla fine con un nodo alla gola, non dice una parola di più dello stretto necessario. Lo stile essenziale è dovuto al fatto che l'autore non interviene mai: è sempre Andrea che parla (ovviamente ispirato dal suo creatore) e quel che leggiamo sono soltanto le idee, i pensieri, le visioni di un giovane venticinquenne. Eppure questo nuovo lavoro di Federico Platania, proprio perché così rigoroso e secco, privo di compiacimenti letterari, alla fine risulta non solo una storia che convince e inquieta, ma anche un'efficace opera di protesta sociale e politica.
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INTERVISTA A FEDERICO PLATANIA Nel tuo romanzo Il primo sangue ci sono diversi punti di contatto con il precedente libro di racconti Buon lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato, pubblicato nel 2006 con lo stesso editore. Anche qui, per esempio, si parte dal tema del lavoro: sempre alienante, totalmente distaccato da quello che è il carattere o le intime esigenze di un uomo, di un lavoratore. Però qui, nel romanzo, poi ci si concentra direttamente sugli stipendi e, in modo ossessivo, sul denaro.
Direi, senza scomodare altri temi, che è proprio il denaro l'argomento principale del romanzo. C'è una frase che uno dei personaggi pronuncia a un certo punto della vicenda: «I soldi, ce li hai o non ce li hai, ti fanno comunque diventare una bestia.» Ritengo che riassuma bene l'alternativa, che poi alternativa non è, di fronte alla quale si trova il protagonista della mia storia.
Andrea, Il giovane protagonista del romanzo, fin dall'inizio appare preoccupato per il proprio destino. Un giorno finiranno i soldi, pensa, magari perderò il lavoro, i genitori, e mi sentirò peggio di un cane bastonato.
Chi dice «la casa è la prima cosa» è almeno riuscito a dare una forma concreta, e in fondo non così irrealizzabile, ai suoi desideri. Andrea ha un'ossessione più astratta e per certi versi più pericolosa. Ha fame di denaro fine a se stesso. Non sa esattamente cosa farebbe se avesse davvero tutti i soldi che vuole, e in fondo non sa neanche quanti soldi vorrebbe. Ne vuole di più, ne vuole tanti, come un bambino che passa davanti alle vetrine di una pasticceria sognando di mangiare tutti i dolci che vede senza neanche chiedersi se davvero ce la farebbe a mangiarli tutti. Andrea misura le persone sulla base di quanto guadagnano. Ma attenzione: non lo fa con atteggiamento snob, come fa chi crede, ad esempio, che se guadagni tanto vuol dire che conti tanto, che sei importante. Lui non vuole contare. Lui vuole stare tranquillo, crede (e, in fondo, ce la sentiamo di dargli completamente torto?) che solo il denaro gli darà questa tranquillità.
Il titolo di questo numero di "Fili d'aquilone" è "Identità & Conflitto" e il tuo romanzo ha molto a che fare con questo argomento.
Non vedo questa ambiguità. L'alternativa che Andrea si trova di fronte, a un certo punto del romanzo, è estrema, ma molto netta. Da un lato lui ha la prospettiva di continuare a fare la solita vita di sempre, contando gli spicci per arrivare alla fine del mese, senza potersi permettere mai un lusso, niente, senza poter mai tirare il fiato. E pensa che questo lo condurrà alla follia. Dall'altro lato vede la possibilità della la violenza, cioè superare il confine dell'etica e compiere il male (omicidio, furto, il crimine in ogni sua forma) e guadagnarci su.
A un certo punto Alessio, un collega di Andrea, afferma "La verità è che noi siamo come anestetizzati. Questo fatto che ci arriva lo stipendio alla fine del mese e con quello ce la dobbiamo cavare, alla fine ci manda in pappa il cervello."
Ogni generazione è convinta che i tempi che vive siano i più avanzati dal punto di vista tecnologico e i più degenerati da quello morale. «Dove andremo a finire?» è il lamento che risuona in ogni epoca storica. Il problema è che (beckettianamente, fammi dire) noi... non finiamo mai. Ci siamo sempre, persistiamo. E allora forse hanno ragione quelli che dicono che i tempi, invece, si equivalgono tutti. Come hai detto tu, appunto: «Ma non è stato sempre così?».
Andrea vive in un'anonima periferia romana e questo sembra peggiorare il suo istinto solitario, acutizzare la sua strana sensibilità, sfilacciare i suoi pensieri un po' folli.
Questo è sicuramente vero, parallelamente dovremmo chiederci quanto oggi la gente voglia vivere insieme agli altri. È un discorso molto complesso, questo della riqualificazione delle periferie: a volte chi appare come una vittima di una certa condizione ne è, magari inconsapevolmente, anche causa.
L'incontro, grazie a un cane, tra lo "sfigato" Andrea e il ricco (e sicuro) Francesco, anche lui assillato dai soldi (li ha ma ne vorrebbe di più), segna una svolta, tanto decisiva quando drammatica, del romanzo. Eppure il fortuito incontro segna anche un momento di novità, una specie di oasi, di arricchimento nella vita di Andrea. Potrebbe infondergli "la scossa" per cominciare a vivere in modo diverso, più attivo e coraggioso... e, in effetti questo accade, sì, ma seguendo un percorso di morte.
Francesco è un catalizzatore, è una porta di accesso verso una nuova vita che a un certo punto si apre, come per magia, nella wasteland infernale in cui Andrea vive e fermenta. Il ragazzo ricco e il ragazzo povero. Anziché odiarsi, disprezzarsi, scambiarsi reciprocamente il disgusto del primo con l'invidia del secondo, decidono di allearsi.
Il romanzo finisce bene, per Andrea.
E deve fare paura, perché la cosa che almeno a me terrorizza di più non è tanto la possibilità di compiere il male, quanto l'idea che ci si possa abituare a questo. Qui siamo in un territorio delicato, dove entrano in gioco sensibilità etiche e religiose, ma personalmente sono convinto che il bene e il male esistano e che ognuno di noi - se dà ascolto alla parte più intima e per certi versi scomoda del proprio io - sia perfettamente in grado di distinguerli. Ma al tempo stesso credo che se non stiamo attenti, se perdiamo questa sorta di sensibilità interiore, possiamo non accorgerci più di aver attraversato il confine.
Il linguaggio de Il primo sangue è assai più secco ed essenziale di quello che hai utilizzato nei racconti di Buon lavoro che tendeva al paradosso, al grottesco: il fatto di esserti messo, come narratore, dal punto di vista di Andrea ti ha obbligato a una scelta linguistica più piana e scarna?
Mi ha obbligato a una lingua più vera, forse. Per me la lingua è fondamentale, come per ogni scrittore, immagino. La trama ha la sua importanza, ma se non c'è uno stile che la supporta il lettore non lo conquisti. Magari lo incuriosisci, ma non lo conquisti, non lo emozioni.
Il titolo da te scelto, "Il primo sangue", fa pensare che prima o poi ne scorrerà dell'altro, come se Andrea avesse imboccato una strada senza ritorno.
Beh, questa è la sua idea, è il suo nuovo progetto di vita. Non sappiamo, non lo so neanche io che il libro l'ho scritto, come andranno le cose dopo, perché il romanzo finisce dopo il primo sangue, appunto. Credo però che anche in questa scelta Andrea si dimostri particolarmente ingenuo, così come ingenuo e suggestionabile l'ho presentato durante tutto l'arco della narrazione.
Un'ultima domanda Federico, ritornando al tema di questo numero di "Fili d'aquilone".
Lo so che le frasi fatte sono brutte, ma stavolta una me la gioco: «non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.» Sicuramente il mondo, il mondo di Andrea in particolare, non è capace di parlargli come dovrebbe. Ma è vero pure che anche quando qualche segnale forte gli arriva, Andrea non lo ascolta, o se lo ascolta se lo lascia sfuggire.
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da IL PRIMO SANGUE Cerco una scusa come se fosse colpa mia che mi hanno preso a botte. Alessio me l'aveva detto di lasciar perdere, di andare a casa senza fermarmi, e infatti lui è andato a casa sua, ma io mi ero fermato mica per fare chissà che cosa, volevo solo capire.
I due se ne stavano dall'altro lato del marciapiede mentre io e Alessio stavamo tornando a casa a piedi dopo aver bevuto una birra al solito bar. E io non solo non ero ubriaco, ma anzi ero completamente sveglio, proprio lucido. Però quelli erano sull'altro lato del marciapiede, quindi significa che ho dovuto attraversare per raggiungerli e forse è stato anche questo che li ha insospettiti. Con Alessio, poi, che dall'altra parte mi urlava «Ma che fai? Lascia perdere, non ti impicciare», ma io non volevo impicciarmi, volevo solo guardare che succedeva.
C'erano questi due che litigavano. Non si capiva bene chi fossero. Erano vicini a un lampione, ma questo sfarfallava e quando loro due parlavano le loro facce si muovevano a scatti, come quando accendono le stroboscopiche in discoteca. Il primo dei due ha tenuto per quasi tutto il tempo le mani nella tasca del giubbotto. E l'altro invece stava camminando con una busta di plastica in mano.
Quando ho deciso di raggiungerli quei due avevano già cominciato a urlare. «Che c'hai problemi?», diceva quello con la busta di plastica in mano. «Zingaro di merda», diceva l'altro. Allora ho tirato Alessio per la manica del giubbotto e gli ho fatto segno di andare a vedere. Pero lui prima ha fatto finta di non capire e poi ha continuato a camminare e quando ho attraversato la strada per andare a vedere mi ha proprio urlato dietro «Lascia perdere, non ti impicciare». Però io sono andato lo stesso.
Quelli neanche se ne sono accorti, all'inizio, che io ero lì vicino a loro. «Quale zingaro? Io non sono zingaro&traquo;, diceva quello con la busta di plastica. L'altro soffiava forte, faceva versi strani con la bocca e non staccava gli occhi di dosso all'uomo che aveva davanti. Questo si vedeva che aveva voglia di andarsene da lì il prima possibile, ma forse aveva paura che l'altro avrebbe attaccato. Allora stava lì, stringeva forte la busta di plastica nella mano destra e prendeva tempo.
«Zingaro di merda, che ti sei rubato?», ha detto l'uomo con le mani in tasca facendo una mossa col mento verso la busta di plastica. «Non sono uno zingaro, sono rumeno e non rubo», ha detto l'uomo con la busta. «È uguale. Rumeno di merda, zingaro di merda, extracomunitario di merda», ha ripreso quello. Allora io ho detto «Non è extracomunitario. I rumeni adesso non sono più extracomunitari». In quel momento si sono girati tutti e due verso di me, mi hanno guardato. Non si erano accorti che ero lì e mi hanno fissato con la bocca aperta. «Ma tu che vuoi?», ha detto l'uomo con le mani in tasca.
Io non sapevo che rispondere, perché non volevo niente, cioè volevo solo capire che stava succedendo. «Sei rumeno o sei uno zingaro?», ho chiesto io all'altro, proprio per capire meglio appunto. Ma quello non mi ha risposto, mi ha detto solo «Vaffanculo, ma tu che vuoi?». «È zingaro è zingaro», ha detto l'altro e mentre lo diceva ha tirato fuori un accendino dalla tasca, l'ha acceso e ha passato la fiamma sulla manica della giubbotto dell'altro. «Brucia zingaro, brucia», diceva mentre sventolava l'accendino lungo tutto il corpo dell'altro, e rideva.
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Federico Platania è nato a Roma, dove vive e lavora, nel 1971. Esordisce con scritti su riviste letterarie nella seconda metà degli anni Novanta. Nel 2006 pubblica il libro di racconti Buon Lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato (Fernandel) e nel 2008 il romanzo Il primo sangue (Fernandel).
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